sabato 28 febbraio 2015

generosità sui social

Informativa sulla privacy

I social sono generosi, o meglio, lo sono quelli che li frequentano, indipendentemente da ogni altra considerazione sul piano umano e personale?

Parto da questa domanda, che ho già fatto a me stesso un po’ di tempo fa, dopo aver letto che un noto scrittore, giornalista, e non solo, ha deciso di abbandonare i social per sopraggiunta stanchezza. Non lo conosco di persona, e quindi probabilmente è l’uomo più squisito del mondo, gentile e disponibile sotto molti aspetti, ma un po’ non lo capisco, e mi sfugge qualche cosa sulle motivazioni della sua scelta. Dice che non è interessato a fare autopromozione e che si resta sui social o per parlare di se o di quel che si fa.
Poi, dopo una veloce ricerca, scopro che già lavorava come giornalista a ventiquattro anni presso un importantissimo settimanale italiano, che ha pubblicato almeno venti libri tra saggi, romanzi ed altro, che è stato conduttore televisivo e quant’altro. Persona eccezionale insomma, preparata, apprezzata. Io stesso ho letto il suo ultimo saggio, tra le altre cose.
Allora capisco come  lui non abbia assolutamente bisogno di autopromozione, e capisco anche che possa essere stanco, ma non può dire che le modalità per stare sui social sono soltanto le due che individua. Uno con la sua esperienza sa benissimo che, se volesse, potrebbe agevolmente spendere sui social la sua autorevolezza per sostenere qualche giovane che desidera in qualche modo emergere e non riesce a farlo nel mondo dell’editoria attuale, arroccata sui soliti noti, dei quali fa parte.
Manca di generosità, insomma, ed è un po’ narciso. Questo mi fa ripensare al giudizio su di lui, a ridimensionarlo. Non ci si lamenta dei troppi dolci quando gli altri non hanno neppure il pane, insomma, per dirla come piace a me. Peccato però. Pensavo fosse diverso.

Non è il solo caso tuttavia, tra le persone famose ed affermate, di abbandono dei social, dopo averci provato.
Un altro esempio recente è quello di un conduttore e giornalista televisivo che, dopo una breve apparizione su Twitter, ha abbandonato il campo, non trovandolo adatto. O non avendo il tempo da dedicarci. Pure lui non ha bisogno di Twitter però, visto che è conosciutissimo, vende facilmente i suoi libri, è ormai in età da pensione da molti anni e non ha alcuna necessità di autopromuoversi.
Entrambi, aggiungo, sono personaggi enciclopedici, nel senso che esiste una voce su di loro su Wikipedia. E questo fa capire che, eventualmente, sarebbero i social ad avere bisogno di loro.

Forse bisognerebbe partire dalle motivazioni che spingono ad esserci, sui social, per capire meglio la domanda iniziale, quella della presenza o meno di generosità in questi ambienti.
Si vedono tante situazioni. Qualcuno cerca rapporti umani, principalmente quelli, perché dietro ogni account c’è una persona (fake esclusi, ovviamente, ma questo è un altro discorso). Altri intendono discutere di temi che interessano, ed a volte sono pronti anche a scontrarsi. Poi si cerca visibilità per una propria attività, e quindi c’è una motivazione economica. Oppure si vuole diffondere un’opinione politica, a sostegno di un partito o di un movimento, e lo si può fare in modo evidente ed esplicito oppure con arte e gentilezza, a volte anche camuffando un po’ le proprie reali posizioni.
La maggioranza delle persone però cerca essenzialmente un piccolo spazio, una seppur limitata visibilità. Ecco che allora su Facebook qualcuno manda inviti a seguire una propria pagina, un proprio blog, e pure su twitter arriva pubblicità ed autopromozione, anche nelle comunicazioni private.

Eppure a questi rincorritori è difficile prestare attenzione, specialmente se si avverte che la loro azione è automatica, autoreferenziale, essenzialmente egoista. Si tratta insomma di tentativi di marchette, alle quali si sottopongono, nei salotti televisivi, pure gli scrittori più noti.
Eppure sarebbe bello se, senza invito o interesse, qualcuno pubblicizzasse qualcun altro, con la sola motivazione del piacere di farlo, trovando soddisfazione riflessa nel piacere o vantaggio altrui.



                                                                                             Silvano C.©

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Noi esistiamo in questo momento



Capita a tutti, credo, di pensare al futuro. A paure, pericoli, rischi, ma anche a sogni, speranze, prospettive. È perfettamente umano, e non solo umano.
Pure le forme di vita più elementare, riproducendosi, pensano al futuro. L’istinto di sopravvivenza è istinto di futuro.
Qualcuno ne ha ricavato un mestiere, uno dei più antichi del mondo: filosofeggiare.
Altri ci scommettono su basi matematiche, ed assicurano.
I poeti e gli artisti ci vogliono arrivare con le loro opere, i muratori e gli architetti usando materiali da costruzione.
Persino i cimiteri sono il futuro, il pensiero dei nostri morti, che hanno pensato di farsi ricordare o con semplici lapidi o con veri mausolei. E se non sono stati loro a pensarlo, siamo stati noi, perché da qualche parte, in qualcuno, vorremmo restare, nel futuro che verrà.

Qui si opera, in un certo senso, un’operazione di estrapolazione, di proiezione. Se sino ad oggi è successo questo, allora è perfettamente logico pensare che qualche cosa di analogo succederà anche quando noi non ci saremo più. Non tutti sono faraoni, papi o grandi personaggi che possono pensare di farsi conservare. Ci basta vedere cosa è avvenuto con i nostri antenati per capire cosa resterà di noi, e delle nostre opere. Ed allora ecco la cultura, che non è altro che il tramandare conoscenza, in ogni sua forma, anche manuale o artigianale.
Ed ecco anche spiegato l’orrore per i barbari che distruggono, che vengano dal nord o dal sud del mondo, da est o da ovest, a conquistare magari, e depredare.
Quindi anche l’illusione, perché l’orrore non è l’eccezione, ma la regola. Nulla è per sempre. Ogni cosa, esattamente ogni cosa, è destinata a finire. A volte la rovina arriva da mani di uomo, che non fanno altro che accelerare il processo comunque inevitabile, qualche secolo o qualche millennio dopo.

E Lorenzo il Magnifico ora esiste ancora, capiamo il senso del suo esser lieti, e quella farfalla depone uova che non vedrà mai schiudere, perché sa che dopo di lei verranno altre farfalle sue figlie, e tutti noi continuiamo a vivere, oggi, immaginando e progettando, sino all’ultimo, il domani. Nel caso peggiore, quello che penso tu possa immaginare, se non abbiamo un nostro futuro a disposizione, lo proiettiamo su altri, perché così deve essere. Eppure, la sola certezza, è che noi esistiamo in questo momento.



La mamma diede un soldino al suo bambino
Lui mise il soldino in una piccola scatola
Il bambino diventò grande
La mamma se ne andò
Lui ritrovò per caso una scatola, che gli ricordava qualcosa
Ritrovò il soldino, e rivide sua madre
Sua madre gli dà un soldino
Lui mette il soldino in una piccola scatola
...


