sabato 31 maggio 2014

Cacciatori


Vive in un attico, a due passi da piazza Benotti, e quando si affaccia dal terrazzo buona parte della città è sotto ai suoi occhi. Da tempo ha rinunciato alle auto, ed ora il garage è vuoto. Possedeva una Mercedes Pagoda ed una Bentley del ’79, ma gli erano venute a noia, e non sopportava più gli sguardi dei tanti cafoni invidiosi, gente senza un minimo di coraggio ma capacissima di criticare chi era stato più in gamba, nella vita.
Da ragazzo aveva bruciato le tappe. Si era laureato a pieni voti in giurisprudenza ma non era mai entrato in uno studio d'avvocato, avendo scoperto presto che la politica è più adatta se si vuole far carriera in fretta, e quindi soldi. Provenendo da una famiglia di piccoli commercianti (a dire il vero senza molta fortuna) aveva quel giusto spirito pratico, ma nessun tipo di scrupolo o, come diceva suo padre, un minimo di rispetto per gli altri e di onestà.
Si era sposato, ovviamente per interesse, con la figlia di un costruttore molto discusso ma pure molto ricco. Il matrimonio era andato avanti con sempre maggior stanchezza per oltre un decennio e poi si erano separati, stanchi di dover spiegare agli amici, oppure di fingere che non esistessero, i continui e reciproci tradimenti. Ma entrambi ci avevano guadagnato, dal punto di vista economico, perché lui aveva saputo far fruttare il nome del suocero e si era introdotto in ambienti che contavano e lei non gli aveva lasciato più di quello che aveva portato in dote, anzi, ci aveva guadagnato una villa in campagna.

Ora, dopo una carriera come alto Funzionario dello Stato durata per oltre trent’anni, si gode la notevole pensione in perfetta solitudine, senza figli né altri legami stretti, odia in modo profondo la gente che non fa che lamentarsi e chiedere, e si richiude giornate intere a leggere libri d’arte e di storia medievale. Esce raramente di casa, perché non gli interessano più neppure i ristoranti o le passeggiate che un tempo lo distraevano. Aveva sempre attorno qualcuno per la sua sicurezza, e non ne poteva più. In casa viene una donna che lo segue da anni, tiene in ordine e cucina; arriva a metà mattina e nel tardo pomeriggio se ne torna a casa sua.

Da un po’ ha preso a frequentare una biblioteca, ma in modo occasionale, due o tre volte al mese, e se un volume gli interessa lo prende a prestito, anche quando si tratta di volumi che solitamente non dovrebbero uscire da quelle sale. È ancora potente, ma il suo volto è sconosciuto alla maggior parte delle persone, e questo lo aiuta a muoversi con minor attenzione di quella che doveva avere un tempo.

Se vuole una donna non ha problemi a contattare chi gli sa procurare esattamente quella che vuole, e per pagare non ha difficoltà. Il sesso lo attira ancora, eccome, ma ora ha meno appetiti, meno voglie. Spesso gli incontri si risolvono in uno spettacolo che lui si limita a guardare. È diventato impotente, lui che ha fatto della potenza e del denaro il motivo della sua vita. E la cosa gli fa venire un’invidia feroce nei confronti di quei giovani che si dicono disperati ma che non sono consapevoli della fortuna che hanno.

Quella mattina, sul tardi, esce diretto verso la biblioteca, con in mano un volume che deve restituire. L’aria fresca lo mette di buon umore, e decide per una piccola deviazione, passando per la zona dei giardini e della piazza del tribunale. Cammina tranquillo, col passo un po’ incerto a causa dell’età, ma non ha alcuna fretta, e non si accorge della ragazza con una piccola borsa a tracolla che lo segue a breve distanza, la stessa che ogni tanto incrocia in biblioteca ma che si mimetizza tra tutti gli altri frequentatori e che quindi non saprebbe riconoscere se gli si piazzasse davanti.
Poi tutto avviene in pochi secondi. Sente il rumore del tram che si avvicina sferragliando sulle rotaie, ma gli è famigliare, non si gira neppure. La ragazza accelera il passo e con una spinta impercettibile e sicura lo fa cadere esattamente mentre sopraggiunge la vettura. Lui finisce sotto, muore all’istante, mentre la ragazza si dilegua tra la folla di curiosi che intanto si è radunata.

