sabato 29 novembre 2014

Dedicato


Alla fine sono arrivato, era ora, ero stanco, non mi lamentavo, non l’ho mai fatto, ma sono felice di essere finalmente partito. Ci sono ancora piccole formalità da sbrigare, attese, tempi morti, ma sono in viaggio, ed ormai si contano i giorni.
Gli altri li contano, per essere precisi, forse, io ho smesso di contarli, dopo una vita trascorsa a farlo, dopo anni impiegati per costruire, lavorando.
Del resto pure tu non hai avuto le cose facili, e non so neppure, ora, se sei stata più fortunata o sfortunata di me. Ora che dovrei saperlo, non lo so, ed in fondo credo che non conti neppure.
Se penso a quando tu avevi deciso di partire ti confesso, te lo devo dire, che non mi era piaciuto per nulla. Non credo di averti perdonata di questo, all’inizio, anzi, ne sono certo. Poi mi sono adattato. Ho finto di accettare la situazione. Dicono che sia normale farlo, ed io ho finto di farlo, tutti si aspettavano che lo facessi, ed ho recitato.
Non so neppure se i bravi attori fingono o entrano nella parte diventando i personaggi che interpretano. Io ho fatto entrambe le cose, quando sono rimasto solo. A volte fingevo, altre volte ero veramente come mi vedevano.
Raramente mi sono lasciato sfuggire sprazzi di verità, ma ho quasi sempre saputo tacere, subito dopo, per non far nascere o crescere sensi di colpa. Ho sorriso, ho accettato le offerte che mi venivano fatte, anche se non erano quelle che avrei voluto, dalle persone che avrei desiderato.
Della vita ho capito una cosa, e credo di averla capita molto bene: lamentarsi non porta da nessuna parte. Non che io non mi sia mai lamentato, ma ho sempre cercato di non farne una bandiera, un modo di essere. Mi lamentavo per conto mio, è chiaro, ma non mi andava di farlo pesare.
Per il resto devo dire di aver avuto la testa dura, lo sai molto bene. Quando mi mettevo in testa una cosa, specialmente se tu eri dalla mia parte, cercavo in tutti i modi di ottenere quello che mi interessava, che ci interessava. Chiedevo aiuto, favori, offrivo quello che potevo in cambio, in modo onesto, senza barare mai o approfittare della fiducia di nessuno.
Ma ci siamo pure divertiti, devi ammetterlo. A modo nostro, certo, come altri non capivano, probabilmente, e come alcuni non avrebbero mai fatto. Ma ci siamo divertiti, quando ne abbiamo avuto la possibilità.
E poi, dillo, con me non ti sei mai annoiata. Ti ho portata in giro anche quando tu avresti preferito sicuramente stare tranquilla. Ti ho letteralmente trascinata. Ti ho tormentata, per amore, facendoti correre, quando tu avevi purtroppo già smesso di correre, e non mi sono mai pentito di quello che ho fatto. Questo lo sai. Esattamente come ora sai che sono felice di essere finalmente partito per venirti a trovare. E tra poco ci sarà il tempo per riposare, assieme.

                                                                       Silvano C.©


 Dedicato a mia madre e a mio padre


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venerdì 28 novembre 2014

Il treno non mi piace più


Già su questo blog nel quale raccolgo ormai di tutto, non senza averlo però prima salvato su una mia memoria personale e sicuramente non su una nuvola, come vorrebbero certi guru informatici totalitari ed accentratori di potere, ho scritto del mio rapporto con le biciclette. Ora prendo spunto da quest'idea, per allargare il discorso.

Non ho mai comprato, per me, una bicicletta nuova. Rifiuto l’idea della bici tecnologica, di moda, griffata o superleggera. Sicuramente ottima e funzionale, adatta a professionisti del ciclismo e ad atleti della domenica, per certi aspetti pure bella e, non lo nego, interessante anche ai miei occhi. Ma devo declinare la seducente offerta. No grazie. Mi sentirei a disagio su una bici del valore di più di un centinaio di euro, e contemporaneamente rifiuto le offerte commerciali di certe catene di supermercati di bici luccicanti ma di pessima qualità, economiche ma con componenti di plastica, colorate ma pronte a lasciarti a piedi dopo pochi giorni, e, aggiungo, difficili pure da riparare.

Quindi mi resta solo l’usato, e con un po’ di fortuna trovo quasi sempre quello che mi interessa, col giusto rapporto qualità prezzo, con meno fronzoli e più funzionalità. In altre parole, mi piace la bici euro zero.  Anche l’auto mi piacerebbe euro zero, e vorrei, fatto l’acquisto, che mi durasse una vita, facendo ovviamente le necessarie manutenzioni sia per averla in efficienza sia per rispettare la legge. Ma con l’auto non è possibile. Le norme prevedono che sia anche recente, come motorizzazione, altrimenti scattano spesso penalizzazioni e blocchi nella circolazione, come se chi guida una vecchia auto di 15 anni fosse un delinquente inquinatore del nostro mondo altrimenti pulito ed immacolato.

Ma chi possiede un rombante ed enorme suv di tre mesi ha un comportamento più rispettoso dell’ambiente e della comunità? Quanto costa produrre quel mezzo e per quanto tempo sarà in circolazione prima di essere giudicato a sua volta obsoleto? So bene che quella persona lo cambierà, nel giro di pochissimi anni, fortunata lei, ma il problema del destino di quel mezzo sovradimensionato rimane, perché qualcun altro lo userà, dopo, a meno che non si pensi di demolirlo, con quello che costa, dopo tre anni.    

Tu che leggi mi dirai: ma perché non usi i mezzi pubblici, come autobus e treni? Facile la risposta: non sono funzionali come l’auto privata. Non sono pronti a partire in caso di emergenza. Non mi portano da porta a porta. Non mi consentono di spostare oggetti ingombranti.
O sono economici, ed allora il servizio è sempre più vicino a quello fornito nei paesi emergenti e mi fanno sentire decisamente “povero”, oppure costano un piccolo capitale, e non reggono il confronto con l’auto su certe tratte, ad esempio la Rovereto-Ferrara, linea ferroviaria decisamente sfortunata, con previsto almeno un cambio, se non due, regionalizzata e con coincidenze che non esistono più nemmeno sulla carta, figurarsi in un viaggio reale. Il taxi non lo reputo un servizio pubblico alla stregua dell’autobus, e non mi dilungo a spiegartene i motivi, che spero tu intuisca da sol*.