                                                                                             Silvano C.©

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giovedì 26 febbraio 2015

Una lenta agonia



In un mondo che perde sempre nuovi (vecchi) riferimenti in modo costante ed inarrestabile sembra di dover combattere sortite di rappresaglia, in retroguardia, mentre ci si ritira, non tanto per la paura del futuro, che comunque ha dalla sua energie ben superiori a quelle di chi vi si oppone, quanto piuttosto per difendere la nostra stessa natura, il fondamento che ci giustifica come esseri umani.
Poiché da molti decenni sono un frequentatore di librerie e biblioteche, in modo alterno e mutato nel tempo, ho assistito ad un processo iniziato circa dieci, o meglio, venti anni fa. (Questa stima è viziata da valutazione soggettiva, quindi ampiamente discutibile)
Ho visto chiudere o ridimensionare tantissime librerie. Quelle esistenti stanno trasformandosi quasi ogni mese sotto i miei occhi, cambiando il tipo di offerta commerciale, integrandola, ampliandola. Alcune ospitano un bar, una sala per lettura anche con i quotidiani in libera consultazione, servizi igienici, addirittura un fasciatoio per neonati, oppure vendono  giocattoli, oggetti da regalo, musica e audiovisivi, inseguendo gli interessi e le disponibilità economiche dei potenziali clienti. E parlo delle più grandi, ovviamente, spesso appartenenti a catene nazionali, non delle più piccole, sempre più alle corde.
Le stesse biblioteche pubbliche si devono adeguare ai tempi, e mutano cercando di far fronte a quanto richiedono sempre più utenti che desiderano consumare cultura ed informazione ma non spendere denaro. Ed ecco che pure queste offrono quotidiani, servizi ristoro, spazi per bambini, oltre alle tradizionali sale di lettura, e gli immancabili servizi igienici. In particolare i servizi igienici poi, in qualche caso, sono utilizzati non da chi entra per leggere, cioè per motivi culturali, ma per semplici bisogni elementari, tra i quali è compresa anche quella di lavarsi o fare il bucato, e mi riferisco a casi di frequentatori senza fissa dimora, che tentano semplicemente di sopravvivere in modo dignitoso. Tra questi, ma anche tra gli altri frequentatori, non mancano poi i vandali, che procurando danni di tipo diverso rendono sempre più oneroso gestire tali servizi per l’intera comunità.
È un discorso diverso però quello che vorrei fare, ed un po’ ho deviato dal mio intento iniziale, quindi ritorno al tema.
I libri sono semplicemente sotto attacco, quelli cartacei intendo, in via di lenta estinzione. Tutti i segni premonitori sono presenti. Moltissime offerte di sconti, come durante gli anni finali del VHS, meno giovani che li comprano, preferendo altri supporti, meno gente che ha soldi da spendere in genere, e non solo per i libri, riduzione dei punti specializzati e vendita in altri spazi commerciali, che ovviamente riducono la gamma dell’offerta puntando solo sui soliti noti.
C’è ben poco da fare contro la standardizzazione dei gusti, la cultura superficiale che passa solo attraverso la pubblicità televisiva, la scolarizzazione sempre più derisa e sottovalutata, sia per quanto riguarda gli insegnanti che gli alunni. Gli insegnanti non contano nulla, perché non guadagnano quanto altri che hanno studiato molto meno. Gli alunni non vedono valorizzato e riconosciuto il loro titolo di studio, se non grazie a meriti (non certo di merito) extrascolatici.
Ed allora? Allora nulla. Starò a vedere cosa succede. Ho scorte di libri per superare in un bunker antiatomico che il livello di radioattività ambientale esterno scenda a livelli accettabili. Pazienza se non potrò leggere, nel frattempo, le pubblicazioni su altri supporti non cartacei. Non credo che i libri saranno del tutto spariti quando tornerò alla luce del sole, dopo la notte nucleare, ma neppure so prevedere cosa si salverà dalle macerie di questa guerra in atto.
Forse la lenta agonia del libro è iniziata da un pezzo, ma non so quando finirà.
Mi sbilancio però in una previsione. L'era dell'ebook non sarà lunghissima, perchè gli strumenti usati per leggerlo sono soggetti ad un processo di invecchiamento che non ha precedenti nella storia umana. Molti libri stampati decenni prima dell'invenzione della lettura digitale ci saranno ancora quando quelle allegre e leggerissime macchinette non le vorrà più nessuno, se non i nostalgici che frequenteranno i mercatini di modernariato.
                                                                                             Silvano C.©

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martedì 24 febbraio 2015

Salita


Partendo dalla strada asfaltata e da un parcheggio, si inizia a salire verso l’alto. Il sentiero era, ed è tutt’ora, facile all’inizio, tra muretti, case, alberi e panchine in attesa, ogni tanto, in punti dove ci si può sedere e guardarsi attorno.
Continuando l’orizzonte poco a poco si allarga, si vedono prima i tetti vicini, poi quelli della piccola cittadina e poi oltre, dove la campagna lotta inutilmente per resistere alle strade ed al cemento dei centri commerciali, delle strutture turistiche e delle nuove abitazioni. 
Arrivano suoni da cortili, rumore di traffico, si comincia ad ammirare il lago sino all’altra sponda, e poi più a sud, dove si perde nella leggera foschia.
Se non ci si ferma per non perdere il fiato e si sale con metodo ed il giusto ritmo, magari da soli, si cominciano ad apprezzare particolari minimi, come una piantina che si conosce bene, oppure un arbusto che invece non si sa che nome abbia. Poi si vedono insetti, e piccoli animaletti se si è fortunati, o uccelli.
La salita ancora non diventa impegnativa, ma richiede maggiore attenzione. Il sentiero ora è formato non solo da terreno calpestato da migliaia di scarpe e scarponi, ma anche da roccia e grossi massi che spuntano, con un po’ di erba e anche muschio, alla loro base.
Finalmente si arriva al bastione, solido, orgoglioso, a guardia del territorio, e ci si può fermare per guardare in basso, affacciandosi dal muretto che circonda un piccolo spiazzo pianeggiante attorno alla costruzione. Il potere militare e politico lo ha eretto, ed ora è ancora lì, un po’ superato, ridotto ad essere attrazione turistica anche se non vorrebbe, perché rimpiange la sua gloria.
Ma si continua, perché il piccolo sentiero, ora più ripido, seguita a salire, e il bisogno di seguirlo supera la tentazione di sedersi e poi scendere. Se c’è un sentiero, significa che molti lo hanno già percorso, e che probabilmente vale la pena percorrerlo.
Per chi non è molto allenato ora le cosce ed i polpacci iniziano a dar segnali, ma non c’è fretta, e ci si può tranquillamente adeguare alle proprie forze. Se capita di essere superati da qualcuno che sale di corsa con scarpette leggere e semplici pantaloncini corti è sufficiente ammirarlo, e continuare col proprio passo.
Poi, piccola e aderente alla roccia, la chiesetta, eretta come gesto di ringraziamento, ben al di sopra del bastione, non semplicemente come le cattedrali costruite allo stesso livello dei castelli. Il divino sopra l’umano, per chi ha fede, o semplicemente l’ideale sopra la forza. 
Oltre la chiesetta però il sentiero sempre più ripido continua, perché non si è arrivati alla cima, al limite estremo, e si è spinti a continuare.