In un bar ad un paio di isolati entra una ragazza nelle toilette, e pochi minuti dopo ne esce un ragazzo, con un piccolo zainetto. Il ragazzo raggiunge un’auto parcheggiata poco lontano, sale, mette in moto e parte. In periferia telefona da una delle rare cabine pubbliche, forse a casa, dice che sta bene e di non preoccuparsi, poi riattacca.
Rimane per tutto il resto del giorno in un parco poco lontano, mangiando ad un piccolo chiosco un panino e bevendo acqua non gasata. Solo in serata riprende l’auto, dopo aver avuto conferma dai notiziari locali che un vecchio funzionario in pensione, che conduceva vita solitaria, era accidentalmente rimasto ucciso inciampando proprio mentre stava sopraggiungendo il tram.
La ragazza - ragazzo ora parte più rilassata, si dirige verso l’autostrada, non incontra alcuna pattuglia nel tragitto e al casello, mentre si ferma per prendere il tagliando manualmente, sorride. Si mette in viaggio, ascoltando un po’ di musica classica, perfettamente sveglia e lucida. Si ferma solo molte ore dopo, in un autogrill, mentre la notte sta per cedere all’alba di un nuovo giorno.
                                                                                           Silvano C.©


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Cacciatori


Ermete non è il fondatore né il presidente bensì il socio più anziano e l’animatore più attivo di tutto il circolo e quasi tutti lo considerano il vero presidente.
Ha organizzato in 10 anni di sua permanenza oltre 15 mostre personali dei soci, fotografiche o pittoriche, e quasi il doppio di collettive, con lavori di ogni genere, compreso il modellismo.
L’associazione “Grandangolo”, che prima del suo arrivo tirava a campare ed era un bar privato dove i pensionati, praticamente solo uomini, andavano ad assopirsi giocando a volte a carte e fingendo di scattare qualche foto, spiazzati dall’avvento del digitale, loro, affezionati alla vecchia pellicola, aveva subito una mutazione globale.
Ermete, con l’arrivo della pensione, aveva deciso che a 59 anni non si è vecchi, anzi, ricomincia la vita. Aveva sgobbato da sempre, ma si era anche sempre ritagliato i suoi spazi, e specialmente dopo la perdita a causa di un pirata della strada della sua amata Pina aveva deciso che non voleva chiudersi in casa, ed aveva iniziato a frequentare teatri e mostre, spesso muovendosi durante i fine settimana, e non sempre da solo. Con le donne riscuoteva un buon successo, anche con le giovani, e dopo l’addio a Pina non aveva motivo per rinunciare a qualche incontro se capitava, ma voleva evitare coinvolgimenti troppo seri. Aveva sofferto troppo per sua moglie, anche se pochi lo avevano notato, e non voleva più ricascarci.
Il “Grandangolo” aveva trovato una nuova sede, aveva cominciato a ricevere richieste di iscrizioni anche da molte donne, si era rivitalizzato, ed era un ribollire continuo di attività. La quota per l’iscrizione non era più proprio modesta, come lo era rimasta per anni ed anni, ma in cambio l’offerta di animazione che si trovava tra quelle mura era ammirevole.

L’ultima idea venuta ad Ermete è quella di recuperare vecchie foto d’epoca e poi di ritornare negli stessi luoghi ed immortalare la situazione di oggi, per vedere i mutamenti che il tempo e le attività umane portano alla nostra geografia quotidiana.
Si alza quindi molto presto, quando è ancora notte, e prende l’auto perché, come ha comunicato ai suoi amici, intende fotografare alle prime luci del giorno i laghetti di Foscoli, inquadrandoli esattamente come sono ritratti in una vecchia immagine sbiadita di circa 40 anni prima. Arriva sul posto, che conosce relativamente bene, e trova un parcheggio adatto usando i fari della sua orgogliosa Giulia Alfa Romeo 1750 ultima serie. Scarica la borsa col materiale fotografico e si avvicina alla sponda del laghetto superiore, nel punto esatto dove intende aspettare il momento buono per scattare le immagini che ha in mente.

