lunedì 30 gennaio 2017

finzione


Tutto quello che vuoi è amore, dal primo attimo nel quale sei separato fisicamente dalla madre ed inizi a cercarne la presenza, che vuoi avvolgente come prima, all’ultimo istante nel quale, immagino, vuoi portare con te tutto il mondo che ami e che ti ama, o, meglio ancora, non andare via.

Il resto, il contenuto tra queste due parentesi graffe fondamentali nella nostra presenza materiale tra i viventi, è dettato dal caso, dalla genetica, dalle esperienze, da un disegno ordinatore (per chi ci crede) e dai mille immancabili accidenti. Ci sono eccezioni, certo, e ti faccio dono di tutti i dubbi in merito ad ogni parola scritta che ti possono venire. Tra chi scrive e chi legge (io un po’ scrivo e un po’ leggo, quindi credo di poterlo dire) si finge. Si finge di credere a quello che si scrive e si legge. Si finge anche di non credere ad ogni verità confessata in modo da darla in pasto a tutti, pur se ammantata di impersonalità. Si immaginano mondi che non esistono perché quello reale non ci basta e non è la nostra misura. Si legge e si scrive per combattere la solitudine e per realizzare almeno nell’invisibile quello che non è visibile.

I più bravi, scambiati per malati di mente, si immedesimano molto bene in questi loro mondi paralleli che a noi sembrano estranei, o ci illudiamo che lo siano.
La realtà è che fossimo totalmente soddisfatti della nostra vita non sentiremmo alcuna spinta a raccontarla. La perfezione non ha bisogno di poeti o cantori. Un amore pienamente vissuto, corrisposto e presente non ruba tempo per descriversi.
Forse è per questo che l’infelicità è artefice di tante opere, si perde in ricerche su ogni fronte, è disponibile ad esperienze incredibili o pericolose. Forse è per questo che tutti, mentendo anche a sé stessi, nascondono l’infelicità e ne creano un modello sociale più gradevole, interessandosi a mille progetti, cercando di apparire interessanti, riuscendo a raccontarla bene a chi li ascolta.  

Fuor da finzione, è il caso di dirlo, il mondo che vivo non mi piace. Mi manca da morire lei che mi ha lasciato meno di due mesi fa, che non credo di aver amato abbastanza (anche se questo sembra sia un sentimento diffuso in casi come questo, trattato da tutta la letteratura che si interessa al tema). Non mi è ancora andata giù la faccenda, non l’accetto, mi viene una rabbia incredibile se appena ci penso.
Non voglio scordare nulla e vorrei parlare solo di lei. A me sembra del tutto naturale, logico, conseguente al mio modo di agire e pensare e, cosa essenziale, effetto delle scelte maturate in tanti anni. Ho deciso, malgrado tutto, di stare con lei e di condividere i progetti sul futuro escludendo da questi gli altri. Chi entrava sapeva di essere ospite, non padrone di casa.

Ora questo mondo è crollato, ed io devo vivere. Ho il dovere di vivere e dare peso e valore alla mia vita. Credo anche di dover essere felice, come suggerisce un’amica, perché è una colpa grave non essere grati alla vita di averla. Ho pure il compito di ricordarla e lo rivendico al di là delle opinioni di chiunque, perché è questo che le devo, in modo geloso e ignorando ogni influenza di segno contrario. Ed è esattamente ciò che tento di fare, da quel maledetto 17 dicembre, quando tutto si è concluso, ma nulla è finito.

Ed ora voglio vedere se tu avrai il coraggio di dire che il tuo mondo ti piace esattamente com’è, e non preferiresti inventarne un altro, ovviamente sapendo entrambi che stiamo solo fingendo di pensarlo.


                                                                      Silvano C.©  
 (La riproduzione è riservata ma non c'è nessun problema se si cita la fonte, grazie)

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