Tutto
quello che vuoi è amore, dal primo attimo nel quale sei separato fisicamente dalla
madre ed inizi a cercarne la presenza, che vuoi avvolgente come prima, all’ultimo
istante nel quale, immagino, vuoi portare con te tutto il mondo che ami e che
ti ama, o, meglio ancora, non andare via.
Il
resto, il contenuto tra queste due parentesi graffe fondamentali nella nostra
presenza materiale tra i viventi, è dettato dal caso, dalla genetica, dalle
esperienze, da un disegno ordinatore (per chi ci crede) e dai mille immancabili
accidenti. Ci sono eccezioni, certo, e ti faccio dono di tutti i dubbi in
merito ad ogni parola scritta che ti possono venire. Tra chi scrive e chi legge
(io un po’ scrivo e un po’ leggo, quindi credo di poterlo dire) si finge. Si finge
di credere a quello che si scrive e si legge. Si finge anche di non credere ad
ogni verità confessata in modo da darla in pasto a tutti, pur se ammantata di
impersonalità. Si immaginano mondi che non esistono perché quello reale non ci
basta e non è la nostra misura. Si legge e si scrive per combattere la
solitudine e per realizzare almeno nell’invisibile quello che non è visibile.
I
più bravi, scambiati per malati di mente, si immedesimano molto bene in questi
loro mondi paralleli che a noi sembrano estranei, o ci illudiamo che lo siano.
La
realtà è che fossimo totalmente soddisfatti della nostra vita non sentiremmo
alcuna spinta a raccontarla. La perfezione non ha bisogno di
poeti o cantori. Un amore pienamente vissuto, corrisposto e presente non ruba
tempo per descriversi.
Forse
è per questo che l’infelicità è artefice di tante opere, si perde in ricerche
su ogni fronte, è disponibile ad esperienze incredibili o pericolose. Forse è
per questo che tutti, mentendo anche a sé stessi, nascondono l’infelicità e ne
creano un modello sociale più gradevole, interessandosi a mille progetti, cercando
di apparire interessanti, riuscendo a raccontarla bene a chi li ascolta.
Fuor
da finzione, è il caso di dirlo, il mondo che vivo non mi piace. Mi manca da
morire lei che mi ha lasciato meno di due mesi fa, che non credo di aver amato
abbastanza (anche se questo sembra sia un sentimento diffuso in casi come
questo, trattato da tutta la letteratura che si interessa al tema). Non mi è
ancora andata giù la faccenda, non l’accetto, mi viene una rabbia incredibile
se appena ci penso.
Non
voglio scordare nulla e vorrei parlare solo di lei. A me sembra del tutto
naturale, logico, conseguente al mio modo di agire e pensare e, cosa
essenziale, effetto delle scelte maturate in tanti anni. Ho deciso, malgrado
tutto, di stare con lei e di condividere i progetti sul futuro escludendo da
questi gli altri. Chi entrava sapeva di essere ospite, non padrone di casa.
Ora
questo mondo è crollato, ed io devo vivere. Ho il dovere di vivere e dare peso
e valore alla mia vita. Credo anche di dover essere felice, come suggerisce un’amica,
perché è una colpa grave non essere grati alla vita di averla. Ho pure il compito
di ricordarla e lo rivendico al di là delle opinioni di chiunque, perché è
questo che le devo, in modo geloso e ignorando ogni influenza di segno
contrario. Ed è esattamente ciò che tento di fare, da quel maledetto 17 dicembre,
quando tutto si è concluso, ma nulla è finito.
Ed
ora voglio vedere se tu avrai il coraggio di dire che il tuo mondo ti piace
esattamente com’è, e non preferiresti inventarne un altro, ovviamente sapendo
entrambi che stiamo solo fingendo di pensarlo.
Silvano
C.©
(La
riproduzione è riservata ma non c'è nessun problema se si cita la fonte,
grazie)
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