In pochi minuti si arriva ad una ferrata, e per poter proseguire occorre un’attrezzatura seria unita al desiderio di superare l’ostacolo. Qui la scelta diventa chiara. Alcuni proseguono, altri si fermano, rinunciano, e, dopo aver ammirato ancora una volta la vista stupenda, iniziano a scendere.

                                                                                             Silvano C.©

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lunedì 23 febbraio 2015

Non ti vedo


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“Non ti vedo, quindi non esisti, non puoi più farmi paura.”
A volte, da bambini, ci si rifugia in questa allucinazione innocente che vuol rimuovere persone, animali o cose che possono spaventare.
Esiste poi il caso un po’ diverso che spinge ad immaginare (sperare o temere) che tutto il mondo si riduca unicamente al visibile, al percepibile con la sola vista, e che col passare degli anni diventa il mondo raggiungibile con uno qualunque dei sensi, e in seguito quello legato all’esperienza diretta, personale.
Si arriva così all’illusione di poter ignorare quello che invece siamo tenuti a conoscere per età, studi, esperienze di vita, ambiente e, aggiungo, informazioni di ogni genere che ci colpiscono ogni giorno attraverso televisione, rete, giornali…

E qui sta il problema. Se una cosa non la conosco, ovviamente non ne sono responsabile. Se un fatto, invece, non lo voglio conoscere mentre ne avrei le possibilità, inganno me stesso, prima ancora di mentire agli altri.
Evitare ogni tipo di approfondimento per evitare coinvolgimenti è una scappatoia infantile. A complicare il ragionamento bisogna specificare poi che non è possibile approfondire tutto, e troppo è destinato a rimanere in ogni caso lontano dalle nostre possibilità.

Ecco quindi la situazione. La responsabilità esiste, non è possibile girare semplicemente la testa dall’altra parte o chiudere gli occhi, e allo stesso tempo non si può essere responsabili di ogni cosa.
Mi viene da pensare a persone che assumono su di loro molteplici incarichi, tutti magari ben retribuiti, e fisicamente non possono, neppure disponendo di giornate estese a 48 ore, dedicare ad ognuno di loro l’attenzione e l’impegno che meriterebbe. Il sospetto, in questi casi, è che si tratti, volgarmente, di smania di potere non inteso come servizio, bensì come fonte di prestigio e vantaggi (Uso parole prudenti volutamente, invece di termini che potrei benissimo scrivere, questo spero che tu lo capisca).

Il “non ti vedo” lo voglio declinare, in conclusione, in un modo ben diverso. Io non ti vedo, ma so che ci sei, e non sei sola/o. Sei un elemento di una legione smisurata, troppo silenziosa ed educata. Sei colei, o colui, che non si gira sempre dall’altra parte, ma che si mette in gioco, per quanto può, secondo i suoi mezzi. Cerchi di capire. Ti sforzi di fare la tua parte. Non parli di difesa della famiglia e poi, nella tua vita privata, sei un pluridivoziato. Lavori, se hai la fortuna di averlo il lavoro, in modo onesto. Difendi i tuoi diritti e quelli degli altri allo stesso modo. Capisci che la libertà di ciascuno di vivere la propria vita è sacra anche se non credi a nessun dio, perché la sua libertà non tocca la tua. 
Sai insomma che non potrai cambiare il mondo, ma non fingi di non sapere. Semplicemente hai delle priorità, e ti dedichi a svolgere la tua parte. Solo la tua, ma sino in fondo, senza dire: “non ti vedo”.


                                                                                             Silvano C.©

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domenica 22 febbraio 2015

Donato ma non profumato



Avviso: Lettura sconsigliata a chi non ama le puzzette e vuole evitare temi così volgari.



Donato, come tutti, vive gli anni infantili senza far molto caso al problema delle flatulenze, anzi, viene normalmente incoraggiato dai genitori ad espletare con gioia tutte le sue funzioni fisiologiche comprendenti cacca, pipì, ruttini, peti e quant’altro.



Un po’ più tardi, per quanto inizi a ricordare, certe sue manifestazioni cominciano ad essere meno gradite, anche alle persone a lui più care e vicine. Ricorda ancora con nostalgia il giorno nel quale la nonna, passando nelle sue vicinanze ed annusando l’aria da lui decisamente ammorbata, se ne esce con una frase che stampa nella memoria: “As sent c’at magni dla sustanza!” (traduzione simultanea: “Si sente che ti nutri con alimenti sostanziosi!”). In tal modo intendeva fargli notare come il benessere, che lei in fondo non sapeva apprezzare rimanendo legata ai suoi piatti poveri della tradizione contadina, lui invece lo sfruttava a suo vantaggio, mangiando bene e di tutto.



Durante l’infanzia e l’adolescenza certe battute, in particolare riguardanti le emissioni più rumorose ed odorose, tra maschi forti ed abituati a tutto, diventano motivo di risate e di prese in giro, ma nulla di più.

Solo qualche anno più tardi, con alcuni amici, andando in giro in auto, ha luogo un piccolo salto di qualità. Quasi per gioco uno di loro, un giorno, mentre il bel tempo permette di tenere i finestrini abbassati, con voce allarmata dice: “Chiudi, chiudi!”, e alza velocemente il vetro dal suo lato subito imitato dall’amico seduto a fianco. A quel punto, nell’abitacolo sigillato, si concreta (termine ben meditato e adatto alla descrizione) una puzza assolutamente incredibile ed insostenibile, quasi emetica.



In una memorabile serata che risale a quegli anni, Donato, un amico e un’amica stanno discutendo di filosofia e di fatica di vivere, di massimi sistemi e di solitudine, di teatro, di progetti ed ambizioni per il futuro. Stanno parlando un po’ di tutto, insomma, e di nulla, quando lui se ne esce, rivolto all’amica, con: “Sai che non ho mai parlato di scoregge con una ragazza?”. A quelle parole l’amico per poco non si strozza per la risata che non riesce a trattenere, e l’amica abbozza imbarazzata e con un sorriso di circostanza, senza sapere cosa rispondere. In effetti non serve risposta. E’ un modo di comunicare un’emozione, per così dire, non è neppure una domanda retorica.



Con la maturità, le esperienze e la sistemazione affettiva il tema non viene dimenticato. Stavolta è la sua compagna che condivide con lui, in modo forse più delicato, la naturalezza della loffia, la poesia del peto, la complicità del vento. Tutto sembra andare al suo posto, infine, senza drammi o enfatizzazioni inutili. Eppure, ancora adesso, è un argomento del quale non è educato parlare, almeno in pubblico. Lui se ne fa una ragione, e sorride.



