mercoledì 30 settembre 2015

Venticello lieve è il plagio...

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Venticello lieve è il plagio
Spira gentile, e tu ti fai lambire
Ti sembra fresco e nuovo
Eppur guarda cosa trovo.

Una studentessa cabadese, nel 2013, partendo dalla foto di una compagna, ebbe l’idea di misurare in base alla lunghezza dell’abito (esattamente come se si trattasse di valutare la quantità di liquido contenuto in un cilindro graduato da laboratorio) il grado di serietà della donna.
La sua foto fu geniale, originale, e divenne virale, in rete. Qui trovi la pagina.


Un paio di anni dopo ecco che un gruppo svizzero diritti umani: Terre Des Femmes, si ispirò in modo evidente a quell’immagine che si tradusse in una campagna che si diffuse molto rapidamente.  
L’ovvio messaggio sottinteso è che il valore di una donna non deve essere misurato dalla lunghezza della gonna (o di come si veste, in genere). 
Si dice che gli annunci sono stati progettati da Theresa Wlokka e da un gruppo di studenti in Germania.


Qualcuno poi vede queste immagini nuove ed i relativi annunci, e li cita, dimenticando sempre la studentessa che aveva avuto l’idea originale.
Se fai una ricerca immagini o di testi seria in rete ne trovi probabilmente molti altri, in molte lingue diverse.

                                                                                                        Silvano C.©   


(La riproduzione è riservata ma non c'è nessun problema se si cita la fonte, grazie)

martedì 29 settembre 2015

questione di metodo





Dalla nostra abbiamo una grande debolezza che può diventare una grande forza. L’abitudine che ci fa seguire un metodo.
Noi mettiamo in campo varie forme di apprendimento, importantissime nelle prime fasi della vita e che restano importanti sino alla fine, seppure in maniera tristemente decrescente.
Fondamentale (E chiedo scusa della parentesi) è però non confondere la forma di apprendimento con l’apprendimento stesso. Quest’ultimo rimane essenziale, sino agli ultimi istanti, sino a quando cioè abbiamo un futuro, più o meno lungo che sia.

Ritorno alla nostra debolezza, l’abitudine. Ne abbiamo bisogno, è tranquillizzante, gratificante, insostituibile quando diventa automatismo (Se mentre guido una persona mi attraversa la strada io devo frenare senza prima dover decidere quale piede usare), ma pure una trappola pericolosa.
Quando per qualche motivo ho in testa un’idea sbagliata, costituita magari solo da una parola (le parole pesano, non sono innocenti), e la uso in modo acritico, posso fare grossi danni. Ad esempio posso danneggiare intere categorie di persone, posso fare scelte politiche sbagliate, posso proseguire nell’errore e costruire un castello di emerite idiozie (che mi sembrano tuttavia perfettamente logiche ed assolutamente naturali). Divento cioè ottuso ed acritico, ammesso che sia in buona fede.
Un esempio? Eccone tre: puttana, finocchio e ciccione. Se non capisci perché le cito lascia perdere, non intendo perdere tempo a spiegartelo.

L’abitudine diventa un’arma pericolosa se usata male, ma resta sempre un’arma, e le armi esistono da sempre, sin dai tempi del primo sasso usato per rompere una noce, e solo dopo, credo, per rompere una testa (di uomo o animale non so).  Ecco quindi dove entra in gioco l’abitudine, a proposito del metodo.
È esattamente quello che succede quando un bambino viene educato, senza insistere mai troppo, a mangiare più verdura e frutta al posto di altri alimenti. Se non ama il cavolo nulla di male, le carote vanno benissimo, poi il cavolo lo scoprirà, oppure resterà per sempre un suo rifiuto. Importante che si abitui e che gli piaccia pure quello che mangia. Difficilmente da adulto perderà questa abitudine, a meno che non si trasferisca tra gli Inuit.

Quindi l’abitudine ha una forza importante, ci guida, ci aiuta a ripetere gesti vantaggiosi.
Quando ci rendiamo conto invece che un’abitudine è sbagliata, dettata solo da bisogno di quieto vivere, spinte egoistiche, semplice procedere su una via, o, ancora, sono altri che ce lo fanno capire, magari con una lezione che ci ferisce, scatta il bisogno di scordarla quell’abitudine, e di trovarne un’altra.

Se sono abituato a mangiare troppi dolci e mi ammalo devo perdere quella pessima abitudine. Se offendo chi non conosco solo perché, appunto, non lo conosco, devo cambiare. Se ho l’abitudine di non pagare le tasse, è sperabile che mi si faccia capire che sbaglio.
Qualcuno sostiene che in 21 giorni, massimo 30, siamo in grado di perdere molte delle nostre abitudini e riprogrammarci verso un nuovo comportamento. Nulla vieta, in seguito, di ripensare a quanto è avvenuto, a quanto abbiamo deciso, ma è importante non dare per scontato che una cosa che abbiamo sempre fatto in un modo sia fattibile sempre e solo in quel modo.