Ermete è troppo attento a guardare le ombre degli alberi ed cercare il punto adatto per piazzare il cavalletto della sua fotocamera per sentire alle sue spalle i movimenti furtivi di tre giovani che si materializzano all’improvviso e che lui nota solo quando è troppo tardi.  Lo agguantano senza molta delicatezza, lo gettano nell’acqua gelida, mantenendogli la testa sotto ed aspettano che smetta di agitarsi. Lasciano quindi il suo corpo per metà sommerso, ormai senza vita, controllano che sulla ghiaia non siano rimasti segni del loro passaggio e poi si separano, allontanandosi ognuno in direzioni diverse, mentre la notte sta per cedere all’alba di un nuovo giorno.
                                                                                           Silvano C.©


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venerdì 30 maggio 2014

Cacciatori


La moglie Enrica è morta solo pochi mesi prima, caduta accidentalmente lungo una scalinata del quartiere durante la sua solita passeggiata giornaliera, pare appurato a causa di una buccia di banana lasciata cadere da qualche incosciente. Si godevano la loro vecchiaia, con due buone pensioni, lei da insegnante, e lui da ex dirigente dell’INAIL. Stavano bene, si potevano permettere vacanze in giro per l’Europa, e malgrado gli acciacchi dell’età non si potevano lamentare.
Ora Flavio ha perso molti interessi. Esce ancora, vede qualcuno, ma non ha più desideri da soddisfare o progetti da realizzare con lei. Si lascia aiutare da una signora italiana per tutte le faccende domestiche – non ne vuol sapere di stranieri in casa sua – ed ha molto tempo libero, per leggere o scrivere, potrebbe anche scrivere un libro, ma non ne sente veramente il bisogno. Ha 73 anni compiuti da poco, e non desidera guadagnare né ottenere fama. Si lascia solo vivere.
Quella sera, verso le 23, spegne la televisione, va in bagno, si prepara per la notte e poi si corica, senza alcun entusiasmo. Fa fatica a prendere sonno, ed ormai si imbottisce di sonniferi per non svegliarsi nel cuore della notte o per non avere incubi tra sonno e veglia.
Alle 4 di mattina, aprendo da professionisti il portoncino blindato del suo appartamento due giovani, con scarpe da ginnastica ai piedi e guanti per non lasciare impronte, si dirigono silenziosamente verso la sua camera da letto, controllano che lui stia dormendo, uno dei due va nella cucina che si affaccia sul cortile interno del palazzo signorile, apre le imposte e verifica che ogni luce sia spenta alle finestre che si affacciano nel pozzo buio del quale non si vede il fondo.
Poi, in pochi istanti, ritorna sui suoi passi, entrambi prendono Flavio, lo immobilizzano, lo sollevano di peso tenendogli una mano sulla bocca, lo trasportano in cucina e poi lo gettano nel vuoto. Un urlo rauco, un suono sordo e poi ritorna il silenzio. I due escono dall’appartamento senza toccare assolutamente nulla, richiudono il portoncino esattamente come lo avevano trovato e spariscono nella notte che sta per cedere all’alba di un nuovo giorno.
                                                                                           Silvano C.©


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#Brustlina 15


P.A.D.A.P.
Donne alla Fontana
Quando non esistevano Facebook, Twitter o altre piazze virtuali oggi diffuse capillarmente, molti ma molti anni fa, prima dell'urbanizzazione e del raggiungimento da parte della popolazione di comodità minime, come l’energia elettrica in ogni casa, o il rubinetto per l’acqua potabile in cucina, c’era un Social estremamente efficiente, che si limitava alle notizie di attualità di aree ristrette, ma al quale non sfuggiva nulla.
Era la P.A.D.A.P. sigla che significava: Pia Associazione Donne Alla Pompa.
Un po’ misogina sicuramente, ma in tempi nei quali per quanto ricordi, nel mio ambiente, le donne si facevano rispettare anche a suon di botte, se serviva, e sapevano tener testa a qualsiasi uomo, se a loro interessava, che fosse il parroco di paese, autorità indiscussa, marito, o personaggio pubblico. Talvolta anche il padrone, cioè il datore di lavoro, quello dal quale dipendeva la stessa sopravvivenza.
La definizione, che non è mia ma di un mio ex professore di liceo,  mi è rimasta impressa per la sua capacità micidiale di fotografare un’età della nostra storia, una mia esperienza diretta e un’ironia nei fatti della vita che dovrebbe sempre essere presente, anche se occorre pure prendere le distanze da ogni tipo di strumentalizzazione.
Da ragazzino non avevo l’acqua potabile in casa, ma usavamo un pozzo in cortile, per tutte le esigenze, ed una fontanella lontana quasi un chilometro per rifornirci di acqua da bere. A volte accompagnavo nonna o mamma a prendere l’acqua, ed era sempre un piacere sentir parlare tra loro tutte le donne in attesa del loro turno di quanto succedeva, anche se allora capivo si e no un quarto di quanto dicevano.
Era l’Italia che stava aspettando la televisione, o che iniziava a vederla solo in pochi punti precisi, come i bar e certe case più fortunate.
E ripenso con affetto e nostalgia a quelle Donne alla pompa.