“Quando io scoreggio è lui a puzzare” Georges BenjaminClemenceau, in una discussione, indicando il suo capo di gabinetto.

                                                                                             Silvano C.©

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sabato 21 febbraio 2015

Siccità


Il primo effetto fu un diffuso senso di ottimismo, di migliorata attenzione nei confronti delle persone incontrate anche per strada e di maggior disponibilità ed apertura a nuove possibilità sociali offerte da questa primavera quasi estate così bella e prolungata.
Fu effimero, tuttavia, sostituito nell’arco di meno di due mesi da nascenti preoccupazioni e meno positive considerazioni.

La donna guardava le piantine nel suo orto, ed era preoccupata perché non crescevano col solito vigore. Doveva innaffiare la terra almeno due volte al giorno e facendo una certa fatica. Con quel vecchio pozzo che esisteva da generazioni, costruito da un suo bisavolo quasi centocinquanta anni prima, non era uno scherzo sollevare circa venti secchi di acqua ogni volta, perché tanti ne servivano. E poi l’acqua veniva quasi subito inghiottita dal terreno secco, oppure evaporava al semplice contatto col suolo caldo, se eseguiva l’operazione durante il giorno.

Il pescatore notò che l’ormeggio dove solitamente teneva la sua barca dalla chiglia piatta tradiva il lento abbassarsi del livello del fiume, e che poco a poco comparivano grandi distese di sabbia in punti che sino a poco prima erano stati coperti dalla corrente.

Con varie ordinanze molti sindaci vietarono espressamente, da un certo momento in poi, di usare l’acqua potabile dell’acquedotto per usi diversi da quelli legati all’alimentazione o all’igiene della persona. Qualcuno continuò a lavare tranquillamente l’auto in spazi privati o ad innaffiare le piante, ma iniziarono ad arrivare le contestazioni da parte dei vigili urbani e le conseguenti sanzioni.
La temperatura era costantemente sopra le medie stagionali, e quando finalmente arrivò il periodo solitamente più piovoso dell’anno non successe nulla. Non cadde una sola goccia di pioggia, il cielo si mantenne sgombro da nuvole, e le località di villeggiatura balneare vissero una inaspettata stagione di attività molto prolungata. Chi poteva perché ne aveva i mezzi o disponeva del tempo ne approfittò per farsi vacanze non previste, ma molto gradite.

L’enorme consumo di energia elettrica impiegata per far funzionare i condizionatori ed i refrigeratori mise in crisi la rete di produzione e distribuzione. I bacini montani erano quasi tutti al limite, e non si voleva scendere oltre una certa soglia, quindi la produzione idroelettrica registrò una caduta verticale. Aumentò l’importazione da paesi stranieri sia di combustibili fossili da usare nelle centrali termoelettriche sia di energia attraverso i grandi elettrodotti esistenti.

Inutile spiegare che il consumo eccezionale di acqua minerale in bottiglia fece fare affari d’oro alle società concessionarie delle varie sorgenti ed alle ditte responsabili dell’imbottigliamento. La vita cambiò, in modo impercettibile ma costante.  Gli orari delle attività ricreative all’aria aperta si spostarono verso i momenti più freschi della giornata, e chi doveva comunque lavorare nelle ore più calde si trovò in grosse difficoltà.

La donna, un giorno, calando il secchio con la fune, lo riportò in superficie semplicemente sporco di fango, ma vuoto. Il pescatore rinunciò del tutto ad usare la sua barca dalla chiglia piatta. Era in secca ed il rigagnolo di acqua residua che scorreva al centro del letto del fiume ormai di pesci ne salvava ben pochi. Nessuno si azzardò più a sprecare l’acqua potabile, perché non erano più necessari i vigili ad impedirlo, ma era sufficiente l’implacabile ed irascibile controllo del vicinato. La bella stagione balneare non potè proseguire all’infinito. Anche le pinete ed il verde che allietavano la riviera cominciarono ad ingiallire e l’acqua salata iniziò a risalire lungo i fiumi e i canali, ed anche attraverso la falda freatica, rovinando le colture prima per centinaia di metri e poi per chilometri nell'entroterra.  Pochi riuscivano a continuare a  divertirsi in questo ambiente sempre più evidentemente minacciato e morente.

Fenomeni di subsidenza per fattori climatici divennero più evidenti dove già presenti, e comparvero dove prima non si erano mai notati a memoria d’uomo. Crepe nuove, ogni giorno, iniziarono a minare la stabilità degli edifici nei centri storici ed anche gli edifici di nuova costruzione ma di grande estensione non ne uscirono indenni.

Un fenomeno nuovo, per certi versi imprevisto, toccò la salute delle persone. L’umidità dell’aria, scesa a valori bassi mai toccati prima, causò patologie sempre più gravi al sistema respiratorio e, nei soggetti più deboli, anche alle capacità omeostatiche sia termiche che sistemiche.

Le biblioteche, le librerie domestiche, le stamperie,  tutte le case editrici ed i giornali dovettero affrontare un’invasione di microrganismi mutanti adattati al clima secco che, unita ad una percentuale ormai prossima allo zero di umidità nell’aria, progressivamente determinarono la polverizzazione di quasi ogni tipo di carta, distruggendo in breve tempo secoli di cultura conservata con quel supporto.

La siccità durò ininterrottamente per oltre 45 anni, provocando danni incalcolabili in quasi ogni settore di interesse umano ed incrementando i flussi migratori oltre ogni possibile pessimistica previsione. La popolazione mondiale, dopo millenni, invertì per la prima volta in modo abbastanza stabile il suo ritmo di crescita, passando a valori negativi.

Poi, un mattino, iniziò a piovere.

                                                                                             Silvano C.©

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venerdì 20 febbraio 2015

Antivirus


È martedì, e come al solito Søren entra nel locale verso le 21. Passa il polso accanto al sensore dell’ingresso e si ritrova nel grande atrio che in quel giorno non è mai molto affollato. Saluta con un cenno del capo alcune persone che conosce di vista poi sale la scala verde, evitando accuratamente l’ascensore. Troppi anni compiuti da poco lo spingono a tentare di contrastare il tempo che avanza facendo esercizio fisico, e le scale sono un ottimo allenamento.
Il corridoio al primo piano è illuminato con luci basse, e lentamente lo percorre sino alla porta con la spia verde che lo attende. Entra senza bussare ed è in quella spiaggia, identica, col sole delle 14 alto in cielo a bruciare la pelle, il mare azzurro e la sabbia che scotta sotto i piedi. Lei lo aspetta stesa su una stuoia, incurante dei rari bagnanti a distanza discreta. Lo fissa, lui lo sa, attraverso le fessure di quel cappello di paglia che è anche l’unico capo di abbigliamento che indossa. Pure lui del resto non ha molto di più addosso, e si avvicina per ritrovarla ancora una volta.

