domenica 24 gennaio 2016

basta chiudere gli occhi…




Vieni qui, salta su, molla quello, prendi questo, non scappare, poi ti prendo, e se resti, sai che rischi…

Così andava cantilenando Ernesto al nipotino treenne, battezzato pure lui Ernesto ma da tutti chiamato Nino. E quello scappava ridendo e lanciando piccole urla, prima dietro una sedia, come se non lo si vedesse, poi, scoperto, sotto il tavolo, e poi sotto il divano anni 50, quello con uno spazio perfetto per gatti e bambini tra i piedini di metallo. Ernesto avrebbe potuto ancora lavorare, se il suo cuore malato lo avesse concesso, e si sentiva inutile, un peso, ed aspettava la fine come una liberazione. Adesso fingeva di essere arrabbiato con Nino, e lo rincorreva senza intenzione di prenderlo.
Lui non voleva prenderlo perché sentiva che era l’unica cosa a tenerlo in vita. Se lo avesse raggiunto, avrebbe perso ogni scopo residuo. Se lo avesse raggiunto, lui avrebbe raggiunto Elvira, nello stesso preciso istante.

Ma cosa vai a pensare, sei uno stupido. Se vuoi farla finita sai come fare, e senza spaventare il piccolo Nino, che non si merita le tue tragedie. Non ancora. Lascialo giocare, essere un bambino, neppure ti ricordi più com’eri tu, alla sua età.

E certo che non lo ricordava. A lui sembrava di non essere mai stato un bambino. Aveva sempre lavorato, sempre. I suoi anni erano stati tutti così, di lavoro e fatica, sino all’attacco cardiaco che l’aveva messo fuori gioco. Quando ancora c’era Elvira avrebbe spaccato i sassi o spostato rimorchi di frutta da solo, in campagna. Non aveva paura di nulla, sicuramente non della fatica. Poi, in un solo anno, tutto era cambiato. Lei se n’era andata ed a lui era venuto l’attacco. Eppure lei era più giovane. Non era giusto. Neppure con lui la vita era stata giusta. Quando sua madre era morta, subito dopo la sua nascita, lui si era ritrovato una matrigna. Di sua madre non ricordava più il viso, non il sorriso, nulla, era andata via per sempre lasciandolo da solo, con un padre che non c’era e con una madre surrogata che pensava prima ai suoi, di figli, e dopo a lui.

Vieni qui, salta su, prendi questo, non lo vedi? Se tu scappi poi ti prendo, e se ti prendo …

Già, ora devo prenderlo, e farlo stare un po’ tranquillo. Gli racconterò la storia del Bastonzucca, gli piace sempre, così poi si addormenta. Quando tornerà mia figlia, non lo troverà agitato, e non si arrabbierà con me. Ultimamente non gli va mai bene nulla, sbaglio qualsiasi cosa faccia. Lei lo vedrà sorridente, tutto calmo, ed io sparirò nella mia stanza. 

La stanza al secondo piano, su per quelle scale infinite, in una casa troppo vecchia per avere l’ascensore, e fredda, in inverno. Quella era la stanza dove prima stava con Elvira, ma ora da solo la sentiva troppo grande.

Raggiunse Nino, lo fece sedere sulle sue ginocchia, gli raccontò con le stesse identiche parole di sempre la favola di Bastonzucca.  Lui ascoltò attentissimo, anticipando quello che sarebbe successo, poi, lentamente, iniziò ad addormentarsi. A quel punto Ernesto si alzò, e delicatamente appoggiò il nipotino sul divano, e si avvicinò alla finestra, a fissare la strada, e gli alberi, e le nuvole che si stavano arrossando per la sera. Quando finalmente arrivò la figlia lui la salutò e lentamente si arrampicò sino al secondo piano. Non aveva voglia di cenare, e nemmeno di spogliarsi. Si distese sul letto e chiuse gli occhi.

L'immagine è di Folon
                                                                                                        Silvano C.©   

(La riproduzione è riservata ma non c'è nessun problema se si cita la fonte, grazie)

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