E poi, con i treni, io inizio ad avere il dente avvelenato. Una volta c’erano la prima e la seconda classe. Si poteva viaggiare di notte. Si poteva programmare in seconda classe un viaggio Ferrara-Roma senza dover recarsi all’agenzia o agire on-line, ma semplicemente andare a comprare il biglietto, senza prenotarlo. Si viaggiava con un minimo di dignità. Ora quel tempo è finito. La dignità si paga. E in tali condizioni io pago la mia auto, lo preferisco.

Se poi mi hai letto sin qui e ti è venuto il dubbio che io parlassi a Caio perché capisse Sempronio, hai ragione. Ho deviato su un tema relativamente neutro una notevole rabbia di fondo causata dall’impotenza di intervenire su certi processi, di fermare le cose belle che il tempo ci porta via e di farmi capire da chi in qualche modo dice di farlo ma, poi, in determinate situazioni, dimostra esattamente il contrario. Ma non mi va di scendere in particolari e mi fermo solo sulla porta, senza entrare.
                                                                       Silvano C.©


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mercoledì 26 novembre 2014

C’era una volta...


C’era una volta, tanti anni fa, in un paese vicino vicino, un meccanismo sociale che non funzionava benissimo e non è durato molti anni, a dire la verità, ma che è esistito, lo giuro.
Il figlio del dottore spessissimo diventava un dottore, quello del notaio un notaio, quello del meccanico un meccanico. Ogni tanto però qualche figlio di operai o di proletari, udite udite, poteva studiare, anche se con sacrifici dei genitori, ed ambire a posizioni sociali un po’ migliori di quelle di partenza della sua famiglia.
Non parlo dei geni o dei fuoriclasse, che in ogni epoca storica hanno saputo, prima o poi, affermarsi. Io mi  riferisco a persone del tutto normali, comuni, senza particolari eccellenze da vantare. Anche a loro il mondo offriva qualche opportunità, non ovviamente come ai figli di papà, ma il miglioramento era alla portata di tanti.
Poi non ho capito cosa sia successo esattamente. Ho vissuto in quel paese vicino vicino e, improvvisamente o quasi, tutto è mutato.
Colpa del debito pubblico accumulato in modo assurdo a partire in particolare dagli anni della Milano da bere? Colpa dell’internazionalizzazione del mondo produttivo, economico e finanziario? Colpa dei paesi emergenti come Cina ed India? Colpa della caduta del muro di Berlino? Forse colpe precedenti, legate al periodo del ’68, con le grandi illusioni giovanili svendute da chi un posto in azienda o nel pubblico intanto se lo stava preparando, fingendo la rivoluzione con gli allocchi che gli prestavano fede? Colpa dell’Europa troppo allargata e dell’Euro nato debole come moneta senza una vera politica comune dell’intera Europa, sempre più egoista e regionalista? Colpa di risparmiatori che cercano il massimo profitto ignorando l’etica o di chi compra solo prodotti stranieri? Colpa della sinistra che non sa stare unita ed esprimere una guida condivisible, e che dopo Berlinguer o Pertini, che in troppi citano tra i loro padri spirituali e politici, si è sfaldata in modo quasi irreversibile, incapace di capire che quel paese vicino vicino non è mai stato di sinistra?
Colpa di molti politici di professione che scambiano il loro servizio pubblico per una fonte di guadagno personale, e pensano praticamente solo ai loro diritti, ai vitalizi, ai vantaggi per loro e le famiglie?
Io non so da cosa dipende lo stato attuale delle cose. Forse da tutte le cose che ho citato e da tante altre, so soltanto che in tutte le favole che iniziano con: “C’era una volta…” prima o poi arriva sempre un principe azzurro a baciare la bella addormentata ed a sconfiggere il drago. Si presenta un eroe senza macchia  e senza paura che attraverso molte prove diventa un campione della giustizia e del lieto fine.
(Speriamo, ovviamente, non della fine.)

                                                                       Silvano C.©


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martedì 25 novembre 2014

Basta con le vaccinazioni obbligatorie



ANDRE KOHN - Into the rain!