Quando esce di nuovo all’aria aperta, sulla Klostergade, sono ormai le 7 di mattina di mercoledì, e si dirige senza alcuna fretta verso il suo studio di consulenza matrimoniale, l’ultimo rimasto in tutta la città e sempre meno frequentato. I vecchi clienti-pazienti ormai si vedono sempre più raramente, e le nuove coppie tendono a risolvere le problematiche che incontrano nelle loro relazioni usando la realtà specchio invece di parlarne tra di loro o rivolgersi ad esperti. In certi momenti, passeggiando per Aarhus, probabilmente sono più gli specchi delle persone fisiche che si possono incontrare.
Ancora anni prima la situazione non era così, e chi parlava del pericolo che correva la società intera a permettere questa rivoluzione apparentemente indolore veniva considerato un pazzo catastrofista. Oggi, semplicemente, nessuno si lamenta più.

Søren capisce ormai quando ha a che fare con una persona vera oppure con uno specchio, anche a distanza, senza alcun bisogno di toccarsi il polso. Se quella ragazza ha un comportamento provocante, veste con abiti ed accessori che lo eccitano e sembra guardarlo con interesse è con tutta probabilità uno specchio. Quella donna apparentemente dimessa, vestita senza richiami calibrati sul suo immaginario e che cammina senza degnarlo di molte attenzioni è invece sicuramente vera, prova le stesse sue paure e desideri, è come lui. Poi però è assalito da dubbi. Non è vero che sia così facile. Alcuni specchi assomigliano a persone reali, si mimetizzano per poter arrivare a tutti, e nessuno riesce ad individuarli se non con sistemi costosi.

Un buon antivirus offre qualsiasi tipo di protezione, e permette di individuare ogni tipologia di specchio. I migliori sanno individuare anche onde pericolose o positive provenienti da persona reali, ma sono molto costosi, e quasi nessuno se li può permettere. La maggioranza si dota della soluzione standard, e conduce in questo modo una vita in precario equilibrio tra illusione e concreto, riportata alla condizione naturale e primordiale, l’incertezza.

Lui, tutti i martedì, ritrova la sua Bente nello splendore della sua giovinezza, su quella spiaggia o in altri luoghi rimasti scolpiti dentro. Non cerca altro. Quando ha cercato altro, perché lo ha fatto, ha provato un piacere nuovo, ha fatto cose che con lei non era mai riuscito a fare, si è immerso nella profondità più nera della sua fantasia e dei suoi desideri, ha realizzato quello che in altri tempi lo tormentava, e poi si è ritrovato senza riferimenti, col corpo placato ma la mente insoddisfatta. Quindi si è stancato, ed ha lasciato perdere.

Non ha problemi economici. Da quando Bente se n’è andata per sempre, tanti anni prima, è rimasto solo. Anche i figli, tutti con una vita che ignora la sua, stanno lontani. Il suo cospicuo capitale gli permette di vivere nel modo migliore quel momento, e l’antivirus è uno strumento indispensabile per addentrarsi nel mondo parallelo degli specchi che gli restituisce le antiche emozioni.
Il solo problema, con gli antivirus, è che devono essere aggiornati, e che bisogna pagare l’abbonamento, ad ogni scadenza. Søren questo lo sa molto bene, e fa attenzione ai segnali che il polso gli manda.
Un paziente gli ha raccontato recentemente che lui non si fida degli specchi, che alcuni di loro non cercano di procurarti piacere o di recitare una parte con il solo scopo di ottenere un giusto compenso a favore chi li controlla. Certi, pare, sono programmati per illudere e portare via ogni cosa, uccidendo, alla fine. Secondo quel paziente, che sembra ben informato, solo un buon antivirus è in grado di proteggere contro questo tipo di rischi. E lui preferisce evitare, uno dei pochi rimarti, gli specchi.

Søren, circa sei mesi dopo la seduta con quel paziente, manda una paio di messaggi ai figli con un generico saluto, come fa ogni tanto, non in modo regolare. Poi decide consapevolmente di non rinnovare l’abbonamento ormai scaduto. Quella sera stessa, è martedì, entra per l’ultima volta nell’edificio sulla Klostergade.


                                                                                             Silvano C.©

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giovedì 19 febbraio 2015

Alcol


Diversi, anzi, molti anni fa, in una valle del Trentino, neppure di quelle più isolate, successero varie cose. Mi dirai che come inizio è abbastanza vago, perché ovunque succedono varie cose. È vero. Io però intendo arrivare subito senza perdere altro tempo ad un episodio specifico.
Una coppia di insegnanti, amici, più o meno coetanei, furono invitati dai loro alunni di terza media (così si chiamava allora la scuola secondaria di primo grado) ad una festa che si sarebbe tenuta nel pomeriggio in un paese non lontano, quello dove loro abitavano, un piccolo centro formato da chiesa, cimitero, poche case e ancor meno negozi e luoghi pubblici.
Si accordarono per andare con una sola auto, e la scelta cadde sulla Mini Minor di uno dei due, perché la vecchia Fiat 850 grigio topo dell’altro era molto meno affidabile lungo certe strade di montagna, e non di rado aveva già creato problemi col radiatore.
La decisione, per come andarono in seguito le cose, si rivelò molto azzeccata.

Arrivarono nella località indicata ma, per una strana legge secondo la quale più un posto è piccolo più facilmente ci si perde poiché sono più carenti anche le indicazioni, faticarono a trovare la festa. In qualche modo risolsero il problema, e rimasero molto stupiti nel vedere che i ragazzi stavano urlando e ridendo accanto alla chiesa, dentro un salone abbastanza poco illuminato e sul piazzale davanti a questo. Dal piazzale poi si godeva una magnifica vista sulla valle sottostante e sul cimitero, cinque o sei metri più in basso.
Non capirono subito di essere nel posto sbagliato, con le persone sbagliate, nel momento sbagliato e che loro stessi ricoprivano un ruolo sbagliato, ma non impiegarono neppure troppo tempo per farlo.
Dall’interno dell’antro buio usciva una musica molto forte. Entrarono, giusto per far vedere che erano arrivati e salutare, e vennero accolti da risa e benvenuti urlati da ragazzi un po’ alterati. Momenti imbarazzanti li provarono quando notarono che nei punti meno illuminati le mani dei ragazzini cercavano i culi delle ragazzine, con somma letizia e compiacimento di tutti. Molti erano perfettamente ubriachi, capirono subito, ed in modo evidente. Uscirono, e scoprirono che nel frattempo un paio di loro alunni  si erano arrampicati sul tettuccio della Mini Minor, auto solida, non certo come la 850 Fiat.  Si avvicinarono per farli scendere e allora videro, con terrore, che altri ragazzi, completamente ubriachi, stavano camminando in bilico sul muretto che separava il piccolo piazzale dal cimitero sottostante, col rischio evidente di cadere di sotto e far finire la bella giornata con una tragedia.

Partirono dopo essersi semplicemente guardati negli occhi, salutando quelli che li videro salire in auto semplicemente con qualche scusa o facendo ciao con le mani.
Erano fuggiti, ne erano consapevoli, ma non potevano neppure rimanere, e non avrebbero mai dovuto andare. Tra i loro colleghi, del resto, nessuno aveva accettato l’invito, ma quelli conoscevano la valle, mentre loro due, freschi di nomina annuale, mandati tra i monti e provenienti da province emiliane, non sospettavano neppure che quello fosse il tipo di festa normale per quei ragazzi di terza media.

