Si chiama Belladonna, ma è un uomo. È una contraddizione
vivente sotto molti aspetti, si rende conto di esserlo e ne è sempre più
cosciente mentre si accinge a varcare il traguardo dei quaranta.
Viene dal sud, ma non sopporta il sud. Sente cosa dicono dei
suoi conterranei i cari attuali concittadini, e neppure loro sopporta più
quando si lanciano in filippiche senza senso contro il malcostume e la
connivenza con la malavita che ognuno, nato sotto il parallelo di Roma,
evidentemente porta nel proprio DNA.
Nessuno però ha il coraggio di dirgli certe cose in faccia,
e quando si rendono conto che lui ascolta come per magia i discorsi dirottano
verso tematiche neutre. Pochi del resto hanno interesse a valutare in prima
persona se i suoi muscoli ed i suoi 90 chilogrammi di peso ben distribuiti sono
apparenza o sostanza.
Belladonna pratica sport da sempre, lavora come istruttore
in una palestra e guadagna quanto vuole perché i suoi corsi sono sempre
frequentati dalla borghesia cittadina che vuol tenersi in forma, in particolare
da molte signore mogli di professionisti e politici oppure esse stesse ben inserite
e protagoniste della vita culturale, economica e politica nelle stanze comunali
e provinciali giuste.
Col tempo è diventato ferrarese più dei ferraresi, che non
sanno vedere i loro difetti, si lamentano di ogni cosa e trovano che la colpa
sia sempre degli altri. «Ma gli altri quali, se gli altri siamo noi?» pensa, e
sa che è un male italiano, non è colpa neppure di Ferrara. Questo lo sa, ma lui
vive a Ferrara, e con alcuni di loro, dei ferraresi cioè, negli anni si è fatto
amico, e certe cose ha iniziato a dirle. Uno di questi in particolare gli è più
vicino di altri. È un medico, di dieci anni più anziano, conosciuto per caso
mentre aspettava la moglie nella saletta di attesa della palestra dove lavorava
e lavora. Con lui a volte si ritrova a passeggiare, anche di notte, nelle
vecchie vie della zona medievale, o dell’antico ghetto. Si perdono a discutere,
di ogni cosa, e a volte litigano pure, ma solo per il puntiglio di spuntarla. Cercano,
per principio e testa dura, di aver la meglio esponendo logiche inattaccabili.
Alla fine però sanno benissimo entrambi che è solo un gioco, che ognuno di loro
recita una parte, che potrebbero scambiarsi i ruoli e sarebbe esattamente lo
stesso.
Una sera di novembre, la sera del giorno dei morti, Davide,
il medico, racconta che è stato in Certosa, a trovare i suoi che riposano tra
quelle vecchie pietre. Lui, Mario (che se nasceva donna si sarebbe chiamata
Maria, e allora magari sì che sarebbe stata una bella donna), dice che da molto
non va a vedere le tombe dei suoi, ma che il loro ricordo non ha bisogno delle
pietre e della presenza fisica, li vede ancora vivi, come se il giorno dopo li
potesse incontrare.
Si ritrovano non sanno come e per quali associazioni a
discutere se sia giusto scordare in parte le tradizioni originali e quindi modificarle,
per tenerle vive, oppure se sia preferibile difenderle come ci sono state
tramandate, cristallizzate, senza cambiarle in nulla, fingendo che il tempo non
sia passato.
Davide racconta che non sopporta come un certo banchetto, sul
Listone*, proponga ai turisti che sempre più numerosi arrivano in città o agli
stessi ferraresi, le mistocchine** a gusti strani, con l’uvetta, ad esempio, o
con altri ingredienti del tutto estranei a quanto codificato nella memoria.
Dice che è incredibile che a rispettare la tradizione ferrarese siano i cinesi
che hanno rilevato un chioschetto in piazza Travaglio. Non è possibile, che siano
gli altri a mantenere viva la nostra storia, dice accalorandosi, quando
improvvisamente si rende conto che non parla con un ferrarese, e si ferma.
Mario sorride, non si offende, sa cosa voleva dire l’amico, e risponde che le
mistocchine ferraresi si trovano ancora, prodotte da ferraresi, e che non sono
male, anche se non ci va matto. Si trovano ancora da un ambulante che vende pure
caldarroste, in via Cairoli, dove si incrocia con via Bersaglieri del Po.
