domenica 2 novembre 2014

Belladonna

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Si chiama Belladonna, ma è un uomo. È una contraddizione vivente sotto molti aspetti, si rende conto di esserlo e ne è sempre più cosciente mentre si accinge a varcare il traguardo dei quaranta.
Viene dal sud, ma non sopporta il sud. Sente cosa dicono dei suoi conterranei i cari attuali concittadini, e neppure loro sopporta più quando si lanciano in filippiche senza senso contro il malcostume e la connivenza con la malavita che ognuno, nato sotto il parallelo di Roma, evidentemente porta nel proprio DNA.
Nessuno però ha il coraggio di dirgli certe cose in faccia, e quando si rendono conto che lui ascolta come per magia i discorsi dirottano verso tematiche neutre. Pochi del resto hanno interesse a valutare in prima persona se i suoi muscoli ed i suoi 90 chilogrammi di peso ben distribuiti sono apparenza o sostanza.

Belladonna pratica sport da sempre, lavora come istruttore in una palestra e guadagna quanto vuole perché i suoi corsi sono sempre frequentati dalla borghesia cittadina che vuol tenersi in forma, in particolare da molte signore mogli di professionisti e politici oppure esse stesse ben inserite e protagoniste della vita culturale, economica e politica nelle stanze comunali e provinciali giuste.
Col tempo è diventato ferrarese più dei ferraresi, che non sanno vedere i loro difetti, si lamentano di ogni cosa e trovano che la colpa sia sempre degli altri. «Ma gli altri quali, se gli altri siamo noi?» pensa, e sa che è un male italiano, non è colpa neppure di Ferrara. Questo lo sa, ma lui vive a Ferrara, e con alcuni di loro, dei ferraresi cioè, negli anni si è fatto amico, e certe cose ha iniziato a dirle. Uno di questi in particolare gli è più vicino di altri. È un medico, di dieci anni più anziano, conosciuto per caso mentre aspettava la moglie nella saletta di attesa della palestra dove lavorava e lavora. Con lui a volte si ritrova a passeggiare, anche di notte, nelle vecchie vie della zona medievale, o dell’antico ghetto. Si perdono a discutere, di ogni cosa, e a volte litigano pure, ma solo per il puntiglio di spuntarla. Cercano, per principio e testa dura, di aver la meglio esponendo logiche inattaccabili. Alla fine però sanno benissimo entrambi che è solo un gioco, che ognuno di loro recita una parte, che potrebbero scambiarsi i ruoli e sarebbe esattamente lo stesso.


Una sera di novembre, la sera del giorno dei morti, Davide, il medico, racconta che è stato in Certosa, a trovare i suoi che riposano tra quelle vecchie pietre. Lui, Mario (che se nasceva donna si sarebbe chiamata Maria, e allora magari sì che sarebbe stata una bella donna), dice che da molto non va a vedere le tombe dei suoi, ma che il loro ricordo non ha bisogno delle pietre e della presenza fisica, li vede ancora vivi, come se il giorno dopo li potesse incontrare.
Si ritrovano non sanno come e per quali associazioni a discutere se sia giusto scordare in parte le tradizioni originali e quindi modificarle, per tenerle vive, oppure se sia preferibile difenderle come ci sono state tramandate, cristallizzate, senza cambiarle in nulla, fingendo che il tempo non sia passato.
Davide racconta che non sopporta come un certo banchetto, sul Listone*, proponga ai turisti che sempre più numerosi arrivano in città o agli stessi ferraresi, le mistocchine** a gusti strani, con l’uvetta, ad esempio, o con altri ingredienti del tutto estranei a quanto codificato nella memoria. Dice che è incredibile che a rispettare la tradizione ferrarese siano i cinesi che hanno rilevato un chioschetto in piazza Travaglio. Non è possibile, che siano gli altri a mantenere viva la nostra storia, dice accalorandosi, quando improvvisamente si rende conto che non parla con un ferrarese, e si ferma. Mario sorride, non si offende, sa cosa voleva dire l’amico, e risponde che le mistocchine ferraresi si trovano ancora, prodotte da ferraresi, e che non sono male, anche se non ci va matto. Si trovano ancora da un ambulante che vende pure caldarroste, in via Cairoli, dove si incrocia con via Bersaglieri del Po.

