Vieni qui, salta su,
molla quello, prendi questo, non scappare, poi ti prendo, e se resti, sai che
rischi…
Così
andava cantilenando Ernesto al nipotino treenne, battezzato pure lui Ernesto ma
da tutti chiamato Nino. E quello scappava ridendo e lanciando piccole urla,
prima dietro una sedia, come se non lo si vedesse, poi, scoperto, sotto il
tavolo, e poi sotto il divano anni 50, quello con uno spazio perfetto per gatti
e bambini tra i piedini di metallo. Ernesto avrebbe potuto ancora lavorare, se
il suo cuore malato lo avesse concesso, e si sentiva inutile, un peso, ed
aspettava la fine come una liberazione. Adesso fingeva di essere arrabbiato con
Nino, e lo rincorreva senza intenzione di prenderlo.
Lui
non voleva prenderlo perché sentiva che era l’unica cosa a tenerlo in vita. Se lo
avesse raggiunto, avrebbe perso ogni scopo residuo. Se lo avesse raggiunto, lui
avrebbe raggiunto Elvira, nello stesso preciso istante.
Ma cosa vai a pensare,
sei uno stupido. Se vuoi farla finita sai come fare, e senza spaventare il
piccolo Nino, che non si merita le tue tragedie. Non ancora. Lascialo giocare,
essere un bambino, neppure ti ricordi più com’eri tu, alla sua età.
E
certo che non lo ricordava. A lui sembrava di non essere mai stato un bambino. Aveva
sempre lavorato, sempre. I suoi anni erano stati tutti così, di lavoro e
fatica, sino all’attacco cardiaco che l’aveva messo fuori gioco. Quando ancora
c’era Elvira avrebbe spaccato i sassi o spostato rimorchi di frutta da solo, in
campagna. Non aveva paura di nulla, sicuramente non della fatica. Poi, in un
solo anno, tutto era cambiato. Lei se n’era andata ed a lui era venuto l’attacco.
Eppure lei era più giovane. Non era giusto. Neppure con lui la vita era stata
giusta. Quando sua madre era morta, subito dopo la sua nascita, lui si era
ritrovato una matrigna. Di sua madre non ricordava più il viso, non il sorriso,
nulla, era andata via per sempre lasciandolo da solo, con un padre che non c’era
e con una madre surrogata che pensava prima ai suoi, di figli, e dopo a lui.
Vieni qui, salta su, prendi
questo, non lo vedi? Se tu scappi poi ti prendo, e se ti prendo …
Già, ora devo
prenderlo, e farlo stare un po’ tranquillo. Gli racconterò la storia del Bastonzucca,
gli piace sempre, così poi si addormenta. Quando tornerà mia figlia, non lo
troverà agitato, e non si arrabbierà con me. Ultimamente non gli va mai bene
nulla, sbaglio qualsiasi cosa faccia. Lei lo vedrà sorridente, tutto calmo, ed
io sparirò nella mia stanza.
La
stanza al secondo piano, su per quelle scale infinite, in una casa troppo
vecchia per avere l’ascensore, e fredda, in inverno. Quella era la stanza dove
prima stava con Elvira, ma ora da solo la sentiva troppo grande.
Raggiunse
Nino, lo fece sedere sulle sue ginocchia, gli raccontò con le stesse identiche
parole di sempre la favola di Bastonzucca. Lui ascoltò attentissimo, anticipando quello
che sarebbe successo, poi, lentamente, iniziò ad addormentarsi. A quel punto
Ernesto si alzò, e delicatamente appoggiò il nipotino sul divano, e si avvicinò
alla finestra, a fissare la strada, e gli alberi, e le nuvole che si stavano
arrossando per la sera. Quando finalmente arrivò la figlia lui la salutò e
lentamente si arrampicò sino al secondo piano. Non aveva voglia di cenare, e
nemmeno di spogliarsi. Si distese sul letto e chiuse gli occhi.
L'immagine è di Folon
Silvano C.©
(La riproduzione è riservata ma non c'è nessun problema se si cita la fonte, grazie)
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