Le
ombre non esistono, sono parziale assenza di luce, esiste la superficie
illuminata e quella non illuminata direttamente dai raggi ma che riceve la parte
di visibilità che le spetta dalla diffusione attraverso l’aria. Serve il vuoto
assoluto per avere l’assenza completa di luce e un’ombra totale, senza
incertezze.
Tra
di noi le ombre restano, arrivano quando arriva la luce, si affievoliscono sino
a confondersi col buio quando scende la notte, ma restano.
Ci
precedono e ci seguono. Ognuno di noi ha la sua o le sue ombre, mutevoli ma
fedeli, immancabili.
E
sono legate a noi, indissolubilmente.
Sono parte di noi, senza di noi non
potrebbero esistere, e per noi sono naturali, scontate, amiche spesso all’apparenza
indifferenti.
Noi
siamo già in parte ombra, ci prepariamo al momento nel quale pure noi lo
diventeremo, e ci attaccheremo alla vita di chi cammina ancora per seguirlo,
accompagnarlo, sorvegliarlo, anticiparlo, dare consigli muti e spesso
inascoltati, ma ci saremo, esattamente come le molte ombre che ci stanno
attorno.
La
fisica diventa metafisica perché non basta dare una spiegazione logica per
capire. Ci si accontenta spesso dell’apparenza, è necessaria per non perdersi
nella pazzia, ma da sola questa farebbe più danni della pazzia stessa quindi
deve venir mitigata e corretta.
Ed
allora, da oggi, ho deciso che ogni tanto guarderò meglio le ombre che non mi
lasciano mai, e ti cercherò tra loro.
Spaccherei
virtualmente qualche testa, prenderei a male parole qualunque malcapitato,
maledirei chi penso io e magari bestemmierei, se sortisse un effetto utile a
risolvermi qualche situazione.
Urlerei
forse o farei danni e troverei sfogo prendendomela contro le cose che tanto non
hanno colpe, sono solo cose.
Darei
indicazione sbagliate ad un turista antipatico che vorrebbe arrivare in centro
facendolo smarrire nel traffico tra sensi unici ottusi e lavori in corso
permanenti.
Farei
dispetti a chi abita di sotto e continua a non rispondere al mio saluto poi
negherei con la miglior faccia tosta di essere stato io a gettare quel
sacchetto sporco di grasso che ha macchiato il suo bucato steso ad asciugare.
Darei
appuntamento con invito a cena ad un amico ritardatario cronico e poi, dopo
aver spento il cellulare, cercherei di uscire con una ragazza conosciuta da
poco. Se lei non accettasse rimarrei tranquillo in casa a leggermi un libro.
Passerei
spesso proprio davanti a quella casa e suonerei il campanello ogni volta
allontanandomi subito dopo. Quella persona saprebbe il perché, e se non lo
capisse non sarebbe un problema.
Prenderei
a male parole chi mi capitasse di veder gettare a terra un mozzicone di
sigaretta, ma farei attenzione ad evitare di prendermela con qualcuno più
grosso di me. A quest’ultimo potrei semplicemente, non visto, rigare l’auto.
Entrerei
in un condominio elegante dove abita gente spocchiosa e getterei una fialetta di
acido solfidrico nell’ascensore, ma solo se questo, una volta arrivato al piano,
richiudesse subito dopo le porte.
Sgonfierei
le gomme delle biciclette più costose.
Butterei
palloncini con vernice sulle auto che passano veloci sulle pozzanghere
spruzzando i pedoni sul marciapiede.
Riderei
di gusto vedendo chi dico io inciampare mentre è intento a guardare il suo
smart.
Vorrei
essere allegro malgrado tutto e vendicarmi per ogni minimo torto subito, anche
se poi quel torto me lo sono solo immaginato.
Sarei
pericoloso se volessi essere allegro a spese altrui.
Ho
notato ieri passando a trovarti una piccola area di un prato rivolta a nord
accanto ad un muretto dove non arriva quasi mai il sole, neppure a mezzogiorno
in estate.
Ho
visto il muschio discreto che la colonizza senza invadenza, lasciando spazio a
molte altre specie vegetali.
Ho
pensato a quando, tantissimi anni fa, più avanti nella stagione e solamente alla
vigilia delle festività, andavo nelle campagna attorno a casa a cercare il
muschio fresco per il presepe. Ne raccoglievo abbastanza per creare prati dove
immaginavo di camminare e dove poi, effettivamente, il gatto di casa
passeggiava e prendeva possesso del nuovo spazio. I ciocchi di legno
diventavano improbabili monti a Betlemme e solo un paio di palme di plastica tentavano
con poco successo di aggiustare la geografia fisica. Il presepe era
incongruente ma vivo, irripetibile e fantastico.
