sabato 13 settembre 2014

La ferita




Personaggi, in ordine di apparizione, e un luogo:
Don Filippo, uno degli assistenti del Vescovo Giulio Boschi. Ilda Naldi, tenutaria della casa detta “Dla Ruseta” (Della Rosetta). Gina, al secolo Ginestra Gruppioni, rossa di capelli e di pelo, come in molti ebbero modo di verificare. Ingegner Ciro Contini, redattore di un piano regolatore per la città datato 1911. Dottor Angelo Zappaterra, Arcispedale Sant’Anna, malattie infettive. Renzo Ravenna, podestà di Ferrara dal 1926 al 1938, amico di Balbo ed ebreo. Italo Balbo, quadrumviro, aviatore e “signore” di Ferrara durante il ventennio. Michele (Michlin) Ferrari, un giovanissimo che scopre il cinema. Antonia Cini, cassiera dell’Apollo e poi dell’Apollino, in corso Porta Reno. Bruno Zevi, architetto, urbanista e politico.   Ferrara, poco amata da alcuni, piccola città un tempo gloriosa, e ferita da chi avrebbe dovuto difenderla.

Da dove vogliamo iniziare questa storia che non è mai avvenuta e con personaggi in parte reali - ma immaginati in situazioni a volte inventate - oppure del tutto frutto di fantasia? 
Dall’inizio, direi, cioè dagli anni nei quali tra via San Romano e corso di Porta Reno, a Ferrara, esisteva un quartiere ora quasi del tutto scomparso, distrutto non dalla guerra e dai bombardamenti alleati ma dall’azione degli stessi ferraresi. Questi emiliani quasi romagnoli, quanto ad autolesionismo, non si fanno mai mancare nulla quando sono in vena di farsi male sul serio.

Dai piani alti del Palazzo della Ragione, nei primi anni del ‘900, guardando verso Bologna, si vedeva un povero quartiere costituito da case malsane e con viuzze strette, alcune delle quali dai nomi ormai scomparsi anche dalla memoria. Eppure dalla piazza principale della città, compresa tra il palazzo appena ricordato e la Cattedrale, questo pozzo oscuro che accoglieva ogni genere di umanità distava niente.
Sulla piantina era, come adesso, una specie di grande rettangolo, con palazzi presentabili o di pregio ai suoi quattro lati, ma al suo interno ci si perdeva, in strade strette e tra case povere e malsane.

Don Filippo, per motivi legati alle sue funzioni caritatevoli, spesso vi si recava a recar sollievo ai peccatori ed alle peccatrici. 
In un vicoletto tutte volte e anfratti, lercio come pochi altri luoghi in città, si trovava un casino. La tenutaria stava giorno e notte nel minuscolo ingresso sempre aperto, e permetteva ai frequentatori di salire al piano superiore solo dopo che questi avevano pagato il compenso richiesto per le prestazioni delle ragazze che attendevano nelle uniche tre stanze della casa. 
E Don Filippo, immancabilmente, ogni martedì, entrava per confessare e portare conforto alle ragazze, ignorando tranquillamente certe considerazioni che su di lui facevano gli ipocriti benpensanti. Non entrava solo in quella casa di tolleranza, del resto, ma in tutte quelle del quartiere e degli altri posti vicini. 
Qui occorre specificare, per dovere di cronaca, che il religioso aveva superato da tempo la sessantina, e che se andava in quei luoghi era esattamente per il motivo che suggeriva la sua veste, ed era rispettato da ladri e prostitute quasi più del Vescovo o del Podestà.

Un certo giorno del marzo del 1913 da Ilda arrivò una ragazza nuova. Veniva da Ravenna, dicevano, ed era rossa di capelli: la Gina. In breve tempo non si fece che parlare di lei, e non solo tra via San Romano e corso di Porta Reno. 
La bellezza della Gina diventò la novità che in pochi ignorarono, quindi anche il religioso ne fu informato, ed in qualche occasione la incontrò pure, per strada, ma mai nella casa della Rosetta, quella di Ilda Naldi, dove esercitava la sua benemerita professione. 
Lei non voleva incontrare il prete, e non se ne conosceva la ragione.

Sempre in quel periodo le autorità cittadine stavano pensando seriamente a come risanare quell’area malfamata e spesso focolaio di malattie infettive, come la temutissima tubercolosi, ma l’entrata in guerra dell’Italia bloccò ogni progetto inizialmente affidato agli studi dell’ingegner Ciro Contini. 
E così passarono gli anni difficili del conflitto senza novità di rilievo per l’attività della casa della Rosetta. Solo verso la fine del 1918, per circostanze fortuite, Don Filippo e la Gina si incontrarono ufficialmente. Lei sempre bellissima, che sembrava ringiovanire con gli anni malgrado la vita difficile che conduceva e lui sempre molto attivo ed impegnato malgrado i quasi 70 anni. L’occasione fu la malattia di Pina, una prostituta amica della Gina, che cadde preda di una strana febbre ed in brevissimo tempo morì.

