Non so cosa aspetto, ma aspetto. Se lo sapessi perderei molte delle emozioni e dei pensieri che mi accompagnano. Nel calderone dell’attesa ci finiscono speranze, prospettive prevedibili, paure di possibili difficoltà, quasi certezza di nodi che arriveranno al pettine e un vago timore del futuro e del cambiamento che questo comporterà, sino al cambiamento finale, definitivo ed inappellabile. Quello che ognuno immagina a modo suo, ma senza una sola prova documentata di cosa comporterà esattamente.
La programmazione di piccolo cabotaggio mi rassicura e fornisce una trama di consuetudini ripetitive e consolatorie, ma so perfettamente che è solo un diversivo per non affrontare il problema. E mi piacerebbe non tanto trovarne la soluzione ma eliminare direttamente il problema, in questo caso.
Ho letto una frase che mi ha colpito in un libro.
Le bussole non dovrebbero indicare il nord, ma la propria casa.
La pronuncia una delle protagoniste, che decide di imparare a leggere e scrivere. È stanca di dover tenere in ordine tutta la sua conoscenza in testa senza aver modo di trasferirla e sistemarla anche altrove. È stanca di cominciare a non trovare più, nella sua mente, quello che sa di avere ma non ricorda dove lo ha messo.
Nell’attesa io mi dedico in parte anche al riordino, a fissare un po' dell’immateriale. Non so affrontare il materiale. Riordinare e far piazza pulita di alcune cose mi è vietato dal sottoscritto. Attendo che tu torni e ritrovi, esattamente dove hai messo, almeno alcune delle tue cose. E mi aspetto anche che ti arrabbi se ho fatto spostamenti senza dirtelo o chiedertelo, perché il mio concetto di ordine non è sovrapponibile al tuo. Quindi aspetto e, se ci riesco, sposto il problema non potendo risolverlo.
Silvano C.©
(La riproduzione è riservata ma non c'è nessun
problema se si cita la fonte, grazie)
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