Di fronte all’integralismo ottuso io credo che sia il caso di lasciar perdere, in particolare quando a perdere sarà esattamente chi opera la scelta sbagliata che lo penalizzerà.
Per anni, e anche ora, si sono spesi e si spendono tantissimi soldi pubblici per coprire con un ombrello protettivo larghe fasce della nostra popolazione. La profilassi, la prevenzione di danni gravi e prevedibili in caso di infezione di un particolare agente patogeno, è una pratica fondamentale per la salute pubblica, ma come ogni attività umana non è esente da rischi. Ci sono casi nei quali qualche cosa va storto, o per effettiva colpa delle case farmaceutiche o per fatalità, che anche nella medicina è sempre in agguato.
Io ho già trattato il tema delle vaccinazioni, qui, ma più passa il tempo più mi rendo conto che è energia sprecata voler convincere i genitori a vaccinare i loro figli oppure gli adulti a vaccinare sé stessi, nei casi nei quali sarebbe consigliabile.
A questo punto renderei le vaccinazioni, tutte le vaccinazioni, non obbligatorie, ma le vorrei sempre gratuite come già sono ora in quasi tutti i casi.
Darei disposizione alle varie strutture sanitarie territoriali di somministrarle solo in caso di richiesta formale degli interessati, che se ne assumeranno ogni responsabilità, cioè rinunceranno a qualsiasi rivalsa nei confronti dell’ente pubblico per incidenti legati a reazioni impreviste e gravi al vaccino, sempre possibili tra le conseguenze, seppure in misura contenuta. Renderei altresì automatica e gratuita ogni cura medica e di conseguenza ogni aiuto economico in tutti i casi di effetti collaterali gravi, perché la solidarietà non può ignorare chi è in situazioni di pericolo o di danno o di bisogno.
Allo stesso tempo, tuttavia, negherei la gratuità di ogni cura medica ed ogni sostegno economico a chi dovesse infettarsi e subire danni permanenti in seguito, ad esempio, alla contrazione del morbillo avendone rifiutato la vaccinazione nel periodo durante in quale era consigliabile effettuarla.
Si tratterebbe di responsabilizzare le persone, cioè di far capire loro che ogni scelta porta a conseguenze, e nessuna opzione è esente da rischi, come ho specificato.
Se il ministero della salute ed i medici valutano che siano maggiori i rischi legati alla contrazione di una certa malattia rispetto a quelli della vaccinazione, e mettono i cittadini nelle condizioni di scegliere liberamente, suggerendo ed offrendo la vaccinazione, chi la rifiuta ne pagherà le conseguenze, poiché è evidente che diminuendo il numero dei vaccinati il rischio per coloro che rifiutano il vaccino è destinato ad aumentare nel tempo, in modo sempre più veloce. Ma, in quel caso, chi ha tentato da furbo ed opportunista di approfittare della copertura data loro da chi si è vaccinato ed ha accettato i rischi, si troverà sempre più esposto a situazioni di possibili infezioni. E pagherà economicamente, non solo con la malattia, ogni conseguenza delle sue libere scelte.
Avere solo vantaggi e nessuna responsabilità in caso di problemi è troppo comodo. Se abbiamo il libero arbitrio, usiamolo. Agli obiettori la scelta finale.

                                                                       Silvano C.©


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lunedì 24 novembre 2014

Te lo dico in due parole: è difficile


Se ti dicessi che è facile mentirei, prima di tutto a me stesso, e poi a te.
Non è facile per nulla ottenere un certo risultato al quale tieni molto, in qualsiasi campo si tratti di intervenire. A meno di colpi di fortuna che possono sempre capitare, o di carte truccate sin dall’inizio, ogni cosa ha un suo prezzo che pagherai. 
La comprensione di una certa situazione politica, la soluzione di un problema economico, la progettazione di una costruzione, il successo sul piano personale e lavorativo, la soddisfazione sul piano emotivo, sentimentale e sessuale e tanti altri aspetti della nostra vita di ogni giorno prevedono difficoltà più o meno grandi.
In certi casi si tratta letteralmente di dedicare ad uno scopo l’intera vita, o di studiare per anni, allenarsi in modo costante senza cedere mai o quasi mai.
Un musicista concertista non può permettersi di non studiare il proprio strumento e di ignorarlo per troppi giorni. Se lo fa, se commette l’errore di farlo, recuperare il livello precedente sarà molto duro per lui.
Quindi la televisione come la conosciamo negli ultimi anni, in particolare molti suoi programmi di cosiddetta informazione o divulgazione scientifica, è semplicemente un antipasto per raggiungere una discreta conoscenza in quel campo specifico. Poi occorre preparare il pranzo, ma farlo sul serio.
Ovviamente la televisione di semplice intrattenimento è tempo perso ai fini del raggiungimento di un qualsiasi risultato, e la tv spazzatura, al lato opposto della gaussiana, ne è la perfetta antitesi.
Chi si guarda certi programmi apparentemente accattivanti, ma in realtà beceri e volgari, disinformati, depistanti e creati chiaramente in malafede per mantenerci ignoranti si comporta da sottosviluppato intellettuale, e non può accusare le emittenti di passare solo quella merda, come se la colpa fosse sempre degli altri. Da un certo momento in poi (per la legge italiana dai diciotto anni) ciascuno di noi diventa del tutto responsabile delle proprie azioni, e la colpa non ricade più sui genitori, sulla scuola, sulla società. Da quel punto in avanti noi abbiamo la piena responsabilità delle scelte che operiamo, anche se sono sempre previste attenuanti generiche e specifiche delle quali però non si deve abusare.
È difficile, insomma, è costoso, è faticoso e non offre garanzie di successo. Si può continuare a restare poveri, ad ammalarsi, a non ottenere il rispetto o l’attenzione di quelle persone, e si può ancora non ottenere il lavoro che si vorrebbe. Ma non ci sono scorciatoie. Occorre approfondire e studiare, colmare le ignoranze una alla volta, fingere che non ne esistano altre per un attimo, in attesa di scegliere il passo successivo.
Ci sono libri, biblioteche pubbliche e private, fonti serie in rete, pubblicazioni, conferenze, manifestazioni, partiti e movimenti politici, persone in carne ed ossa che, di volta in volta, possono aiutarci a rendere solo un po’ meno difficile quello che deve essere e rimanere difficile.
Se così non fosse anche la soddisfazione di aver raggiunto un obiettivo per quanto piccolo non la proveremmo mai, e quella è una delle cose più belle che ci riserva la vita.

                                                                       Silvano C.©


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Il donatore di sangue


Cosa ci può essere di più bello che donare a chi ha bisogno, e che magari grazie al tuo dono riesce a vivere meglio, o addirittura può vivere? In questo caso poi il dono non porta a controindicazioni, si limita ad un lieve fastidio, non pregiudica in alcun modo il tuo quotidiano se non per quei minuti, poche volte in un anno. Addirittura donare il sangue, per un maschio adulto e sano, è uno stimolo a far funzionare meglio il proprio sistema emopoietico, cioè quei tessuti che producono globuli rossi, globuli bianchi e piastrine, a tenerli più allenati, in un certo modo, visto che i maschi, sino a prova contraria, non hanno piccole perdite mensili di sangue con le mestruazioni.
Magari a correre qualche rischio sono coloro che lo ricevono il tuo dono, perché potrebbe portare malattie non ancora scoperte o per altri diversi motivi che per fortuna, con i progressi della medicina, diventano sempre più improbabili.