                                                                    Silvano C.©


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giovedì 29 maggio 2014

Pranzo estense



Quando torno a Ferrara non posso fare a meno di cercare un po’ delle mie radici rimaste in antichi sapori e preparazioni alimentari, ma poiché non sono un esperto né uno storico, io mi limito alle mie emozioni, a ciò che ho appreso durante l’infanzia e che quindi è solo della mia famiglia o delle mie prime esperienze in questo campo. Poi vengo a tempi più recenti, alle tradizioni ritrovate ma che non conoscevo sino ad una certa età, perché vengo da famiglia operaia e contadina, sicuramente abituata a risparmiare e a non concedersi certi lussi che, oggi, io cerco di permettermi, per nostalgia e ritorno alle mie origini.
Quindi qui voglio tentare, senza pretesa di essere esaustivo, un elenco di piatti che fanno parte dei miei gusti personali, escludendone altri sicuramente famosi localmente ed apprezzati ma che a me non interessano. Escludo poi i vini, perché scriverei banalità e in questo campo sono assolutamente impreparato, anche se ho iniziato ad apprezzare un vino buono, quando mi capita, e lo bevo con piacere.
Per tentare una minima esposizione sistematica userò lo schema classico di un ristorante, una sorta di menù, insomma, il mio pranzo ideale estense, ovviamente da non consumare in una sola volta, ma da provare, magari due o tre piatti per volta, quando si ha occasione di capitare a Ferrara. Un ferrarese non ha bisogno di leggermi, e forse non approverà sino in fondo le mie scelte, ma questo lo so, e me ne assumo la piena responsabilità.

Pane
Forse è in assoluto il prodotto principe, alla base della cucina ferrarese, la ciupeta, la coppia ferrarese, prodotta in vari forni che si trovano nelle vie del centro di Ferrara e della sua intera provincia. Ha una forma tipica con quattro cornini a formare una specie di croce che si riuniscono al centro, dove c’è un po’ di mollica, non troppa. È da assaggiare assolutamente, per chi non lo ha mai fatto. Non serve andare al ristorante tipico e tradizionale, dove certamente la mettono in tavola, ma basta appunto fermarsi lungo le vie, ed entrare in un forno. Prima però verificate che ci sia qualche ferrarese che compra le ciupete.



Antipasti
La cultura contadina ha il maiale nella sua tradizione, e gli insaccati a base di carne di maiale, o altre preparazioni, sono perfette come antipasto, anche se ovviamente sono in grado di reggere, uniti al pane, un intero pasto.
Prima di tutto io consiglio il salame all’aglio, che ogni cantina un tempo proteggeva con cura, e magari non di rado si conservava anche in casse sotto cenere.
Poi la pancetta arrotolata e affettata come un salame.
Infine i ciccioli, ottenuti dal grasso del maiale, o secchi, pressati, oppure da taglio (Silvano, non volevo dei ciccioli, oppure, Silvano, Nonvalevole Ciccioli? meditate sul testo del grande Jannacci).

