Se è solo naturale non ha senso darsi da fare per trovare
una nuova cura a quella particolare malattia, rara o diffusa che sia. È
naturale ammalarsi e andarsene, quando arriva il momento, senza chiedersi
neppure il perché.
Se voglio difendere la natura devo smettere di rovinare il
suo lavoro e asfaltare le strade dove lei produce crepe con le radici delle sue
piante, o con i germogli che spuntano anche attraverso il cemento.
Non devo soltanto smettere di mangiare carne e quindi
allevare animali per poi mangiarli, anche se in natura è naturale che i
predatori mangino le loro prede, ma devo anche evitare di coltivare vegetali.
Gli stessi vegetali infatti, quando noi li facciamo crescere per ottenere
frutti o altre parti che poi mangiamo, producono gas serra, secondo recenti
studi, e quindi se veramente desideriamo vivere senza modificare l’ambiente
dovremmo semplicemente suicidarci, non ci sono alternative. Oppure, soluzione
meno cruenta ma ugualmente ostica, nutrirci solo di bacche e radici trovate
girando tra i boschi e le radure.
Naturalmente dovremmo seguire i nostri istinti: violentare
quella donna che ci passa a tiro, se così ci viene l’idea, oppure rubare
quell’auto o quei soldi dei quali abbiamo bisogno, o ancora imporre con la
violenza e non con la politica la nostra idea di ordine, ammesso e non concesso
che siamo animali sociali, come le api, e non individualisti, come le vespe.
Non parliamo poi di fedi religiose. Non esiste nulla in
natura che dimostri l’opportunità di seguire una certa fede, che è una
struttura solo umana, evolutasi nel tempo, organizzata e gerarchizzata, vissuta
come se ci arrivasse da entità superiori che, tuttavia, non sono le stesse per
tutti gli uomini. Cioè abbiamo divinità diverse, santi ed esempi da seguire che
non coincidono tra i popoli. E litighiamo pure, o ci massacriamo, in nome di
queste convinzioni.
Prima però viene sempre l’animale che è in noi, dal quale
abbiamo preso tante cose e dal quale ci siamo emancipati. Dopo viene l’uomo, in
senso completo, con le sue grandissime potenzialità, con la sua genialità nel
bene e nel male (sempre ammesso esistano il bene ed il male, ovviamente).
Successivamente vengono le sovrastrutture che ci danno un
senso, una via da seguire, una società, e pure su queste idee non troviamo
praticamente alcun accordo condiviso. Queste sovrastrutture sono vissute
infatti in modi diversi da ognuno di noi. Per alcuni il modello è rigido,
indiscutibile, e sfocia facilmente nell’integralismo miope di chi vede solo
l’errore in chi non si adegua ad una visione religiosa o atea. Per altri le sovrastrutture sono meno vincolanti,
o del tutto assenti in certi campi, e lasciano gli individui maggiormente
responsabili delle loro scelte di coscienza (ammesso, come sopra, che abbiamo
una coscienza).
Pare che secondo Charlie Chaplin fosse più importante, a tal proposito, la coscienza della reputazione. La coscienza siamo noi, mentre la reputazione è ciò che gli altri pensano di noi. E quello che gli altri pensano è un problema loro, secondo lui. Questo ragionamento tuttavia è vero sino ad un certo punto, vivendo in una società, e quello che pensano di me amici, parenti, e in genere coloro che vengono in contatto con me, influenza eccome la mia vita, visto che non sono un eremita. Neppure Chaplin del resto era un eremita, ed ha bevuto sino in fondo quanto gli offriva la vita, avendo in tutto undici figli da quattro diverse mogli. Negli ultimi anni cioè fece il padre quando avrebbe dovuto fare il nonno.
Ed allora dove sta il significato di naturale, che valore
dare alle scelte umane, ai problemi etici che ci vengono proposti già risolti
da posizioni di parte?
L’unica realtà naturale è il mutamento, mi verrebbe da dire,
il continuo adattamento alle condizioni esterne, senza il quale siamo destinati
ad estinguerci. Il resto, forse, è solo sopravvivenza.
Dal punto di vista sociale tuttavia non voglio essere
pessimista sino in fondo, perché la sopravvivenza e l’adattamento non escludono
assolutamente che dobbiamo rinunciare a conquiste dei nostri padri e dei nostri
nonni in nome della supremazia tra di noi in un’inutile lotta tra poveri.
Il DNA che le api operaie difendono, proteggendo l’alveare,
è quello dell’ape regina, ma è anche il loro, senza entrare nei particolari. Questo
significa che l’individuo può benissimo trovare il proprio ruolo tra gli altri,
essere utile e riceverne un compenso, e non escludo che l’istinto di
sopravvivenza possa generare, in futuro, un’era meno apocalittica di quella
descritta dai catastrofisti e dai seminatori di odio. Tutto questo, ovviamente,
in un’ottica del tutto naturale.
Silvano C.©
( La riproduzione è riservata ma non c'è nessun problema se si cita la fonte, grazie)
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