Io conosco una persona che ha donato sangue a lungo, nella sua vita, ma per un motivo strano, per qualcuno difficile da capire. Non lo ha fatto per un senso di solidarietà, anche se non era neppure del tutto assente. Non per soldi, cioè non ha ricevuto compensi in denaro per le sue donazioni, ma solo un piccolo omaggio che tradizionalmente si fa ai donatori: una consumazione al bar oppure un pacchetto di pasta. Non lo ha fatto neppure perché chiamata per un’emergenza, non le è mai successo. Neppure per ottenere analisi gratuite o per averne vantaggi sul posto di lavoro, cioè per farsi un giorno o qualche ora di vacanza extra e retribuita.
Macché. Ha donato il sangue perché aveva paura di farlo, e voleva dimostrare prima di tutto a sé stessa che quella paura la sapeva controllare, superare.  Incredibile, vero? Donare come sfida, come dimostrazione di poterlo fare. Senza inutili altruismi, buoni sentimenti, solidarietà. Donare per una sorta di egoistica affermazione della propria volontà. Del resto cosa spinge un uomo a conquistare una vetta o lo spazio se non il bambino che ancora si nasconde dentro l’adulto e vuole misurarsi col mondo?

                                                                       Silvano C.©


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domenica 23 novembre 2014

Il calcinculo


È successo qualche sera fa, esattamente in uno degli ultimi giorni nei quali alcune giostre sono rimaste in città.
Volevo passarci, anche se ho superato da tempo la stagione per quei giochi, ed avevo pure la fotocamera con me, perché a volte mi piace conservare la memoria per immagini di quello che mi capita attorno.

Già da lontano arrivava la musica, stranamente di molti anni fa, nulla di moderno, come se il tempo si fosse fermato. Poco ci mancava che sentissi cantare “In ginocchio da te” da Morandi per commuovermi sul serio. 
Sono arrivato al limitare della piazza dove stavano le attrazioni (cosi si chiamano, pare).
Il primo ad apparire è stato il calcinculo, giostra nobile dal nome che non le rende giustizia. Eppure si chiama così, ed a tutti è evidente che così deve chiamarsi, ha una motivazione pratica e descrittiva forte.

Mi sono fermato, senza avvicinarmi troppo, mentre il giostraio stava passando a ritirare i talloncini o i biglietti, controllando anche che tutti avessero ben chiuso il seggiolino appeso alle catene e quindi per evitare possibili incidenti. Meno di un minuto dopo il grande ombrello multicolore ha iniziato a muoversi, in senso antiorario, e in breve tutti i ragazzi si sono alzati da terra spinti verso l’esterno dalla forza centrifuga. C’erano molte coppie di ragazzi, spesso attaccati uno all’altra (ho notato solo coppie formate da un maschio ed una femmina), o che cercavano di raggiungersi.

La caccia alla coda da prendere è iniziata presto, ma alcuni partivano troppo presto, altri troppo tardi, altri ancora con troppo poca forza. Sembrava quasi che il giostraio dovesse iniziare a far scendere il trofeo dalla sua posizione, forse troppo alta, in modo da permettere ad uno di vincere il tradizionale giro omaggio quando è arrivata lei.
È spuntata con il tempo giusto, lanciata con precisione dal suo compagno che in quel momento piroettava in modo scomposto, ha semplicemente allungato un po’ la mano ed ha afferrato con sicurezza quella coda che penzolava nel vuoto esattamente al centro, con una mossa da manuale.

Dire che mi ha colpito è poco. Ho provato un piacere enorme nel vedere quella bella ragazza compiere l’impresa e il ragazzo che stava con lei soddisfatto di quello che aveva appena realizzato. Mi sono immedesimato in quella situazione, non ho potuto farne a meno. Vi ho trovato spunti per pensare a cose allegre, e poi per tornare a casa canticchiando, quasi che avessi vinto io un giro extra sul calcinculo.
                                                                       Silvano C.©


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#Brustlina 39 - Pubblicità ingannevole


Stamattina ho acceso la tv, ma in sottofondo, senza prestarle troppa attenzione. La mia parte che lavora sempre in background però, e utilizza risorse di sistema a mia insaputa, era all’erta.
Ad un certo momento sente la pubblicità di una lotteria nazionale e la voce annuncia, trionfale: «Puoi vincere 1500 euro al mese per 20 anni… !».
Bong. Il livello cosciente viene coinvolto, e si arrabbia, di default.
Ma porca paletta – penso – questa è pubblicità ingannevole. Come si fa a dire che posso vincere? Se posso significa che nulla mi impedisce di farlo. Compro il biglietto e vinco 1500 euro al mese per 20 anni, in modo automatico. Se posso significa che posso, presente indicativo, prima persona singolare, del verbo potere.  Un dato di fatto insomma. Come dire io mangio, io corro, io leggo.
La pubblicità avrebbe dovuto usare il condizionale, non l’indicativo.
Se io comprassi il biglietto, con una certa probabilità non molto esplicita ma sicuramente non con assoluta certezza,  potrei vincere 1500 euro al mese per 20 anni.

Ti sembra poca la differenza? Vuoi verificare con una esperienza semplicissima che puoi fare appena sei in strada? Bene. Attraversala all’improvviso senza guardare e vieni investito da un’auto.
Quando lo hai fatto torni (se puoi) e mi racconti com’è andata.
                                                                                          Silvano C.©


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sabato 22 novembre 2014

Natale dei Popoli 2014, a Rovereto

 Informativa sulla privacy
Per chi non abita a Rovereto ed intende visitarla ricordo che da oggi, 22 novembre 2014, e sino al 6 gennaio 2015, è aperto il mercatino di Natale. Qui, di seguito, alcune immagini di quello che vi si può trovare e vedere. Sono volutamente poche, per non togliere il piacere della scoperta...


