Credo sia tutto un fatto di metodo, alla fine, e per metodo suggerisco la definizione che riguarda il metodo scientifico, intesa come ammissione della nostra inadeguatezza nel raggiungimento di una verità assoluta.
Se noi rinunciamo a qualche abitudine sbagliata perdiamo sicurezze inconsistenti per esporci costantemente al dubbio.
È questa l’unica certezza che offre il metodo, e scusa se è poco.


e sopra i mari di quell'universo
mentre pensava a se stesso pensante
in mezzo a quel buio si sentì un po' perso.
(cit)

                                                                                                                  Silvano C.©   

(La riproduzione è riservata ma non c'è nessun problema se si cita la fonte, grazie)

Pezze al culo





Avevano le pezze al culo, ma hanno ricostruito l’Italia dalle macerie, ci hanno ridato l’onore perduto ed un ruolo importante tra le Nazioni. Hanno fatto anche grandi errori, è chiaro, ma la mia generazione, grazie a loro, ha vissuto anni di crescita, di speranze e di ottimismo.
Poi qualcosa si è rotto, siamo arrivato noi, e i nostri figli. Che cosa non abbiamo capito? Cosa abbiamo sbagliato? Cosa non abbiamo voluto imparare dalla loro esperienza?

                                                                                                        Silvano C.©   


(La riproduzione è riservata ma non c'è nessun problema se si cita la fonte, grazie)

lunedì 28 settembre 2015

Prima gli italiani




Lo ammetto subito, a scanso di equivoci. Il titolo è in parte fuorviante, ma solo in parte. Di quanto lo capirai, se mi leggerai.
Parlerò principalmente di badanti, solitamente donne, che aiutano in casa i nostri nonni o genitori anziani, facendoli restare nel loro ambiente naturale, conosciuto, familiare, senza obbligare a scelte drammatiche, cioè a scegliere case di riposo, più o meno impersonali, dove non è possibile essere seguiti individualmente.
Quanto costa ad una famiglia che voglia mettere in regola questa particolare figura di collaboratore domestico? Non meno di ventimila euro l’anno solo per paga corrisposta direttamente, contributi versati all’INPS e gestione del rapporto di lavoro e buste paga affidati ad un patronato. È escluso dal conteggio quanto spetterà alla badante quando il contratto verrà chiuso, il cosiddetto TFR, circa una mensilità per ogni anno di servizio, ed è escluso anche il vitto ed alloggio, difficile da quantificare, e che comprende molte spese diverse (Poniamo, per stare bassi, circa cento euro al mese.). A tutto questo poi si devono aggiungere qualche extra imprevisto per servizi particolari e l’abbonamento ai mezzi pubblici, che sono altre voci di spesa.
Eppure quasi nessuna italiana, a quanto mi risulta, è disposta a svolgere questo lavoro, alle stesse condizioni, e le motivazioni sono molte. Solitamente gli italiani vogliono orari di lavoro meno vincolanti e non sono disponibili a rimanere in servizio quasi ininterrottamente (salvo poche ore al giorno di libertà). Poi, chi vuole un lavoro regolare, chiede anche una retribuzione maggiore per un servizio che comprende molte mansioni: accompagnatrice, domestica, cuoca, infermiera, dama di compagnia e sorvegliante.
Il sistema regge ancora grazie ad alcune ambiguità ed ipocrisie di fondo, che non è detto possano restare. Alcune realtà locali cominciano a richiedere una certificazione specifica per queste collaboratrici, aumentandone il valore e quindi la retribuzione. Alcune badanti giocano tra diritti e doveri, chiedendo le garanzie del nostro stato sociale ma tentano di non dichiarare i loro redditi al nostro fisco. Pure questo non potrà durare a lungo. Molte famiglie, infine, non sono in grado di reggere una tale e crescente richiesta di impegno economico, e non è possibile equiparare una famiglia ad un imprenditore privato. Ecco quindi spiegato perché il nero, il non dichiarato, in questo campo, malgrado mille rischi, è ancora tanto praticato.
Resta innegabile tuttavia che si tratta di sfruttamento di persone che accettano certe condizioni di lavoro solo perché, nel loro Paese, quanto guadagnano in Italia non lo percepiscono neppure professionisti laureati.

Ed è lo stesso sfruttamento, molto più disumano, che avviene con i lavoratori stagionali, pagati una miseria, quasi mai regolarizzati, ma che ci permettono di avere pomodori, mele, vino ed altri prodotti a prezzi più convenienti.
Cioè noi paghiamo un po’ meno una bottiglia di moscato esclusivamente perché qualcuno non riceve quanto gli sarebbe dovuto. Questo non tanto in base alle norme sul lavoro, quanto piuttosto per una semplice considerazione di giustizia sul piano umano, cioè di diritti della persona.

Ogni società ricca ha i suoi schiavi, ed il benessere, in ultima analisi, è esclusivamente il malessere di qualcun altro. Se gli schiavi, o meglio, gli sfruttati, non sono in casa nostra o nei campi che vediamo o nei nostri cantieri significa solo che li abbiamo delocalizzati, che vivono altrove, fuori dai nostri confini nazionali. Del resto uno smartphone, un televisore a schermo piatto, un paio di scarpe di marca quanto dovremmo pagarli se chi li produce guadagnasse quanto sarebbe giusto?

Tantissimi anni fa un insegnante di allora mi disse che in tutto il mondo non c’era sufficiente rame per produrre cavi adatti a trasportare la corrente elettrica per ogni abitante della Terra. Era un esempio, e da quel concetto non ci siamo mai mossi, mi pare. Quindi va bene, prima gli italiani, a condizione però che anche gli altri arrivino a pari merito, o distaccati di poco.

                                                                                                        Silvano C.©   


(La riproduzione è riservata ma non c'è nessun problema se si cita la fonte, grazie)

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