La frase citata sopra è stata usata molte volte, e probabilmente a coniarla è stato Luigi Barzini, giornalista d’altri tempi, che riferendosi
al suo lavoro ha detto: "Il mestiere del giornalista è difficile, carico
di responsabilità, con orari lunghi, anche notturni e festivi, ma è sempre
meglio che lavorare". Poi l’ha usata Luca Goldoni come titolo per un suo
libro, nel 1989. L’hanno pronunciata Marcello Mastroianni e Vittorio Gassman,
spiegando che recitare è sempre meglio che lavorare. Anche Michele Brambilla ne ha fatto uso per un suo
libro, nel 2008. Quindi nessuna pretesa di originalità, da parte mia, ma solo una
conferma della validità del concetto.
Quando ho iniziato ad insegnare, quasi per caso, spinto
dalla necessità ma anche dalla curiosità per un’attività che mi sembrava
interessante, dopo essermi scontrato con una realtà che mi aveva costretto a
capire come andavano le cose del mondo, per molti anni ho pensato di vivere in
un luogo di vacanza e non di lavoro.
Il Trentino del resto era ed è esattamente questo. Una bella
terra, un posto magnifico per viverci, con le montagne che prima avevo
conosciuto solo raramente, in occasioni di brevi viaggi di piacere. Ovviamente non
è il paese della cuccagna, ma nei primi tempi era una scoperta continua, uno
stimolo anche solo ammirandolo dalle finestre.
La cosa più importante l’ho capita in seguito, lentamente, e
me ne sono reso conto in modo cosciente solo anni più tardi. La bellezza dell’insegnare
è nell’insegnare stesso; nel rapporto che si riesce a creare con alcuni
ragazzi, nelle litigate e nelle lezioni che loro sanno darti, non tu, pagato
per farlo.
Prima di tutto il privilegio di poter giocare, entro certi
limiti ovviamente, e di sperimentare esperienze, metodi, procedure, approcci diversi
ai vari temi che dovevo trattare. Questa libertà, che a volte mi ha fatto
commettere errori, mi ha restituito però la complessità delle possibilità. Ogni
via percorsa per la seconda o terza volta si rivelava sempre diversa da quella
apparentemente identica dell’anno prima. E la vera noia di ripetere in realtà
non l’ho mai vissuta, perché la trasformavo sempre in un gioco per scoprire chi
sarebbe stato il primo o la prima a dire quella certa cosa, che puntualmente
arrivava.
Sono stato un vampiro, per molti anni, senza alcuna paura
della luce del sole però, e succhiavo non il sangue, ma l’energia vitale dei
ragazzi. Io cercavo di fare quello che ritenevo il mio dovere, e non ho mai
puntato alla carriera, ma al rapporto con i ragazzi ci tenevo, e molto. Potevano
veramente deprimermi in certi casi, con i loro comportamenti o in caso di
problemi particolari. Una mia sfuriata sbagliata poi me la sognavo di notte, ma mi
divertivo come un ragazzino invece quando potevo giocarci, o trovavo occasioni
che mi permettessero di smettere in parte di essere il professore serio che
dovevo essere.
Un 14 febbraio, ad esempio, nelle mie classi due poveri
sfortunati si chiamavano Valentina e Valentino. Con una scusa apparentemente
seria li feci uscire dalle rispettive aule dove stavano seguendo le lezioni di
altri colleghi per portarli in uno spazio in quel momento vuoto e dove prima
avevo costruito col cartoncino bianco una coppia di ali da far loro indossare. Sulle
prime rimasero interdetti, poi cercarono di rifiutare, e poi accondiscesero e
le indossarono. Seguito dai due Valentini poi entrai, dopo aver ovviamente bussato
alla porta, in tutte le classi, e loro pronunciarono una frase di augurio
legata agli innamorati ed alla giornata particolare.
Forse loro due in quel momento un po’ se la legarono al
dito, ma in seguito, molti anni dopo, Valentina, non sembrava conservare rancore
nei miei confronti quando la incontrai per caso, ormai laureata, mentre
passeggiava con la madre.
Un'altra cosa magnifica, che solo molto dopo ho capito, è
che i più rompiscatole, quelli che veramente durante le lezioni facevano di
tutto per infastidirmi, spessissimo erano pure quelli che poi mi ricordavano
con più affetto.
La vita è strana. È una sequenza di fatti, di esperienze, di
persone che ti segnano. Tra le persone non di famiglia che mi hanno segnato di
più sono stati alcuni miei insegnanti. Gli insegnanti ti segnano. Fanno un
lavoro di responsabilità enorme, ma in fondo si divertono pure, quindi non mi
sembra il caso di preoccuparsi troppo per loro, quanto piuttosto per il fatto
che la scuola non perda certe caratteristiche di servizio pubblico e laico, di
ambiente controllato ma allo stesso tempo libero. La burocrazia può fare molti
danni, se si spinge oltre un certo livello di guardia.
E non vorrei che insegnare diventasse un lavoro.
Adriano Franceschini, mio maestro alle scuole elementari.
Ivanka Poppy Skobaj (non sono certo che il suo nome si
scriva così) mia professoressa di matematica alle scuole medie.
Leo Raunich, mio docente di embriologia all’università.
Di altri miei insegnanti, alcuni ben più famosi, preferisco
tacere.
Silvano C.©
( La riproduzione è riservata ma non c'è nessun problema se si cita la fonte, grazie)
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