                                                                                             Silvano C.©

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mercoledì 18 febbraio 2015

Non è magnifico


In tempi passati vidi, al Ristori di Ferrara, una pellicola che fece discutere, con Ugo Tognazzi nei panni del magnifico e Claudia Cardinale in quelli della moglie.
I turbamenti adolescenti di allora sono rimasti scolpiti e solo con gli anni, poi, ho rielaborato alcuni luoghi comuni presenti nel linguaggio ed usati in modo superficiale, come si usa tipicamente al bar.
Staccandomi da quel film, che è solo uno spunto nostalgico, più precisamente un espediente introduttivo, ora provo rabbia quando sento pronunciare certe parole con leggerezza, quasi con soddisfazione.
E capita pure recentemente, sui social, che qualche sottosviluppato pretenda di essere spiritoso salutando, il mattino, con:
“Buongiorno zoccole... Buongiorno cornuti”.
Avrei dovuto lasciar correre, sarebbe stato meglio forse. Invece ho risposto, in modo ironico, capovolgendo dal femminile al maschile l’ottica maschilista tanto radicata in qualcuno che crede persino di avere ragione.
Leggendo prevenuto quelle poche parole mi è apparso evidente l’errore logico che solo apparentemente spalmava in modo equo un’offesa sia sulle femmine che sui maschi, e quindi, offendendo entrambi, da accettare come politicamente corretta, e da ridimensionare a semplice battuta, solo un po’ volgare ma nulla di più.
Invece l’analisi logica porta ad altri risultati:
Le amiche sono zoccole, cioè facili puttane, e questo semplicemente perché donne.
Gli amici sono poveri fessi traditi dalle mogli, e quindi non sono oggettivamente colpevoli, al massimo ingenui. Le colpevoli sono le mogli traditrici, zoccole appunto.
In altre parole, se mi vuoi seguire, è sempre la donna la colpevole presa di mira, come se l’eventuale traditrice non coinvolgesse un altro uomo per poter realizzare il suo tradimento. In questo caso come può essere descritto questo secondo uomo? Un porco forse, un maniaco del sesso, o più probabilmente un furbo, che approfitta delle occasioni che gli capitano?

Per fortuna le cose mutano, lentissimamente, e nella realtà alcune libertà sono concesse ad entrambi i sessi, ma il linguaggio si modifica sempre dopo, si oppone al mutamento, riproducendo schemi mentali radicati e schematici.
Non mi dilungo per non cadere nello sconforto, perché la considerazione attuale riguardante uomini e donne sessualmente liberi è ancora significativamente diversa, aggravata da ideologie portate da culture medievali che arrivano anche nel nostro paese, veicolate da motivazioni religiose reazionarie ed integraliste che, pure tra italiani, ricominciano a farsi vedere dopo anni nei quali sembrava che fossero state superate per sempre.

Immagine tratta dal film al quale accenno in apertura.
                                                                                              Silvano C.©

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martedì 17 febbraio 2015

Ricomincio



A volte capita. A volte capita che si senta il bisogno di un nuovo inizio, per evitare l’evitabile, per osare l’osabile, per sbagliare di meno o, pur non sbagliando, per poter trovare una via di fuga.
Ad anni di distanza si analizzano frasi o discorsi che hanno innescato conseguenze inaspettate, semplicemente non previste perché le parole sono state fraintese nel loro significato.
Come una slavina prodotta non da un fuori pista criminale ma da un evento del tutto naturale, senza colpa alcuna di chi viene travolto, dovuta a fatalità, conoscendo il rischio insito in ogni attività umana.  Avere la possibilità di capire prima che quella slavina sarebbe partita, di razionalizzare in modo inconcepibile i mutamenti che si sarebbero prodotti ed evitarne le conseguenze.
Se fosse possibile tutto questo, ora, andando indietro, magari in un numero limitato di circostanze, ripartendo “da prima”, chissà se poi avremmo evitato gli eventi successivi. Forse quelli specifici e che vorremmo eliminare sì, ma non altri pronti a prenderne il posto, come in un gioco dove la probabilità che esca una certa carta è legata al numero di quelle che sono rimaste ancora coperte, ma che alla fine tutte, 40 o 52, in ogni caso, troveranno il modo di farsi vedere.
L’idea di ricominciare probabilmente è solo una fantasia consolatoria per menti deboli, che cercano responsabilità esterne ed immaginano una verginità ed una purezza ben lontane dall’essere reali.

Forse tuttavia è anche un esercizio utile per capire il nostro posto nel mondo, per toglierci dal posto centrale nel quale la nostra limitata esperienza soggettiva sembrerebbe porci. Mi convinco sempre più che alcune delle scelte che ho fatto, in anni passati, sono state del tutto inutili, e che gli eventi poi hanno preso un corso del tutto inatteso. In altri casi invece sono state vitali, momenti di crescita reali, passaggi verso una maggior consapevolezza e maturità.

Quando sono uscito dalla convinzione che molto mi fosse dovuto e che comunque avrei solo dovuto aspettare perché capitasse sono passato dall’altra parte del guado, sulla riva dove occorre chiedere, per avere, e bisogna pure accettare i tanti no ed andare avanti. Quando mi sono messo in gioco, ammettendo le mie debolezze, rischiando quello che pensavo il ridicolo, dichiarando le mie enormi insoddisfazioni ed i desideri dei quali persino mi vergognavo, ho finalmente capito che un rifiuto è mille volte meglio dell’inutile attesa dell’evento miracoloso.

Ricomincio, quindi, ma forse no. Ricominciare non mi serve a nulla, è preferibile andare avanti e lottare più che altro contro me stesso e meno contro gli altri.

Fonte dell’immagine      
                                                                                             Silvano C.©