Se interessa questo è il sito ufficiale: Natale dei Popoli 2014 dal 22 novembre al 6 gennaio

Questa invece è la pagina Facebook


                                                                                           Silvano C.©

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Sempre meglio che lavorare


La frase citata sopra è stata usata molte volte, e probabilmente a coniarla è stato Luigi Barzini, giornalista d’altri tempi, che riferendosi al suo lavoro ha detto: "Il mestiere del giornalista è difficile, carico di responsabilità, con orari lunghi, anche notturni e festivi, ma è sempre meglio che lavorare". Poi l’ha usata Luca Goldoni come titolo per un suo libro, nel 1989. L’hanno pronunciata Marcello Mastroianni e Vittorio Gassman, spiegando che recitare è sempre meglio che lavorare. Anche  Michele Brambilla ne ha fatto uso per un suo libro, nel 2008. Quindi nessuna pretesa di originalità, da parte mia, ma solo una conferma della validità del concetto.
Quando ho iniziato ad insegnare, quasi per caso, spinto dalla necessità ma anche dalla curiosità per un’attività che mi sembrava interessante, dopo essermi scontrato con una realtà che mi aveva costretto a capire come andavano le cose del mondo, per molti anni ho pensato di vivere in un luogo di vacanza e non di lavoro.
Il Trentino del resto era ed è esattamente questo. Una bella terra, un posto magnifico per viverci, con le montagne che prima avevo conosciuto solo raramente, in occasioni di brevi viaggi di piacere. Ovviamente non è il paese della cuccagna, ma nei primi tempi era una scoperta continua, uno stimolo anche solo ammirandolo dalle finestre.

La cosa più importante l’ho capita in seguito, lentamente, e me ne sono reso conto in modo cosciente solo anni più tardi. La bellezza dell’insegnare è nell’insegnare stesso; nel rapporto che si riesce a creare con alcuni ragazzi, nelle litigate e nelle lezioni che loro sanno darti, non tu, pagato per farlo.
Prima di tutto il privilegio di poter giocare, entro certi limiti ovviamente, e di sperimentare esperienze, metodi, procedure, approcci diversi ai vari temi che dovevo trattare. Questa libertà, che a volte mi ha fatto commettere errori, mi ha restituito però la complessità delle possibilità. Ogni via percorsa per la seconda o terza volta si rivelava sempre diversa da quella apparentemente identica dell’anno prima. E la vera noia di ripetere in realtà non l’ho mai vissuta, perché la trasformavo sempre in un gioco per scoprire chi sarebbe stato il primo o la prima a dire quella certa cosa, che puntualmente arrivava.

Sono stato un vampiro, per molti anni, senza alcuna paura della luce del sole però, e succhiavo non il sangue, ma l’energia vitale dei ragazzi. Io cercavo di fare quello che ritenevo il mio dovere, e non ho mai puntato alla carriera, ma al rapporto con i ragazzi ci tenevo, e molto. Potevano veramente deprimermi in certi casi, con i loro comportamenti o in caso di problemi particolari. Una mia sfuriata sbagliata poi me la sognavo di notte, ma mi divertivo come un ragazzino invece quando potevo giocarci, o trovavo occasioni che mi permettessero di smettere in parte di essere il professore serio che dovevo essere.
Un 14 febbraio, ad esempio, nelle mie classi due poveri sfortunati si chiamavano Valentina e Valentino. Con una scusa apparentemente seria li feci uscire dalle rispettive aule dove stavano seguendo le lezioni di altri colleghi per portarli in uno spazio in quel momento vuoto e dove prima avevo costruito col cartoncino bianco una coppia di ali da far loro indossare. Sulle prime rimasero interdetti, poi cercarono di rifiutare, e poi accondiscesero e le indossarono. Seguito dai due Valentini poi entrai, dopo aver ovviamente bussato alla porta, in tutte le classi, e loro pronunciarono una frase di augurio legata agli innamorati ed alla giornata particolare.
Forse loro due in quel momento un po’ se la legarono al dito, ma in seguito, molti anni dopo, Valentina, non sembrava conservare rancore nei miei confronti quando la incontrai per caso, ormai laureata, mentre passeggiava con la madre.

Un'altra cosa magnifica, che solo molto dopo ho capito, è che i più rompiscatole, quelli che veramente durante le lezioni facevano di tutto per infastidirmi, spessissimo erano pure quelli che poi mi ricordavano con più affetto.
La vita è strana. È una sequenza di fatti, di esperienze, di persone che ti segnano. Tra le persone non di famiglia che mi hanno segnato di più sono stati alcuni miei insegnanti. Gli insegnanti ti segnano. Fanno un lavoro di responsabilità enorme, ma in fondo si divertono pure, quindi non mi sembra il caso di preoccuparsi troppo per loro, quanto piuttosto per il fatto che la scuola non perda certe caratteristiche di servizio pubblico e laico, di ambiente controllato ma allo stesso tempo libero. La burocrazia può fare molti danni, se si spinge oltre un certo livello di guardia.
E non vorrei che insegnare diventasse un lavoro.


Un ricordo grato a tre persone ora: 


Adriano Franceschini, mio maestro alle scuole elementari.

Ivanka Poppy Skobaj (non sono certo che il suo nome si scriva così) mia professoressa di matematica alle scuole medie.

Leo Raunich, mio docente di embriologia all’università.

Di altri miei insegnanti, alcuni ben più famosi, preferisco tacere.


                                                                       Silvano C.©


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venerdì 21 novembre 2014

Naturale



Se è solo naturale non ha senso darsi da fare per trovare una nuova cura a quella particolare malattia, rara o diffusa che sia. È naturale ammalarsi e andarsene, quando arriva il momento, senza chiedersi neppure il perché.



Se voglio difendere la natura devo smettere di rovinare il suo lavoro e asfaltare le strade dove lei produce crepe con le radici delle sue piante, o con i germogli che spuntano anche attraverso il cemento.



Non devo soltanto smettere di mangiare carne e quindi allevare animali per poi mangiarli, anche se in natura è naturale che i predatori mangino le loro prede, ma devo anche evitare di coltivare vegetali. Gli stessi vegetali infatti, quando noi li facciamo crescere per ottenere frutti o altre parti che poi mangiamo, producono gas serra, secondo recenti studi, e quindi se veramente desideriamo vivere senza modificare l’ambiente dovremmo semplicemente suicidarci, non ci sono alternative. Oppure, soluzione meno cruenta ma ugualmente ostica, nutrirci solo di bacche e radici trovate girando tra i boschi e le radure.