Primi
Pasticcio di maccheroni, con besciamella e ragù, e contenuti in un involucro di pastasfoglia. Hanno origini legate alla corte degli Este, accostando il dolce al salato come usava in tempi rinascimentali.
Pasta al forno, con besciamella e ragù di carne.
Tagliatelle all’uovo e stese a mano, poi fatte al ragù.
Cappellacci di zucca,(caplaz) simili a quelli mantovani, e tipicamente al ragù.
Cappelletti (i caplit, altrove chiamati tortellini) con un impasto per il ripieno diverso da famiglia a famiglia, il batù. Quando si facevano in famiglia a volte uno a caso veniva riempito di solo pepe, per ridere ovviamente a tavola quando si scopriva a chi capitava, cotto, nel piatto. Da evitare quelli alla panna. Si consumano solo in brodo, con un po’ di parmigiano sopra.
Gnocchi di patate, sempre al ragù.
Passatelli in brodo.
Papparuccia, specie di polenta abbastanza molle ottenuta con farina di mais utilizzando l’acqua di cottura dei fagioli, lasciando anche vari fagioli nell’impasto, aggiungendo un po’ di olio e poi versata a raffreddare in piatti da portata fondi.
Pasta e fagioli. La migliore è quella che durante la cottura si attacca sul fondo, ed è un po’ bruciacchiata (non è così, ovviamente, ma per me è il massimo)
Zuppa di pane raffermo, cioè semplicemente pane ferrarese secco, brodo e un po’ di sale.
Riso in brodo con una spruzzata di vino rosso.

Secondi
Salama o salamina da sugo, da abbinare sempre col purè di patate.
Cotechino.
Baccalà, in umido, a volte cotto con patate, altre volte servito con la polenta.
Grigliata mista di carne di maiale.
Polpettone, con molto pane, verdure uova anche sode e poca carne. Si può cuocere in acqua dopo aver avvolto l’impasto in una stoffa, una volta di canapa, e legato stretto.
Bollito, che si è ottenuto per preparare il brodo, solitamente con carne di manzo e pollo.

Contorni
Purè di patate.
Patate al forno.
Pomodori, zucchine e peperoni ripieni.
Zucca al forno.
Polenta.
Insalata di stagione.

Piatti unici
Tonno e cipolla, semplicemente.
Pinzini (pinzin, crescentine fritte) con affettati (ignorando le salsine strane a volte abbinate)
Gran fritto misto (verdure e carni, in pastella, anche con cubetti di crema)

Dolci
Pampepato o pampapato al cioccolato, il re di tutti i dolci di Ferrara, da consumare nel periodo invernale.
Zuppa inglese, per alcuni nata esattamente alla corte estense, per altri importata dall’Inghilterra.
Ciambella, o brazadela.
Sugoli d’uva (in periodo di vendemmia, visto che son fatti con mosto e farina)
Grostoli (per carnevale)
Salame di cioccolato

Frutta
Di stagione, ovviamente. Un tempo la provincia di Ferrara era tutta un frutteto, ma ancora oggi si trovano ottime fragole, mele, pere, fichi, angurie e meloni, pesche, albicocche, prugne, cachi, ciliegie e così via.

Da evitare tassativamente, se si è in visita a Ferrara per poche ore o pochi giorni e si va in qualche ristorante:
·        Cinesi, giapponesi, fast-food, etnici in genere e locali con pizze al taglio o crepes. (quelli sono ovunque, non ho nulla contro, se piacciono, ma siete a Ferrara, antica capitale degli Estensi. Meglio un panino, piuttosto.)
·        ogni  locale che descriva i piatti con le parole: su un letto di…
·        la rucola
·        l’aceto balsamico (ma si possono fare eccezioni)
·        le osterie con l’H davanti
·        la piadina (ottima, ma è romagnola)
·        tortellini alla panna, tagliatelle al salmone, burro e salvia

Non posso dimenticare poi pochi piatti tipici della mia infanzia, sempre con poca carne, perché costava, e pure con pochi formaggi, che solo più avanti negli anni ho iniziato a scoprire. Quindi uova cucinate in tutti i modi, e legumi di tutti i generi, e minestroni, e prodotti dell’orto, che in famiglia abbiamo sempre avuto sino al trasferimento definitivo nel capoluogo. E poi rane e lumache, che non mi piacevano, oppure pesci di fiume, pieni di spine, come il pesce gatto, che ho sempre mal sopportato, preparati fritti o in umido. Quasi mai anguille, anche se sono un prodotto tipico delle valli ferraresi. Io, in sostanza, ricordo molti primi ma ben pochi secondi, e la carne, solitamente pollo o coniglio, si consumava quasi sempre solo la domenica.

Considerazione finale. In tempi difficili come questi impossibile pensare seriamente di mangiare come ho descritto in questo post, e non solo per un problema di dieta, quando molti non sanno come mangiare, semplicemente. Eppure io voglio essere ottimista, devo esserlo, per non gettare al vento una storia millenaria, un orgoglio di risalire e risorgere, un bisogno di ritrovare quello che eravamo e di lasciarlo alle generazioni che ci seguiranno, in questo melting pot culturale che non rifiuto, ma che non deve uccidere la nostra storia.

