Correre è un fine o un
mezzo? Non l’ho ancora capito, dopo anni che per lunghi periodi corro senza
molte soste intercalando queste attività con momenti di relativa calma, al
limite della noia.
Dal punto di vista
logico dovrebbe essere un mezzo, cioè correre mi è necessario per portare a
termine ciò che mi interessa, che devo fare. Per correre, devo chiarire,
intendo l’occupare molte ore del giorno per ultimare progetti, per onorare
scadenze, per seguire persone, per occuparmi della casa con tutte le sue
implicazioni (spesa, pulizie, cucina, manutenzione e così via). Potrei semplicemente
dire fare, invece di correre, ma è un mio vezzo, e non solo mio. Il correre per
tenermi in forma appartiene certamente alla categoria dei mezzi, come ogni
altra attività fisica, mentre il correre come lo spiego sopra diventa una cosa
diversa, parzialmente ambigua.
Essere occupato mi fa
bene, potermi curare di qualcosa o qualcuno mi serve, e serve più a me che alla
persona alla quale mi dedico. Inoltre non mi costa fatica, o molto meno di
quanto potrebbe apparire o che avverrebbe se agissi controvoglia, per solo dovere.
Quando
avevo l’opportunità di seguire i tuoi desideri, di ascoltare quanto mi chiedevi,
di esserti utile per quanto potevo mi sentivo realizzato. A volte ero stanco, non
lo nego, ma di una stanchezza sana, che mi lasciava tranquillo, e tu non mi hai
mai chiesto nulla di impossibile, non hai mai voluto pesarmi più di quanto io
fossi in grado di sostenere.
Verso
le fine avrebbe potuto andare in modo molto diverso, non lo nego, avrebbe
potuto diventare difficile, forse pesante, non so e non oso dirlo. Tutto avrebbe
potuto diventare forse un incubo dal quale uscire, ma così non è andata, e ora
citare il termine incubo mi sembra persino ingeneroso, sbagliato, da emerito
stronzo.
Hai
scelto di chiudere i giochi quando hai capito dentro di te che ogni strada era
ormai preclusa, che nulla avrebbe più potuto essere come prima, quando hai avvertito
che avresti potuto diventare un peso. È andata così? Lo penso, non ne ho le
prove ma ne sono convinto. Hai seguito la via che già mio padre e tuo padre
avevano scelto per loro, e pure tu lo pensavi.
Non
è razionale dirlo, la vita va e viene come vuole, come i cioccolatini di
Forrest, e si conclude sempre lasciando l’amaro in chi resta, sempre,
invariabilmente.
Tu
hai provato il terrore, ora lo so, lo hai vissuto profondamente ed hai
ugualmente lottato sino alla fine, sino al consentito. Neppure la sentenza
definitiva ti ha convinto, e mi hai dato l’allegra incoscienza di non
focalizzare ciò che sapevo e sapevi. Nostro figlio ha pianto, quando non lo
vedevi, mentre io non ricordo ora di averlo fatto, prima. Se mi è successo l’ho
rimosso.
Volevo
pensare a progetti, a calendari per l’anno che sarebbe venuto, questo, a cosa
prepararti per cena, a come procurarti le troppe medicine, a come permetterti
di fingere una strana normalità, a immaginare come festeggiare il periodo di
Natale che poi non hai vissuto.
Da
idiota (so di esserlo) rimpiango le visite in ospedale, l’accompagnarti ai controlli,
le giornate difficili da non augurare a nessuno.
Ora
resta un vuoto pieno di te, intoccabile e avvolgente e devo, ripeto, devo,
ricordare. È mio dovere, come è mio dovere ignorare chi allora mi distolse
distraendomi con piccinerie da asilo nido, non sapendo o non capendo o sapendo
e facendo finta di nulla. Ma allora avevo questa libertà che tu volevi che io
mantenessi.
Il
giorno del ricordo, di quel primo anniversario, si avvicina a grandi passi. Sarà un
momento difficile per me, mi hanno anticipato, ma non sarà mai difficile come
lo è stato per te, quindi va bene così.
Io
spero di poter correre sino alla fine e di avere la tua forza per potermi
fermare al momento giusto. Come hai scelto tu pure io non vorrei pesare su
nessuno, e se qualcosa resterà di me vorrei che fosse un bel ricordo,
esattamente quello che tu mi hai consegnato. Grazie, Viz
Silvano C.©
(La
riproduzione è riservata ma non c'è nessun problema se si cita la fonte,
grazie)
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