Rimangono entrambi muti, per un po’, e si sente solo il
rumore dei loro passi, in via Vignatagliata. Sanno che la verità sfugge ad ogni
classificazione, che hanno ragione e torto entrambi, ed accettano reciprocamente
la resa onorevole dell’avversario, ma non lo dicono.
«Vedi Mario, tu vieni dal sud e qui ti sei fatto dal nulla. Sei
uno strano personaggio per noi ferraresi. Non conoscevi nessuno in città, ti
sei affermato grazie alle tue capacità ed ora vivi bene, ma non hai contato su
spinte o amicizie, e sei pure lontano dai partiti, anche se ormai conosci molti
politici. Io sono più fortunato. Mio padre era medico come me, e l’inizio mi è
stato facilitato dal suo nome, anche se vere e proprie spinte neppure io ne ho
avute. Ma poi conoscevo vecchi compagni di scuola, avevo frequentato da giovane
quelle tali persone. Tutto mi è stato utile. E poi, ti confesso, ma lo sai già,
mi stupisce sempre che col mestiere che fai e con la tua preparazione
scolastica che si è arenata molto presto tu legga tanto. Ma perché non hai
studiato? Avresti potuto avere...»
«Avere cosa, Davide? Un titolo di studio da incorniciare? Sai
benissimo che non mi interessa, e non mi interessa neppure farmi una palestra
mia. Guadagno già più del capo, e a lui va bene perché non guadagna poco. Ma come
dipendente non ho problemi burocratici, la vita è più semplice così, per me.»
«Sei strano forte, lo sai.»
Vorrebbero dire altro, ma si bloccano di nuovo, e ancora i
loro passi riecheggiano sui vecchi muri mentre arrivano in via Mazzini e
prendono verso destra. Qui c’è più animazione, e non sono più soli sulla via.
«Pensa a Natalia e Corrado Augias. Oppure ad Alberto e Piero
Angela, a Chiara ed Enrico Berlinguer. I figli avrebbero avuto il successo che
hanno senza i loro genitori? Io a volte me lo chiedo, senza mettere in
discussione la loro bravura o i loro meriti. Ma quanti figli meno fortunati non
hanno avuto questo aiuto iniziale? E quanti invece, pur partendo in prima fila,
poi hanno deluso e al massimo sono vissuti di rendita?» Mario pronuncia queste domande che non sono
neppure domande, ma riflessioni a voce alta. Ed infatti Davide non risponde,
mentre continuano a passeggiare e raggiungono via Scienze. Qui una ragazza
molto alta e magra attira l’attenzione di entrambi, passando velocemente
davanti a loro, diretta chissà dove.
«Sai Davide, è da un po’ che te lo devo dire. Credo che a
breve dovrò dare l’addio alla mia vita da scapolo.»
L’altro si gira stavolta veramente incuriosito e pure
vagamente preoccupato. Si ferma. Non chiede ma aspetta.
«Una ragazza, o meglio una donna, ha iniziato a frequentare
la mia palestra. Sono alcuni mesi ormai. È piccola, minuta, sembra fragilissima
ma ha una volontà di ferro. Un giorno volevo aiutarla con un attrezzo, mentre
stavo semplicemente sorvegliando la sala. Mi ha ringraziato ma mi ha risposto
che si arrangiava. Poi ogni tanto abbiamo scambiato qualche battuta. Per farla
breve, mi ha invitato una volta a cena a casa sua. Lei ha invitato me, capisci?
Sono andato nel suo piccolo appartamento, in via XX Settembre, e non ricordo
neppure cosa ho mangiato. Ero ubriaco già prima di entrare. Quello che è
successo esattamente non riesco a ricostruirlo. So solo che mi chiama Pulce,
incredibile, lei che pesa la metà di me…»
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*Piazza Trento e Trieste, la principale di Ferrara.
** La mistocchina è preparata con farina di castagne, ed
appartiene alla tradizione. L’impasto si appiattisce con la mano e gli si dà la
forma di una specie di rombo. Si cuoce su una lastra o una piastra calda, su
entrambi i lati. Non è fritta. Un tempo erano perfette per questo scopo le cucine
economiche a legna, oppure, oggi, si possono trovare ancora in pochi punti
della città nei mesi freddi, da fine ottobre a gennaio. Qui un’indicazionedella sua preparazione.
Silvano C.©
( La riproduzione è riservata ma non c'è nessun problema se si cita la fonte, grazie)
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