                                                                                           Silvano C.©


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martedì 27 maggio 2014

Illusione



Erano gli anni 40, si usciva da una guerra disastrosa che aveva portato morti e tragedie, si iniziava a respirare un’aria di ricostruzione e di ottimismo. Le donne conquistavano il voto, l’Italia cacciava con un referendum la debole monarchia che prima ci aveva consegnato al fascismo e poi era fuggita da Roma. Il Paese diventava una Repubblica, con una sua nuova Costituzione.



Negli anni 50 la guerra è ormai lontana, è il momento della crescita e del boom. La Fiat 500 è la prima auto che tutti o quasi possono comprare o almeno sognare, e quasi tutti desiderano una casa propria, perché i soldi girano.  Il lavoro è duro ma c’è, per quasi tutti, magari a prezzo di sacrifici enormi, obbligando a spostamenti dal sud al nord. I meno fortunati devono ancora emigrare oltre i confini nazionali, andando talvolta a morire in miniera, come a Marcinelle, e venendo spesso trattati esattamente come noi oggi trattiamo gli extracomunitari. Si lascia la terra per andare in fabbrica o a costruire palazzi, a guidare un camion o facendosi assumere dalla pubblica amministrazione, conoscendo qualcuno giusto. 
Siamo italiani, tutti, ed il vizio nazionale di cercare un aiuto al di fuori dei canali ufficiali ha origini antiche, anche se non siamo gli unici a soffrirne. In questo momento ci si vergogna ancora se si viene scoperti a rubare, non si ostenta la ricchezza e l’Unità viene distribuita porta a porta, la domenica, da quegli scomunicati dei comunisti. I festival de l’Unità sono una festa di popolo, che ha anche le sue “Case del popolo”. Inizia il processo di urbanizzazione quasi selvaggia con la costruzione di enormi periferie adatte a nuclei meno numerosi di quelli ai quali si era abituati, e questo farà morire la famiglia patriarcale, il primo e vero stato sociale italiano, ora sempre più ridotto.



Il  decennio successivo (anni 60) inizia con “La dolce vita”, di Fellini, un “amarcord” ormai nostalgico del decennio precedente, incapace di vedere le nubi che si stanno addensando e che sembrano ancora lontane. Ben più attento non alla poesia ma alla storia è Francesco Rosi, che, con “Mani sulla città”, tre anni più tardi, mostra a tutti la tragedia che si compie e lo scempio che si fa del nostro paese, del territorio e dei beni artistici. Ma ancora pochi vedono, perché una fetta di torta non si nega a nessuno, tutti ne traggono qualche vantaggio e pure mio padre riesce a comprarsi una Fiat 600 usata. La vita sorride, perché fare gli uccelli del malaugurio? Perché i sindacati, che difendono i lavoratori, dovrebbero mettere in guardia per quello che potrà succedere alle generazioni future? La crescita infinita è un dogma, è così. Non si deve dimostrare, solo accettare. L’alluvione di Firenze, l’inizio della protesta studentesca (partita dalle classi borghesi, perché le altre hanno altro cui pensare), le lotte che si fanno più dure e le prime violenze fanno però capire che il mondo cambia. E ancora ci si illude di “poterlo cambiare”, quindi l’ottimismo è sempre presente.



I 70 sono densi, tutto velocemente evolve, molto sembra ancora possibile, iniziano gli atti terroristici, le lotte tra estremismi di destra e di sinistra, ma sono anche anni di grandi conquiste sociali e civili, come lo statuto dei lavoratori e la scala mobile (contrattata, tra gli altri, dall’allora segretario della CGIL Luciano Lama), la legge sul divorzio e la legge 194. La situazione generale vede i lavoratori organizzati  e compatti, una sinistra ancora abbastanza unita sotto la guida del PCI che col suo segretario generale trova un accordo con il presidente della DC, Aldo Moro (che sta per essere sequestrato ed ucciso dalle BR), in quello che sarà il breve momento del Compromesso Storico, in seguito abbandonato dallo stesso Enrico Berlinguer. Alla fine del decennio il rapporto tra Debito pubblico e PIL è attorno al 60%.