Quello
è stato il momento nel quale ho maggiormente sentito lo spirito del Natale. È durato
una manciata di anni, pochissimi, poi persi l’innocenza dell’attesa e dello
stupore.
Cominciai
a capire troppe cose, rimasi deluso, e quando mi resi conto che io potevo
influire direttamente sui tempi e sulla tradizione di famiglia iniziai a
smarrire il mio interesse, che divenne solo ripetitivo.
Tu
sentivi maggiormente il senso della tradizione, la facevi tua e me l’hai
trasmessa. In seguito ho ripreso il presepe, per nostro figlio, ed ho ritrovato
il mio piacere nei suoi occhi. Poi, in parte, il nostro vivere divisi dalle
famiglie di origine ci ha portato assurdamente a dividerci esattamente nel
periodo di Natale. Non maledirò mai a sufficienza il destino per questo ed
altro che ci ha colpiti sino a farci trascorre, già dallo scorso anno, il
nostro Natale divisi come mai prima.
Non
cedo più alle sue lusinghe, le avverto e mi feriscono, a volte mi lascio prendere
per alcuni minuti. Lo spirito di allora è morto, sopravvivo però.
Non
dispero in assoluto, sono possibilista, la tua assenza forzata mi indebolisce e
mi rafforza, mi offre visioni nuove e ridimensiona antiche paure.
La
sola paura recente che si è materializzata mi basta ed avanza per le prossime
feste ormai alle porte. E io devo ancora capire sino in fondo, ancora non mi ha
convinto. Tu sei qui.
Ma
che vacanza è quella che ti porta a visitare immensi cimiteri in Normandia o ad
entrare nel campo di concentramento di Dachau? Eppure lo facemmo, questo, ed
esattamente mentre stavamo girando per l’Europa, in vacanza.
E
poi vedemmo l’antico confine di Monte Croce Carnico dove italiani ed
austroungarici morirono da una parte e dall’altra per un’idea di Patria ora
messa in discussione. Quanta morte senza una giustificazione condivisa ed accettabile.
Quanti morti che qualcuno vorrebbe o dimenticare o utilizzare per una
propaganda di parte, sbagliata per definizione.
I
fascisti eressero immensi ossari raccogliendovi i caduti della Grande Guerra mistificando
in parte a loro vantaggio le motivazioni di quella tragedia, eppure, entrando
in quei monumenti, non è possibile scordare che quelle migliaia di giovani
morirono veramente, non fu uno scherzo, loro la vita furono costretti a
lasciarla prima del tempo. Molti furono volontari, ma molti di più non
avrebbero voluto, la maggioranza di loro non avrebbe mai scelto di andare in
guerra.
E
poi i luoghi che non abbiamo visto o che abbiamo visitato prima della tragedia,
come la ex Jugoslavia. E quelli dei genocidi, degli attentati e delle stragi che
continuano pure ora, senza una fine, senza la speranza che possano finire.
Ed
i migranti che muoiono adesso tentando di fuggire dall’orrore o dalla fame.
I
morti non sono tutti uguali tra loro, qualcuno meritava meno di altri di
morire.
E non scordo le persone che ho amato, o chi dovrebbe essere ricordato perché ha reso la sua vita importante per
gli altri. Quindi è giusto, ora, che io dedichi parte del mio tempo alla
memoria ed alla storia, anche se con i miei immensi limiti.
Quello
che io sono oggi lo devo a te, Viz, e non solo a te. Quello che abbiamo ricevuto
di positivo noi italiani ed europei lo dobbiamo a molti che sono in parte raccolti
in quegli immensi cimiteri ed ossari.
Ed
allora serve ricordare qualche persona, magari poche ma è necessario. Serve
dedicare un po’ di tempo alla memoria.
Io
ho tentato di mantenere il ricordo di alcuni, oppure ho contribuito a farlo. Persone
di cultura o uomini a loro modo giusti, positivi malgrado gli errori umani. Alcuni
nomi? Eccoli: Khaled al-Asaad, Andrea Bolzoni, Emily Davison, Dietrich Flade, Aristide
Foà, Adriano Franceschini, Renzo Ravenna, Girolamo Savonuzzi e Fortunato Zeni.
È
utile anche per me capire e scoprire fatti del nostro passato, pur sapendo che
il lavoro da fare sarebbe immenso e che io mi devo limitare a semplici cenni.