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lunedì 16 febbraio 2015

Via Porta d'Amore


Informativa sulla privacy

Quella casa ha coronato un sogno lungo una vita, lo sa bene, come sa bene quanti sacrifici ha fatto per conquistarla, e non solo lei.
Ora è tardi per i discorsi, per le spiegazioni, vuole restare ancora un po’, ma non troppo, perché in fondo molte delle sue certezze sono finite come un frutto troppo maturo, sono marcite, spiaccicate, ammuffite.
Uno dei pochi punti fermi residui è l’amore che lui, senza un attimo di incertezza, da sempre, le ha dimostrato. Lei forse non ha ricambiato nel modo giusto, incapace di controllarsi in certi scatti d’ira, in molti rancori malcelati e non di rado manifestati. Sa di essere stata ingiusta con suo padre, e con sua madre. Ma è stato troppo amore anche il suo, e gelosia, e tentativo di vedere realizzati sogni che invece si allontanavano. Gelosia dell’amore dei figli, bisogno di essere lei centrale, capita nel suo disinteresse e nella volontà di sacrificarsi per gli altri.
Quante cose avrà tempo di chiarire in un tempo futuro, se ci sarà.
Per adesso si limita ad osservare le persone che vengono, e capisce finalmente quando il suo giudizio è stato corretto e quando invece si è sbagliata. Ha costruito una montagna che ha generato conseguenze a cascata sulle sue convinzioni, e non c’era verso di farle cambiare idea.
Se occorreva rinfacciare un presunto torto subito non si era mai tirata indietro, a costo di tagliare i ponti con chiunque. Aveva fatto passare anni tremendi ai suoi genitori, gli ultimi. Aveva puntato sulla figlia sbagliata, pentendosene appena in tempo, prima che ogni cosa si disfacesse travolgendo lei e lui in una catena ininterrotta di errori. Aveva puntato troppo sul denaro, sull’avere, ma quello era il suo modo di amare, di dare sicurezza anche economica, perché senza di quella, e senza la salute, tutto il resto diventava molto più difficile. Ma aveva pagato, col suo lavoro, con la sua fatica, sino a quando aveva potuto.
I detriti di una vita possono servire per costruirne altre, ora lo sa. E sa anche che quando gli chiedeva se costava molto la sua degenza in quella clinica lui le mentiva spiegandole che la sua pensione era più che sufficiente per coprire ogni esigenza. Era questo il suo modo di dimostrarle sino alla fine il suo amore, quando lui ancora poteva parlarle e lei rispondergli. Anche di questo, se potrà, vorrà dirgli grazie.
Ora però pensa un’ultima volta alla sua casa, in via Porta d’Amore, mentre si trova stesa, immobile, in quella stanza fredda di via Fossato di Mortara.

L’immagine è una elaborazione ricavata da Google Earth

                                                                                             Silvano C.©

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domenica 15 febbraio 2015

Omnia munda mundis



(sottotitolo: con gli occhi del voyeur)

Ogni immagine che mi raggiunge, che mi arriva dentro intendo, deve prima
passare alcune barriere. Questi ostacoli da superare sono diversi da individuo ad individuo, e tradiscono, in modo assolutamente incontrollabile, le singole personalità. Occorrerebbe partire da lontano per fare un discorso esaustivo, iniziando dai nostri sensi, che sono diversi da quelli degli altri esseri viventi.
Nessun animale ha recettori perfettamente sovrapponibili ai nostri, quindi noi non vediamo e non percepiamo il mondo come lo fanno tutti gli altri, ma solo a modo nostro. Noi non distinguiamo l’ultravioletto come le api, non elaboriamo le vibrazioni che arrivano ai pesci nell’acqua, non udiamo i rumori che sente il cane…
Io poi, quando cammino per strada,  non vedo quello che vedi tu, al mio fianco, anche se abbiamo un campo visivo praticamente identico.
Tu magari vedi il colore di quell’abito e degli accessori, io invece noto la lunghezza di quella gonna e le gambe. Qualcuno è attirato dalle scarpe, altri dai giochi dei bambini. In questo ultimo caso si potrebbe trattare di bambini a loro volta, di genitori, di nonni o addirittura di pedofili. Ed in ciascuno di questi casi ciò che vedono, e che li interessa, è sensibilmente diverso.

L’estrema bellezza e varietà della natura mi appare, a seconda del mio stesso umore, diversa da ieri. E nel rapporto con i miei simili la mutazione è lenta ma costante, irreversibile per certi versi. Quello che mi si è fissato in momenti molto precoci nella mente, che mi ha condizionato da sempre e ancora oggi mi indirizza i pensieri rimane come strato sedimentario profondo. Poi è venuta l’esperienza a complicare la scala dei valori, a insegnarmi la malizia e la dissimulazione, ad assumere un ruolo, o meglio, molti ruoli. Quindi continuo a vedere quello che non vedi tu, almeno per alcuni particolari, anche se fingo diversamente.

Io sono sempre più convinto però che sia bello giocare con queste modalità di comunicazione non verbale, facendole tassativamente restare un gioco e mai una seppur minima invadenza o violenza reale. Il pensiero non è controllabile, ma le azioni sì, ed è questa la consapevolezza che deve scendere in campo a difesa della fantasia senza limiti e della libertà altrui, fonte, per chi ne sa godere, anche del proprio piacere. 

Ed ora la ragazza seduta in riva al fiume a cosa ti fa pensare? E lei cosa pensa?


La foto è di Robert Doisneau

                                                                                             Silvano C.©

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sabato 14 febbraio 2015

lo struzzo ottimista


Informativa sulla privacy
Stavo aspettando, in auto, e mi guardavo attorno, osservavo i passanti, indugiavo sulle espressioni dei volti, e vedevo anche l’ambiente attorno, le case dignitose e dall’apparenza normale, ed ho avuto la sensazione di vivere un momento di transizione, esattamente in quell’istante. Nulla di nuovo, sia chiaro, perché il fenomeno è evidente da anni, ma ugualmente ne ho avuto una specie di consapevolezza con immagini nuove.
Quella bambina ad esempio, era reale o soltanto virtuale? E quell’anziano signore che scendeva a fatica dall’auto guidata da un familiare era in carne ed ossa? E l’auto esisteva veramente?

Sono stato assalito dal terrore dell’immateriale, dell’annullamento irreversibile, della negazione del sole e delle piante, della mutazione di ogni cosa della realtà in oggetti impalpabili, soltanto apparenti.
Mi sono chiesto che destino aspetta quelli che ancora toccano la terra con le loro mani per produrre il cibo che mangiamo se anche in campagna le macchine fanno prima e meglio il lavoro degli uomini. Esagero, è chiaro, ma la sensazione di disorientamento che ho provato è stata vera.

Un negozio chiuso, un giovane che cerca lavoro, un impiegato che tra poco sarà sostituito da operazioni on line, il denaro che si alimenta solo di altro denaro, senza passare prima dalla produzione di beni che ha bisogno di uomini, un enorme videogioco che ingloba le vite e le sacrifica o le finalizza in ruoli rigidi, la vera miseria e la guerra che sono sentite solo come fastidio da allontanare, per evitare il contagio. E il lavoro, se c’è, è pagato meno ed è precario, per definizione. Si salvano solo i ceti alti, coloro che sanno molto bene che la materia conta più del virtuale, che hanno posti sicuri, più di uno, e l’uscita di emergenza pronta, in caso di bisogno. Tutti gli altri sono sacrificabili, contano esclusivamente come voto, vanno solo convinti di come devono votare, ed è preferibile che restino il più possibile nell’ignoranza, nella rabbia sterile, nell’illusione del cambiamento (magari distraendosi come loro conviene) .
Qualcuno pensa che il voto non serva a nulla, e vedere quanti eletti, senza vincolo di mandato, tradiscono la buona fede di chi li ha votati, pur concedendo a questi rappresentanti un’onesta di scelta che non sempre è scontata, fa sospettare che una parte di ragione la possa avere.