Rimangono entrambi muti, per un po’, e si sente solo il rumore dei loro passi, in via Vignatagliata. Sanno che la verità sfugge ad ogni classificazione, che hanno ragione e torto entrambi, ed accettano reciprocamente la resa onorevole dell’avversario, ma non lo dicono.
«Vedi Mario, tu vieni dal sud e qui ti sei fatto dal nulla. Sei uno strano personaggio per noi ferraresi. Non conoscevi nessuno in città, ti sei affermato grazie alle tue capacità ed ora vivi bene, ma non hai contato su spinte o amicizie, e sei pure lontano dai partiti, anche se ormai conosci molti politici. Io sono più fortunato. Mio padre era medico come me, e l’inizio mi è stato facilitato dal suo nome, anche se vere e proprie spinte neppure io ne ho avute. Ma poi conoscevo vecchi compagni di scuola, avevo frequentato da giovane quelle tali persone. Tutto mi è stato utile. E poi, ti confesso, ma lo sai già, mi stupisce sempre che col mestiere che fai e con la tua preparazione scolastica che si è arenata molto presto tu legga tanto. Ma perché non hai studiato? Avresti potuto avere...» 
«Avere cosa, Davide? Un titolo di studio da incorniciare? Sai benissimo che non mi interessa, e non mi interessa neppure farmi una palestra mia. Guadagno già più del capo, e a lui va bene perché non guadagna poco. Ma come dipendente non ho problemi burocratici, la vita è più semplice così, per me.» 
«Sei strano forte, lo sai.» 
Vorrebbero dire altro, ma si bloccano di nuovo, e ancora i loro passi riecheggiano sui vecchi muri mentre arrivano in via Mazzini e prendono verso destra. Qui c’è più animazione, e non sono più soli sulla via.

«Pensa a Natalia e Corrado Augias. Oppure ad Alberto e Piero Angela, a Chiara ed Enrico Berlinguer. I figli avrebbero avuto il successo che hanno senza i loro genitori? Io a volte me lo chiedo, senza mettere in discussione la loro bravura o i loro meriti. Ma quanti figli meno fortunati non hanno avuto questo aiuto iniziale? E quanti invece, pur partendo in prima fila, poi hanno deluso e al massimo sono vissuti di rendita?»  Mario pronuncia queste domande che non sono neppure domande, ma riflessioni a voce alta. Ed infatti Davide non risponde, mentre continuano a passeggiare e raggiungono via Scienze. Qui una ragazza molto alta e magra attira l’attenzione di entrambi, passando velocemente davanti a loro, diretta chissà dove.

«Sai Davide, è da un po’ che te lo devo dire. Credo che a breve dovrò dare l’addio alla mia vita da scapolo.»
L’altro si gira stavolta veramente incuriosito e pure vagamente preoccupato. Si ferma. Non chiede ma aspetta.
«Una ragazza, o meglio una donna, ha iniziato a frequentare la mia palestra. Sono alcuni mesi ormai. È piccola, minuta, sembra fragilissima ma ha una volontà di ferro. Un giorno volevo aiutarla con un attrezzo, mentre stavo semplicemente sorvegliando la sala. Mi ha ringraziato ma mi ha risposto che si arrangiava. Poi ogni tanto abbiamo scambiato qualche battuta. Per farla breve, mi ha invitato una volta a cena a casa sua. Lei ha invitato me, capisci? Sono andato nel suo piccolo appartamento, in via XX Settembre, e non ricordo neppure cosa ho mangiato. Ero ubriaco già prima di entrare. Quello che è successo esattamente non riesco a ricostruirlo. So solo che mi chiama Pulce, incredibile, lei che pesa la metà di me…»
 
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*Piazza Trento e Trieste, la principale di Ferrara.

** La mistocchina è preparata con farina di castagne, ed appartiene alla tradizione. L’impasto si appiattisce con la mano e gli si dà la forma di una specie di rombo. Si cuoce su una lastra o una piastra calda, su entrambi i lati. Non è fritta. Un tempo erano perfette per questo scopo le cucine economiche a legna, oppure, oggi, si possono trovare ancora in pochi punti della città nei mesi freddi, da fine ottobre a gennaio. Qui un’indicazionedella sua preparazione.


                                                                        Silvano C.©


( La riproduzione è riservata ma non c'è nessun problema se si cita la fonte, grazie)

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