L’apparenza della debolezza è quanto di più fuorviante ci possa
arrivare dall’educazione di secoli e, probabilmente, anche da predisposizioni
genetiche.
Il pavone che fa la ruota e attira su di sé l’attenzione
delle femmine ma anche quella dei predatori dovrebbe far sospettare che l’essere
dimessi e mimetizzati non è segno di inferiorità, ma a volte precisa strategia
vincente.
Non voglio cadere nell’errore di trasferire dall’etologia
alla psicologia (o viceversa) certi concetti, anche se un tale modo di affrontare
il problema è troppo diffuso e ci viene dal passato nobile di Fedro ed Esopo,
per arrivare alle realizzazioni di Disney dell’altro ieri (che ci ha persino girato
degli pseudodocumentari sulla natura ormai datati, per fortuna).
La forza liberatoria del pianto è sottovalutata da troppi
uomini, che raramente si fanno cogliere con le lacrime in pubblico. A piangere sono
sempre le donne, è chiaro. La Pietà è donna anche nell’iconografia moderna, e
dove arriva l’orrore si cerca sempre il volto di una donna che piange i figli,
il marito, o qualche proprio caro. Ci sono eccezioni, ovviamente, e stanno
iniziando a piangere anche gli uomini, e non soltanto ai funerali, ma sono
appunto eccezioni.
L’uomo deve esprimere la forza violenta e cieca,
inarrestabile, vendicatrice, e puntualmente va incontro alle proprie
contraddizioni pagandone il prezzo. Il pianto invece è liberatorio, lava via il
dolore, oppure lo rende interno e completo, lo accetta come componente della
propria vita, senza far fuggire dalle responsabilità e spingendo a cercare soluzioni applicabili che non generino
nuove lacrime.
Il pianto fa accettare la realtà, permette di elaborare il
lutto e di continuare a vivere, mette nudi di fronte alle proprie fragilità,
rende consapevoli esattamente nell’istante della disperazione, motivata o meno
che sia. Pone anche gli altri di fronte a scelte precise. Io ad esempio ricordo
momenti di pianto che mi hanno legato in modo più forte ad alcune persone o che
da queste me ne hanno fatto allontanare. Non si scherza con chi piange. Lo si
può plagiare, certamente, ma si è costretti a prendere posizione in modo netto.
Un bisogno espresso anche attraverso il pianto non si elude, e quando si
commette questo errore ci si autoesclude.
Non poter piangere, o non saperlo fare, è un handicap che costringe
ad un ruolo che non tutti sanno sopportare. Per riuscirci alcuni si rifugiano nel
branco per surrogare il bisogno di condivisione e di approvazione, anche se poi
il branco chiede la rinuncia alla propria umanità, e non di rado degenera in
violenza, fisica o meno che sia. Piangere aiuterebbe. Darebbe un senso o una
dimensione. Farebbe crollare la propria fortezza costruita su sabbie mobili per
lasciare una solida casa, a volte modesta, ma sufficiente per vivere, ché altro
non serve.
Silvano C.©
( La riproduzione è riservata ma non c'è nessun problema se si cita la fonte, grazie)
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