Naturalmente dovremmo seguire i nostri istinti: violentare quella donna che ci passa a tiro, se così ci viene l’idea, oppure rubare quell’auto o quei soldi dei quali abbiamo bisogno, o ancora imporre con la violenza e non con la politica la nostra idea di ordine, ammesso e non concesso che siamo animali sociali, come le api, e non individualisti, come le vespe.



Non parliamo poi di fedi religiose. Non esiste nulla in natura che dimostri l’opportunità di seguire una certa fede, che è una struttura solo umana, evolutasi nel tempo, organizzata e gerarchizzata, vissuta come se ci arrivasse da entità superiori che, tuttavia, non sono le stesse per tutti gli uomini. Cioè abbiamo divinità diverse, santi ed esempi da seguire che non coincidono tra i popoli. E litighiamo pure, o ci massacriamo, in nome di queste convinzioni.



Prima però viene sempre l’animale che è in noi, dal quale abbiamo preso tante cose e dal quale ci siamo emancipati. Dopo viene l’uomo, in senso completo, con le sue grandissime potenzialità, con la sua genialità nel bene e nel male (sempre ammesso esistano il bene ed il male, ovviamente).

Successivamente vengono le sovrastrutture che ci danno un senso, una via da seguire, una società, e pure su queste idee non troviamo praticamente alcun accordo condiviso. Queste sovrastrutture sono vissute infatti in modi diversi da ognuno di noi. Per alcuni il modello è rigido, indiscutibile, e sfocia facilmente nell’integralismo miope di chi vede solo l’errore in chi non si adegua ad una visione religiosa o atea.  Per altri le sovrastrutture sono meno vincolanti, o del tutto assenti in certi campi, e lasciano gli individui maggiormente responsabili delle loro scelte di coscienza (ammesso, come sopra, che abbiamo una coscienza).

Pare che secondo Charlie Chaplin fosse più importante, a tal proposito, la coscienza della reputazione. La coscienza siamo noi, mentre la reputazione è ciò che gli altri pensano di noi. E quello che gli altri pensano è un problema loro, secondo lui.  Questo ragionamento tuttavia è vero sino ad un certo punto, vivendo in una società, e quello che pensano di me amici, parenti, e in genere coloro che vengono in contatto con me, influenza eccome la mia vita, visto che non sono un eremita. Neppure Chaplin del resto era un eremita, ed ha bevuto sino in fondo quanto gli offriva la vita, avendo in tutto undici figli da quattro diverse mogli. Negli ultimi anni cioè fece il padre quando avrebbe dovuto fare il nonno.


Ed allora dove sta il significato di naturale, che valore dare alle scelte umane, ai problemi etici che ci vengono proposti già risolti da posizioni di parte?

L’unica realtà naturale è il mutamento, mi verrebbe da dire, il continuo adattamento alle condizioni esterne, senza il quale siamo destinati ad estinguerci. Il resto, forse, è solo sopravvivenza.



Dal punto di vista sociale tuttavia non voglio essere pessimista sino in fondo, perché la sopravvivenza e l’adattamento non escludono assolutamente che dobbiamo rinunciare a conquiste dei nostri padri e dei nostri nonni in nome della supremazia tra di noi in un’inutile lotta tra poveri.

Il DNA che le api operaie difendono, proteggendo l’alveare, è quello dell’ape regina, ma è anche il loro, senza entrare nei particolari. Questo significa che l’individuo può benissimo trovare il proprio ruolo tra gli altri, essere utile e riceverne un compenso, e non escludo che l’istinto di sopravvivenza possa generare, in futuro, un’era meno apocalittica di quella descritta dai catastrofisti e dai seminatori di odio. Tutto questo, ovviamente, in un’ottica del tutto naturale.

                                                                        Silvano C.©


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giovedì 20 novembre 2014

Ansia da prestazione


Dei primi momenti dell’infanzia che gli sono rimasti stampati in modo indelebile ricorda il suo misurarsi costantemente con le cose e con le persone.
Quell’albero difficile da scalare, che anche le ragazzine però sapevano affrontare meglio di lui.
Il gioco del pallone, per il quale si sentiva (ed era oggettivamente) negato.
E poi con le ragazze, un po’ più grande, quando avevano iniziato ad interessargli, e puntualmente trovava altri che lo superavano in velocità, simpatia, successo.
Anni dopo, sul lavoro, talvolta doveva rendere conto di conteggi burocratici idioti, di prestazioni richieste solo per forma, ignorando del tutto la sostanza o le effettive ricadute. Bastava essere bravi a scrivere relazioni, e in quello, quando decideva di deridere il sistema, ci riusciva bene anche se poi non ne ricavava alcuna soddisfazione.
A volte, mentre si trovava in intimità, provava un calo di desiderio improvviso, e quello non poteva fingerlo, ovviamente. Non poteva barare. Lei, se non era stronza, capiva, e gli dava l’importanza giusta, senza esagerare. Le altre, quelle che neppure lo vedevano, lo avrebbero demolito probabilmente, quindi meglio così, a conti fatti.
Quando iniziò a stancarsi di troppe cose ed ebbe la possibilità di andare in pensione, uomo fortunato, secondo i parametri odierni, ancora non del tutto distrutto nel fisico, si trovò davanti lo spauracchio del: “ ed ora cosa faccio?”.
Chissà perché gli altri si aspettavano da lui o che cadesse in una depressione incurabile oppure che trovasse mille nuovi interessi per mantenersi attivo ed efficiente.
« Ma pure adesso devono volere qualche cosa da me?», pensava innervosito, « Non basta che continui a seguire le cose che facevo prima, che tenga in ordine come posso, che segua chi riesco e che mi prenda pure un po’ di tempo solo per me?»
Evidentemente non bastava: una ex collega faceva volontariato e un altro si buttava, malgrado la sua età, in mille avventure faticose e pericolose. Alcuni avevano nipotini da seguire, ma lui no, non ne aveva. Era colpa sua pure quella?
Gli anni passavano, intanto, e ad un certo punto si ritrovò, senza neppure capire come, su una sedia a rotelle, perché non poteva più camminare in modo autonomo.
Malgrado questo, e malgrado le oggettive limitazioni nel non poter più salire da solo le scale, cosa non da poco, si adattò e cominciò ad uscire di casa sempre più spesso da solo, allungando ogni volta un po’ di più il raggio del suo ideale cerchio di mete raggiungibili.
La sua vecchia ed istintiva spinta a misurarsi con imprese che giudicava alla sua portata trovò nella carrozzina l’oggetto del suo impegno, il suo limite da superare.
Quando il tempo era favorevole prese l’abitudine di spingersi sino al grande fiume, per osservarlo, dall’argine, sia con bella o brutta stagione, purché non piovesse.
Una mattina d’inverno, malgrado il figlio gli avesse detto di non uscire di casa quel giorno, perché la temperatura era sotto lo zero, lui si organizzò e si diresse al solito punto, sull’argine del grande fiume. 
La brina si vedeva ancora verso le dieci, segno che l’erba, dove il sole non era arrivato a scaldare, manteneva ancora il freddo della notte.
Il gelo lo trovò all’improvviso anche sulla stradina asfaltata prima della leggera discesa. Gli alberi sempreverdi in quel punto facevano ancora schermo al sole. Quando si avvicinò al punto dove la pendenza iniziava in un attimo perse il controllo della carrozzina, cominciò a scivolare con le ruote che non facevano alcuna presa sull’asfalto bianco per il ghiaccio e in pochi secondi finì, senza un solo grido, direttamente nella corrente fredda del grande fiume, assieme alla carrozzina che decise di andare sul fondo prima di lui, precendendolo di alcuni minuti.
Quando capì che tutto stava finendo, in un ultimo momento di lucidità, accettò quasi con gratitudine quella fine onorevole per la quale non aveva dovuto competere con nessuno, e non gli era stato richiesto di dimostrare nulla al mondo.
                                                                       Silvano C.©