E
poi, ritornando sul fatto che secondo me non tutti i morti sono uguali tra loro,
mi verrebbe da sperare che esista veramente una vita futura, un tempo nel quale
ognuno riceverà finalmente giustizia, il castigo o il premio. Due sole
osservazioni in merito. La prima è che sono felice di sapere che non sarò il
giudice. La seconda è che, a prescindere da quello che avverrà o non avverrà,
io vorrei giustizia ora, nella vita attuale, e ti vorrei ancora qui, Viz.
I
primi approcci tra mille dubbi, attese, e il senso nuovo del mai sperimentato.
E il timore di essere troppo veloci o troppo prudenti, come a voler
sottintendere un interesse eccessivo, quindi sospetto, o limitato, segno di
scarsa disponibilità e attenzione.
L’inizio
di una relazione parte sempre da posizioni incerte, da sabbie mobili che
confluiscono e si mescolano tra loro, ammesso che si comportino come un fiume
ed il suo affluente.
Io
ricordo i nostri primi tempi, quando era evidente un interesse reciproco ma non
facilmente interpretabile, e in particolare una gita a Venezia che feci con gli
amici di allora, amici pure tuoi ma troppo recenti per essere inclusa tra gli
invitati a quella breve trasferta, e pure tu conoscenza troppo recente per me
per includerti a mia volta, di mia iniziativa.
E
fu così che rimanesti sola per quel breve fine settimana, mentre io ti pensai col
dubbio che ti avrebbe fatto probabilmente piacere quel viaggio e che sarebbe
stato il caso di invitarti.
Dopo
tutto fu chiaro, ma dopo. Dopo recuperammo ampiamente e gli amici vennero un po’
messi da parte quando si trattò di dare priorità ai nostri impegni, e la
selezione fu naturalmente conseguente. Dopo facemmo scelte prima di altri, anticipammo
e andammo per la nostra strada.
Di
quella gita a Venezia ricordo poche cose, nessuna con grande nostalgia. Mi è
rimasto impresso un nostro caffè consumato in piazza San Marco al Gran Caffè
Quadri e della richiesta di un’amica al cameriere di avere un secondo caffè. Il
cameriere le ricordò che la consumazione costava molto e lei si arrabbiò offesa
da quell’osservazione. Non ricordo le parole esatte che si scambiarono, ma il
momento sì. Era un mondo che non mi apparteneva e che mi rifiutava, per certi
aspetti. Un mondo che non ho mai cercato in tutta la mia vita e che solo
raramente mi ha sfiorato. Ho sempre avuto altre aspirazioni ed ho sempre saputo
stare al mio posto, senza minimamente ambire a posizioni d’immagine. Altri invece,
in quel gruppo veneziano, sognavano la scalata sociale, ed infatti uno di loro
in particolare recentemente l’ho perduto definitivamente. Grandi aspirazioni
piccola persona, questo era ed è rimasto.
Sarebbero
stati diversi quei giorni per me, lo so, ed ora li rivorrei indietro per
riviverli in altro modo. Quelli e molti altri.
Siggy
non capisce, Bosco dovrebbe essere a casa, solitamente in quel momento lui non
ha altri impegni, e non l’ha avvisata di contrattempi. Quindi come mai non c’è?
-Bosco?
Ripete
ancora una volta, e ancora nessuna risposta.
Si
toglie il giaccone nero, appoggia la borsa, si siede e toglie le scarpe da
esterno, poi si guarda attorno, preoccupata. Bosco non c’è. L’appartamento è
silenzioso. Non arriva alcun rumore neppure dal piano di sotto né dalla strada
o dalla ferrovia. Ma che succede?
-Bosco
non puoi raggiungerlo, Siggy, non sei più tra i vivi. Lo hai scordato? Non te
ne sei resa conto?
Siggy
si gira di scatto, ma non vede nessuno. Chi ha parlato?
Sono
trascorsi anni, forse solo mesi, magari invece pochi secondi o molti secoli. Il
tempo è strano. Siggy è vedova. Ha perduto Bosco. Non le va di essere
considerata morta, ed infatti secondo lei è una convenzione, anche se risulta confinata
in un contesto decisamente immodificabile.
Si
trova in una condizione parallela, si considera normale e si vede come era
precedentemente, almeno in parte, e non accetta le spiegazioni che una voce
testardamente senza corpo visibile insiste a fornirle.
È
Bosco ad essere sparito mentre lei continua una sua vita apparentemente simile,
ma non è certa di rivedere esattamente le stesse persone, il dubbio in
proposito le cresce lentamente.
Dice
di essere vedova, a chi le fa domande in merito, vedova di Bosco. Su questo
punto non ha alcuna incertezza.