Stavo aspettando, in auto, e mi guardavo attorno, osservavo i passanti. A cosa stiamo andando incontro, tutti quanti, nei prossimi anni? Il tanto peggio tanto meglio ancora non mi ha convinto, ma credo di essere un inguaribile ottimista.


                                                                                   Silvano C.©

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venerdì 13 febbraio 2015

Sette vite


Prima di morire Paul Etang non cambiò la sua idea sulla metempsicosi. Lui di vite ne aveva vissute abbastanza, non credeva in reincarnazioni dopo la morte come invece la sua sesta moglie Sati. Fu colonnello agli ordini di Napoleone, sino alla battaglia vinta a costo di enormi perdite, a Smolensk, prima di abbandonare quelle terre gelate, le truppe francesi e la prima moglie, Enriette, per dirigersi verso est, vestito da contadino e in cerca di un diverso destino.

A Samara arrivò di notte, dopo giorni di viaggio nei quali aveva solo bevuto acqua e mangiato erba, e fu quasi ucciso da un gruppo di nomadi se non fosse stato per l’intervento di una della loro donne che si invaghì di quel giovane dai bei capelli e dalla barba troppo lunga. Anche se vestito da pezzente lei intuì in qualche modo le sue origini. Sei mesi dopo fu sua sposa e la coppia festeggiata con una grande festa nell’accampamento. Kirnell, così aveva detto di chiamarsi ai nomadi, rimase con loro giusto il tempo per trascorrere un intero anno con Zulaka e fargli concepire due gemelli prima di lasciare di nuovo il suo passato alle spalle, stavolta con un cavallo, diretto ancora più a est.

Giunse ad un villaggio vicino alla futura Akmolinsk e si trovò bene, tra quella gente ospitale. Si decise a fermarsi, convinto di aver messo abbastanza spazio tra lui e i nomadi, e si inventò il mestiere di cerusico. Dopo aver assistito in battaglia tanti compagni feriti e visto morire troppi uomini di valore, decise che ne sapeva a sufficienza per cercare di salvale, le vite, invece di fermarle. Infatti si scoprì naturali ed intuitive capacità taumaturgiche ancora più che mediche, ed in pochi anni la sua capanna prima e la sua casa dopo divennero meta, nell’intera regione, di molti che cercavano un sollievo alle loro sofferenze. Lì conobbe la sua terza moglie, Atana, di dieci anni più giovane di lui, che divenne pure la sua assistente ed infermiera, oltre che madre di diversi suoi figli. Anche quella sua parentesi, prolungatasi per circa 14 anni, ad un certo punto, all’improvviso, in una bella giornata di primavera, finì. Si allontanò senza salutare nessuno, diretto ancora verso est, percorrendo strade secondarie e nascondendo il volto a coloro che incontrò sulla via per molti giorni, sino a quando fu certo che difficilmente qualcuno lo avrebbe riconosciuto.

Camminò attraverso montagne sempre più imponenti, sino a trovare una caverna ben riparata nella quale scorreva un rigagnolo di acqua limpida e buona da bere. Si fermò, sposò la Solitudine, si nutrì del poco che poteva trovare attorno, e si fece eremita. Non si cambiò gli abiti sempre più logori che indossò per più di otto anni, e mentre il tempo trascorreva, di tanto in tanto, qualcuno, di passaggio, iniziò a salutarlo come se fosse un santo, un illuminato. Per altri era semplicemente un pazzo, perché è normale non trovare tra tutti lo stesso giudizio riguardo alle proprie azioni ed il proprio modo di stare al mondo.

Prima che il nono anno iniziasse lui si stancò, abbandonò quel luogo e si diresse stavolta verso sud, verso la Terra dei Puri, che alcuni pellegrini gli avevano descritto come bella e rigogliosa. Tutti costoro venivano da quella regione, che era bella ai loro occhi, e tale sperò fosse anche per i suoi. Vi giunse, dopo molti mesi, ma rimase un po’ deluso, perché la sua immaginazione aveva fatto sperare in luoghi molto più ricchi e luminosi.
Vi rimase però per un fatto che lo fece fermare. Arrivato sulle rive di un fiume un gruppo di donne, molte delle quali giovani, che stavano lavando vari indumenti, quando lo videro rimasero molto impressionate dalla sua lunga barba e dal suo aspetto nobile, ma ancor di più dal lordume che copriva lui ed i suoi cenci. Con molto rispetto per la sua età non più giovanile lo chiamarono a gesti, lo fecero avvicinare, lo sfamarono e poi, come se non aspettassero altro, lo fecero scendere con i piedi nell’acqua quasi gelida, lo spogliarono completamente e lo lavarono. Infine lo asciugarono e lo rivestirono con tessuti migliori e più nuovi di quelli che aveva tenuto addosso per otto anni, e la più anziana di loro, vedova da diverso tempo, dopo averlo osservato per bene quando lo stavano lavando, decise di portarselo a casa con sé. Faisala divenne la sua quinta moglie, da lui non ebbe figli, e riuscì a godere della sua presenza per meno di un anno. Lui infatti solo per gentilezza rimase molto più di quanto avrebbe voluto, ma alla fine seguì ancora il suo destino, lasciando per sempre anche quei luoghi. Stavolta con qualche rimpianto, perché il tempo passava e questo lo capiva molto bene.

Arrivò infine nelle regioni dell’India, ben oltre la metà della sua vita, e continuò a cercare quello che non aveva trovato in Francia, in Russia e nei paesi dell’Asia che aveva attraversato in tanti anni. Capì, un giorno, che non avrebbe mai potuto trovare quello che neppure sapeva che forma avesse, che odore, che lingua parlasse, che colore avesse. Si fermò quindi in un piccolo villaggio, dove decise che poteva andar bene per trascorrervi i suoi ultimi anni su questa terra.
Iniziò a dipingere con i pigmenti naturali del luogo ogni cosa trovata abbandonata: un pezzo di legno, un sasso, una tela. Cominciò a barattare queste sue opere, e ci ricavò da vivere, giusto quanto bastava. Trovò pure una moglie, di poco più giovane di lui, Sati, che gli rimase accanto sino alla fine. Lei gli raccontava, quando le riuscì di fargli imparare la sua lingua, che sarebbe rinato, che si sarebbe reincarnato. Lui sorrideva, annuiva ma non le credeva. 

Alla fine, circa un secolo e mezzo dopo, avrebbe avuto la prova che entrambi avevano ragione.

La sua settima vita inizia quando, in una piccola fonderia, dal metallo liquido si solidifica, nel suo stampo, un soldatino. È un generale napoleonico, e viene dipinto in seguito dalle mani abili di un artigiano viennese. Ed è lui, promosso a generale da colonnello che era stato. E la sua settima moglie, che non può mai toccare se non per caso quando viene mosso dalla piccola vetrinetta dove lo pongono le mani del suo nuovo proprietario, è una dolce ed esile ballerina fermata in un suo passo di danza, messa accanto a lui secondo una logica che gli sfugge.


                                                                                   Silvano C.©

( La riproduzione è riservata ma non c'è nessun problema se si cita la fonte, grazie)

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