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martedì 18 novembre 2014

Minigonna e stivali sexy


      -…Entra, accomodati, ti stavo aspettando, ti vedevo ogni tanto qui davanti, ma hai lasciato passare molto tempo, come mai? -

-         Bhè, io non pensavo di…-

-         Non pensavi che saresti mai entrato è così? Eppure ne avevi voglia, è vero? –

-         Sì, voglia e pure un po’ di curiosità, non lo posso negare, ma…-

-         Ma? –

-         Ma ora cosa succede? Cosa devo fare? –

-         Tu devi solo rilassarti, lasciarti andare. Se vuoi chiudi gli occhi, oppure tienli pure aperti…come preferisci. Lascia fare tutto a me…-

Ecco, lo immagino così il mio ingresso nel centro benessere a poca distanza da casa, quello dove ogni tanto, raramente, vedo fuori dalla porta un paio di ragazze giovani ed attraenti, con minigonna e stivali sexy, che si rilassano, fumano una sigaretta, parlano tra loro e sembrano ignorare quanto avviene attorno.

Io credo di aver sbagliato tutto, lo so. Da quasi un anno vado da un fisioterapista (non una fisioterapista), ci vado per ritrovare un po’ di benessere, quindi il centro benessere sarebbe perfetto, e per andare da quello che io chiamo scherzosamente spezzaossa devo usare l’auto, mentre il centro benessere lo potrei raggiungere in pochi minuti, a piedi.
E poi quell’uomo a volte non fa dolci massaggi con unguenti profumati, non mi riceve in una saletta con le luci soffuse e una musica rilassante orientale in sottofondo. A volte sembra persino si diverta a spingere con le dita o con qualche oggetto esattamente dove gli dico di non farlo, perché mi fa male.
Lui usa la tecnica della martellata al pollice per far passare il mal di denti. Se glielo dico sorride e sembra prendermi in giro.
Quando arrivo nel suo studio e mi chiede come va la spalla io gli dico del dolore nuovo al ginocchio. Quando mi chiede del ginocchio io spiego che mi è tornato il dolore alla spalla. La volta successiva mi chiede ancora come va la spalla e devo rispondergli che quella destra va meglio, ma ora è la sinistra che mi procura fastidi.
-         È un modo per farmi capire che ti piaccio? – fa lui divertito.
-         Sì, più o meno è così. – rispondo io sorridendo un po’.
In realtà penso, senza dirlo ancora, che lui non deve avere delle gambe particolarmente sexy, e forse è per questo che non mette minigonna e stivali. Oppure semplicemente crede che non bisogni mai mostrare tutto e che sia sempre preferibile far lavorare l’immaginazione.

                                                                        Silvano C.©


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lunedì 17 novembre 2014

Normale sarai tu


Lo confesso, ero partito con una domanda provocatoria, ma non per far polemica, solo per affrontare un tema serio, e riflettere argomentando, classificando, in sostanza con l’intenzione di dimostrare che la normalità non esiste, allontanarmi da ogni morale e da ogni moralismo, smontare qualche eventuale definizione non accettabile, dal mio punto di vista, e uscirne alla grande con eleganza e correttezza. Senza far torto a nessuno vorrei citare la risposta di Carla, che mi fa giustamente notare che la normalità nei rapporti amorosi è una nostra fantasia. Nel regno animale ogni cosa può essere normale. Cinzia dice che non lo sa, Barbara mi parla di omologazione e Bruno mi fornisce una definizione statistica ma oltre non vuole spingersi (giustamente). E poi un Dolce Melograno mi parla di assoluta normalità legata al comportamento istintivo nel gioco di due bambini, che non si fanno questo tipo di domande, e Daniela che mi parla del comportamento della gente e di quello che se ne pensa. Ho sintetizzato malissimo, lo so, forse ho pure frainteso qualche parte, ma ogni risposta mi è piaciuta, ed io sarei rimasto esattamente su quei temi, avrei portato le mie esperienze, le mie considerazioni...  ma poi, per fortuna, è arrivato Sergio.
Lui mi ha spiazzato, mi ha tolto il mantello della serietà, mi ha costretto a confrontarmi non con le grandi idee ma con la nostra piccola umanità, con la poesia, con l’essenza.
Mi ha citato il pezzo di Lucio Dalla che se non lo conosci devi sentirlo. Vero, reale, di carne e ironico. Parlo di disperato erotico stomp. È come se mi avesse sparato con una pistola ad acqua mentre io ero arrivato armato di ogni genere di artiglieria pesante. Ed ha vinto lui. Mi ha colpito e mi ha fatto capire come sono stupide a volte le armi della logica elaborata contro la semplicità e l’aggancio con la nostra debolezza. Essere normali è un’impresa eccezionale, è solo questo, è tutto questo.
E poi, non contento di aver vinto, mi ha voluto spiegare il senso della vite.
Ha rubato in casa del ladro, ha sottratto antifurti sotto il naso delle guardie giurate. E poi le viti mi piacciono, accidenti, pure sul piano emotivo mi ha fregato…