Si
adatta alla realtà del momento, si sente apprezzata da amici e conoscenti,
allaccia nuovi rapporti, sorride anche quando è giù di morale o alcuni pensieri
fastidiosi o, peggio, dolorosi, le affiorano sopra gli altri. Il suo sorriso è
contagioso, secondo chi la frequenta, e la sua leggerezza è sempre più
apprezzata. Anche chi la vede accetta di chiamarla vedova, e lei sorride,
malgrado questo, dice che può succedere, che non scorda ma che la vita va
avanti. Tuttavia la voce continua di tanto in tanto a ricordarle che è morta.
-Ma
se sono morta, ora dove sono?
Nessuna
risposta a questa domanda, mai.
Ora
si possono fare molte ipotesi in proposito, una più assurda dell’altra e
nessuna di queste con un minimo di prove attendibili, di credibilità.
Si
potrebbe trattare del paradiso, del purgatorio, degli inferi, dell’aldilà, di
una vita migliore, si potrebbe pensarlo, ma lei non lo crede. Non si sente
vivere in un mondo migliore, se non c’è Bosco. È vero che ha avuto momenti,
prima, nei quali ha pensato di non essere amata abbastanza, ma era prima,
appunto. Poi ha capito. Se anche aveva avuto ragione poi ha ricevuto prove
diverse.
Si
potrebbe trattare di un universo parallelo, di fantascienza insomma, di
proiezioni nel futuro di realtà precedenti. Lei però non è mai stata amante
della fantascienza, quindi l’ipotesi è decisamente incredibile.
Potrebbe
trovarsi in una forma di coma e vivere un eterno presente, almeno sino a quando
il suo corpo resterà in quello stato apparentemente vegetativo. Non sa come le
è venuta quest’idea e non può verificarla. Ogni tanto prova a darsi un
pizzicotto o a mettere una mano sotto l’acqua gelida o a fumare una sigaretta,
ma non è disponibile ad azioni pericolose come ferirsi volutamente o bruciarsi
con un accendino.
Ha
iniziato a confidarsi sui dubbi che le vengono con alcune amiche, e loro l’ascoltano,
la capiscono, e si rendono conto che ha veramente perso Bosco, anche se non
sanno spiegarle come è avvenuto. La seguono mentre racconta di lui, lo fanno
con sincerità, ma questo non l’aiuta a conoscere la realtà vera. Ammesso che esista
una realtà definibile vera, ed ammesso che lei sia una vedova allegra, o certamente
sorridente, con chi incontra.
E
poi pensa che con Bosco non è quasi mai andata a ballare, ed un po’ le spiace.
Eppure anche tu hai
vissuto quei momenti, e stavi o da una parte o dall’altra, o forse solo
guardavi, felice di non essere protagonista nel bene o nel male.
Sai di cosa parlo, certo
che lo sai. Tutta la tua vita ne è stata influenzata.
(Anonimo vissuto a cavallo tra due secoli)
Vivere
in una parentesi lo si capisce solo dopo averla vissuta, non prima, non nella
sua completa percezione. Forse che la nostra vita la intuiremo sino in fondo
solo dopo la nostra morte? O che invece la intenderanno esclusivamente gli
altri, quelli che resteranno? In entrambi i casi non so dire, non avendo fede
in vite future non posso né negare né credere di potermi giudicare o vedere
dopo la mia morte, e neppure riesco ad immaginare che chi resterà potrà capire
sino in fondo cosa ho vissuto, come ho accettato o no quello che avveniva, cosa
provavo, e perché ho fatto le mie scelte. Nessuna risposta, solo le domande
sono facili, utili a dubitare.
Potrei
trovare carnefici nei miei anni infantili, potrei rivedere i semi che solo dopo
sarebbero germogliati nel bisogno di mantenere le distanze e di partire sempre
con molta diffidenza mancando di fiducia nelle amicizie, pur avendone bisogno
come immagino tutti. E potrei anche vedere la mia facile caduta in lusinghe
messe in atto in modo subdolo da chi ha saputo usarmi esclusivamente per
colpirmi in falsi affari.
Se
rinascessi ora con l’esperienza di ora e rivivessi quegli anni come andrebbe? Saprei
essere onesto o diventerei lo stronzo sempre pronto a risvegliarsi appena mi
distraggo?
Tu sei stata la mia
parentesi, la mia parte sana di vita, che mi ha ridato la fiducia perduta e che
alimenta, ancora oggi, quello che vorrei essere e non sarò mai.