Quell’incontro segnò in modo definitivo il prete, e fu l’ultimo periodo nel quale lo si vide in giro in città. La Gina lo aveva sempre saputo, ed era per quello che lo aveva evitato sino a quando le era stato possibile. Lui si innamorò di lei, in modo totale, sin dal loro primo incontro. Lei all’inizio tentò di non cedere, e gli racconto di quando era fuggita da Ravenna, molti anni prima, di come aveva perso il figlio di un giovane rampollo appartenente ad una famiglia importante della Romagna e di come i parenti avessero iniziato a minacciarla. Aggiunse l’elenco di altre sue disgrazie e della sua cattiveria. Disse di come avesse tradito un giovane fidanzato, prima di iniziare il mestiere. Ma lui si era innamorato sul serio, ed ogni cosa che lei gli diceva non faceva che fargli crescere il desiderio fisico di toccarla, vederla, averla. E tornava da lei appena poteva, scordando tutte le altre persone ed i suoi doveri.

Alla fine lei cedette, e per vari giorni la Gina non ebbe clienti, ma rimase sempre chiusa nella sua stanza con Don Filippo. Solo dopo la scoperta di questo amore tanto diverso da quello che lui aveva sempre professato tutta la vita, e dopo che ebbe salutato per sempre la sua Gina, alla fine di quei giorni con lei, se ne tornò nel palazzo accanto alla Cattedrale e sparì dal mondo, forse seguendo o precedendo di poco il suo Vescovo. Era il 1919.

Della Gina, a sua volta, dopo questo fatto, non si ebbero più notizie attendibili. Raccontarono che si fosse trasferita in un’altra città del nord, ma su questa semplice voce non si sono avute conferme di alcun tipo e quindi la lasciamo alla sua storia, ormai passata, ed al suo destino. 
Arriviamo così al dottor Angelo Zappaterra, stimato medico dell'Arcispedale Sant’Anna, specializzato in malattie infettive.
Il medico sollecitava da tempo ed a più riprese un intervento che riqualificasse e bonificasse il quartiere tra via San Romano e corso di Porta Reno, ed ora i tempi sembravano maturi per realizzare un'operazione seria e radicale. Il progetto anteguerra di Ciro Contini, poi definito di “sventramento di San Romano” venne approvato da Roma solo nel 1926, ma ancora mancavano idee precise su cosa fare esattamente.
Intanto Renzo Ravenna, podestà di Ferrara, ebreo ed amico di Balbo, autorizzava interventi in altre zone di Ferrara dove veniva realizzata un’opera imponente di riqualificazione e ricostruzione, la cosiddetta addizione novecentista, e il quartiere, malgrado un nuovo progetto elaborato da un architetto di fiducia di Italo Balbo non veniva ancora toccato in modo significativo, conservando sino allo scoppio della seconda guerra mondiale la sua struttura medievale.

La notte del 22 aprile 1945, che fu l’ultima di occupazione della città da parte delle truppe tedesche, una mano ignota appiccò il fuoco al Palazzo della Ragione, che era sede del tribunale e conteneva gli archivi storici. Fu una catastrofe che segnò in modo indelebile il centro cittadino, e da quel momento iniziò l’opera di demolizione e di ricostruzione che per tanti anni si era rimandata.
Non furono quindi le bombe a fare danni, ma i progetti che vennero attuati nell’immediato dopoguerra, con la progettazione di edifici poco inseriti nel contesto ambientale e storico e con la distruzione di una parte della memoria collettiva cittadina.

Il cinema Apollo aveva l’ingresso della sua sala in corso di Porta Reno, ed era stato inaugurato nel lontano 1921. Era un edificio imponente, ed aveva superato indenne la guerra. Nel 1949 accanto all’Apollo venne inaugurata una sala più piccola, l’Apollino, ed è qui che, negli anni 50, Michele (Michlin, in dialetto ferrarese) veniva accompagnato dai genitori o dal nonno per vedere i suoi primi film, e faceva il biglietto ridotto, oppure entrava gratis le prime volte, quando Antonia, la cassiera, vedeva che era veramente piccolo.
Poi, bruciato il Palazzo della Ragione, si perse anche un po’ la ragione, e quei due cinema vennero demoliti, con altri edifici accanto, per fare spazio a costruzioni vagamente surreali e moderne, ma assolutamente fuori posto.
Quel lato del corso di Porta Reno divenne un corpo estraneo, messo a forza in un punto della città che non se lo meritava.
Bruno Zevi parlò di “stupro di Ferrara”, io mi limito a definirla “la ferita”.






                                                                                     Silvano C.©


( La riproduzione è riservata ma non c'è nessun problema se si cita la fonte, grazie)

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