                                           Silvano C.©


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Non c’è un perché


Libera la mente, chiudi gli occhi, segui la musica, immagina gli spazi e le situazioni, vedine i colori e credile vere, se così preferisci.
Non esprimere giudizi, provaci, anche se è difficile. Loro arriveranno, siamo stati educati su giudizi, a volte su veri e propri preconcetti, ma di tanto in tanto, a volte per caso, altre volte grazie a qualcuno, ad un libro, ad un film, ad una frase letta o ascoltata chissà dove uno di questi sparirà, sostituito da nulla, perché al posto di una cosa sbagliata non deve esserci per forza una cosa diversa e giusta. Ci può essere anche il nulla.
Il desiderio non mancherà, sino alla fine, non aver dubbi in proposito. Ma non chiedermi di quale desiderio si tratti, quello non puoi farlo. Solo tu conosci la risposta, solo tu sentirai un bisogno profondo, la voglia di fare o avere qualche cosa, e mentirai anche a te se lo negherai, ma poi cambierai idea, potrà capitare, è già capitato, non c’è un numero preciso di volte previsto o prevedibile di mutamenti.
Per alcuni si tratta di amore, per altri di fede, o vizio, o egoismo allo stato più puro e nobile, quello che non deve far male a nessun altro per realizzarsi, perché non ha urgenza di sfruttare nessuno, o di giocare con i sentimenti di nessuno. Io non so neppure il nome vero di questo bisogno, non so definirlo, lo vedo camaleontico, instabile come la figura lontana filtrata dall’aria tremolante e bollente di una superficie esposta al sole estivo.
Libera la mente oppure riempila, se preferisci, di emozioni che ti fanno piangere all’improvviso, cogliendoti mentre non hai armi e difese. È un’aria di Handel che ti trafigge, o un film apparentemente stupido e leggero, o le frasi lette da una scrittrice che interpreta un suo romanzo. A volte possono essere due cani che si incontrano e giocano tra loro a dimostrare che le tue costruzioni razionali non valgono nulla, che dietro le cose si celano altre cose e dietro di queste altre ancora, su un palcoscenico con quinte vere solo per un tempo limitato, sostituite presto da altre.
Sei irripetibile ma non sei una novità. Infatti i tuoi schemi sono i miei, sono i suoi, sono quelli di tutti. Siamo corpi con leggi che li governano e siamo anche altro, dentro il corpo che corre in una sola direzione, dal passato al futuro. L’altro dentro invece a volte si ferma, o avanza più veloce, e poi torna indietro, e poi vaga, senza vere regole.
Chissà cosa pensi adesso di me, e cosa penserò io domani di questo, quando saranno noti alcuni fatti, o ci saranno indizi nuovi.
Un tempo ho creduto di poter prevedere situazioni semplicemente immaginando di viverle prima, ma non era vero che potesse avvenire una simile magia. È vero invece che cercando di previvere ho potuto evitare qualche errore, oppure sono arrivato più preparato ad un certo appuntamento col destino. Chissà se pure tu hai vissuto simili esperienze. Credo di sì, è una caratteristica umana quella di cercare di prevedere.  Ed è esperienza umana quella di subire ciò che non si è previsto, o che pur previsto non si è potuto evitare.


                                                                        Silvano C.©


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domenica 16 novembre 2014

Pampepato Estense



L’idea mi venne quasi per caso, un giorno di novembre o dicembre di tantissimi anni fa. Da diverso tempo lavoravo ormai lontano da Ferrara, ma in quel momento mi trovavo a passare in Via Garibaldi dove costeggia Piazza Sacrati, esattamente all’inizio di Via Croce Bianca.
Vidi l’insegna del laboratorio dolciumi con vendita di Di Caro Oddone, specializzato in pampepati, e decisi di comprarne alcuni da far assaggiare a qualche nuovo amico conosciuto in Trentino.
La cosa ebbe successo, e l’anno dopo ne comprai qualcuno in più, e così ogni volta che si stava avvicinando Natale, senza mai più interrompere la tradizione.
A volte non andai direttamente nella loro bottega ma li comprai altrove, i pampepati, anche quelli prodotti da altri, come ad esempio da Orsatti, dalla FIS, o da altri laboratori. A Di Caro però sono affezionato, e i suoi prodotti raramente mi sfuggono. Qualche pezzo ogni volta lo compro, e quasi sempre finisce regalato a chi non abita a Ferrara, a qualche amico che vorrei amasse la mia città come l’amo io, malgrado il mio rapporto conflittuale con lei. Del resto è normale a volte litigare con qualche amico, no? Io a volte litigo con la città dove sono nato, o non ne parlo molto bene, ma odio sentirlo fare ad altri. Vedo i mille difetti che hanno i ferraresi, li vedo tutti, anche qualcuno in più. Ma non accetto siano altri, di altri posti a parlarne male. Forse è amore.

PS – Se non sai cos’è il pampepato di Ferrara mi spiace per te, e ti invito a colmare la lacuna, appena ne hai occasione.  



                                                                                          Silvano C.©


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