Caddi
in abissi, come molti, e risalii, in parte rimuovendo completamente dalla
coscienza ciò che fui. Ebbi varie rinascite, e ad ogni nuova vita smarrii una
parte della mia verginità e fiducia, della mia innocenza. E poi mi si chiede
come mai conservo le cose. Ecco il motivo. Ho perso la mia vita che fu, non
posso perdere gli oggetti che mi possono riportare almeno ciò che vissi
pienamente e mi fece crescere. Ed ecco perché non potrò mai vivere, se non muto
atteggiamento, in un piccolo paese abitato da persone che sanno tutto di tutti,
poche persone abituate a vivere assieme sin dagli anni dell’infanzia.
In
questo mondo in veloce evoluzione sempre meno persone avranno questa
fortuna-legame. Poco a poco tutti saremo profughi, anche chi pensa di essere
nel giusto e di non accettare chi arriva da lontano o da molto lontano.
I
paradigmi di ieri non vanno più bene. Quelli nuovi non li conosciamo.
L’abisso
di oggi è diverso, si può aprire all’improvviso ed eliminare le ultime difese,
le ultime certezze, i pochi appigli. O forse no, rimanere solo una minaccia
virtuale e mai reale.
Non
pensavo che sarei arrivato a questo, non lo avrei mai preventivato. Eppure io
ci sono stato ad ArteSella, ho visitato il Liechtenstein, ho visto la
Normandia, e tu eri con me, come oggi, e questo forse conta più del resto. Il resto
è riempitivo.
Non
te ne vai, non c’è verso, non puoi, non mi riesce, non voglio, non vuoi, ti
trattengo, ti vedo ovunque, sei alle mie spalle e mi precedi, ti seguo e se non
ti penso basta nulla e ritorni. Mi manchi da quasi un anno, conto i giorni,
penso a cosa succedeva esattamente il 24 novembre del 2016, penso a quello che
stavamo vivendo, eppure c’eri fisicamente, mi rispondevi, mi bastava e temevo
il futuro che si avvicinava.
Non
è vero quello che scrive Elena Ferrante in uno dei suoi libri: I grandi, in attesa di domani, si muovono
in un presente dietro al quale c’è ieri o l’altro ieri o al massimo la
settimana scorsa: al resto non vogliono pensare. I piccoli non sanno il
significato di ieri, dell’altro ieri, e nemmeno di domani, tutto è questo, ora:
la strada è questa, il portone è questo, le scale sono queste, questa è mamma…
Non
è vero, almeno secondo la mia esperienza. I grandi pensano al loro passato, e
vanno indietro nel tempo quanto loro vita può concedere, tornano a quando sono
stati bambini a loro volta, tornano con i loro genitori che hanno perso da
anni. Tornano indietro di mesi, di anni, di decenni. Non è vero che al resto
non vogliano pensare. Forse qualcuno farà così, non lo nego, non io però. Forse
qualcuno preferirà buttare al vento quello che ha vissuto per continuare a
vivere con leggerezza, scordando chi ha avuto vicino per trovare persone nuove,
nuovi amori, nuove amicizie, una gioia di vivere falsamente vergine che scorda l’essenza
umana. Forse è una via per vivere, ma non mi piace e non mi convince, la trovo
feroce. Non siamo tutti uguali, in effetti.
Qualche
adulto mi dice di vivere ora, di pensare all’ora, di vivere il presente,
esattamente come la Ferrante descrive i bambini. Cioè qualche adulto pensa che
la soluzione per poter vivere sia scordare chi eravamo e diventare bambini in
questo modo deleterio, ingrato o più semplicemente stupido.
I
grandi adulti vivono, non si fermano al loro passato ma non lo scordano. Se arriva
un nuovo amico non per questo scordano chi merita di restare amico, anche se appartiene
all’altro ieri. Se arriva un nuovo amore per quale motivo si dovrebbe rimuovere
chi non c’è più? Semplicemente assurdo.
Quindi
non te ne vai, non c’è verso, non puoi, non mi riesce, non voglio. Ed infatti
sono stato ai mercatini di Trento, di Ferrara e di Rovereto (quest’ultimo aperto
oggi), ed in ognuno di questi ti ho comprato una piccola cosa: una stellina di
Natale artigianale, un Rebuffo in vetro ed un angioletto in legno dipinto. Piccolissimi
oggetti di poco valore, ma che per me ne hanno molto perché sono per te. Il resto,
con buona pace dell’ottima Ferrante, non mi interessa. A me interessa il tuo
giudizio Viz, che non mi devi far mancare, anche se non talvolta non sarà
quello che mi piacerebbe sentire.