Gli anni 80 iniziano con un film tragico di Margarethe von Trotta “Anni di piombo uscito nel 1981, che spezza molte illusioni ma non ancora le più ingenue.
La reazione ed il terrorismo fanno il loro ingresso nella vita di tutti. L’estremismo politico a certi livelli si confonde con le parti deviate dello Stato. Qualcuno inizia a capire, ma c’è ancora euforia, da ultima festa sul Titanic. Craxi attacca duramente Berlinguer durante il Congresso PSI di Verona ma poco dopo il PCI, sull’onda dell’emozione per la morte del suo segretario, l’uomo onesto e coraggioso capace a suo tempo di criticare l’imperialismo oppressivo sovietico, arriva a risultati insperati, e supera nelle elezioni europee la stessa DC. 
Ma non sono solo comunisti quelli che lo hanno votato, ed il risultato è effimero. L’Italia non è mai stato un paese di sinistra, e la sinistra non ha mai trovato di meglio da fare che dividersi e litigare, riducendo in tal modo la sua forza. La scala mobile viene messa in discussione e sterilizzata nei suoi effetti da Craxi. Alla fine del decennio il rapporto tra Debito pubblico e PIL è attorno al 93%.



Negli anni 90, l’altro ieri, quasi tutto ormai è compiuto, ma alcune illusioni continuano a rimanere e non vogliono saperne di mollare. Sono gli anni da bere, con la corruzione che dilaga, i soldi facili per i furbi ed un debito pubblico che ormai è alle stelle, spendendo, di fatto, le pensioni dei nostri figli e dei nostri nipoti prima ancora che questi siano nati. Sono anni nei quali i dipendenti pubblici possono andare in pensione dopo solo 19 anni, 6 mesi ed 1 giorno di lavoro, e le donne con famiglia addirittura dopo 14 anni, 6 mesi ed 1 giorno, e questo con la connivenza di forze politiche e sindacali. 
Sono gli ultimi fuochi di una sinistra sempre più isolata e divisa. Nasce il partito della Rifondazione Comunista, ed in un Festival de l’Unità a Bologna, prima che questo avvenga, parlo con compagni sconosciuti della necessità di non dividerci, ma sono solo illusioni. Ed ecco la discesa in campo del grande venditore, che sino ad ora è rimasto nell'ombra di Craxi. E' sempre più autonomo ed in grado di influenzare l’opinione pubblica con le sue televisioni. La scala mobile viene definitivamente abrogata da Amato. Alla fine del decennio il rapporto tra Debito pubblico e PIL è attorno al 113%.



Anni 2000, il decennio che ci ha preceduti, l’illusione di un’Europa che dall’economia di una Moneta Unica potesse trarre la forza per un’unione politica vera e forte, senza egoismi nazionalisti, evoluzione dei primi passi mossi sugli ideali dei padri fondatori.
Però ormai l’Europa è divisa ed è troppo estesa per correggere alcune storture.  In Italia l’ascensore sociale si blocca in modo definitivo. Le classi sociali, che qualcuno con molti soldi nega che esistano ancora, di fatto diventano chiuse, come le caste indiane, e non sono quasi più possibili passaggi da quelle basse a quelle altre. Il mercato del lavoro muta in modo drammatico. Ora i figli sono meno protetti e garantiti dei padri, e solo le famiglie sono in grado, se ne hanno i mezzi, di sopperire all’assenza di uno stato sociale.
Alla fine del decennio il rapporto tra Debito pubblico e PIL è attorno al 116%, il potere di acquisto degli italiani è sotto la media europea e la disoccupazione cresce in modo sempre più marcato.


Quello che segue è ormai cronaca di questi giorni e tutti se ne possono fare un’idea senza bisogno di leggermi. Per quanto mi riguarda resto illuso ed idealista, cavalco il sogno di unità della sinistra di Marx ed Engels, non amo i partiti personalizzati, sono fortemente allergico ai duri e puri senza disponibilità a compromessi per il bene dell’Italia e dei meno fortunati, e sono ancora più indisponibile verso chi punta allo sfascio per poterne avere vantaggi, raccontando favole o soffiando sull’odio.
Ammiro la forza di Don Chischiotte che si batte per la giustizia a costo anche del ridicolo e vorrei realizzare il sogno di Spinelli, Rossi e Colorno di un’Europa dei popoli, quindi non solo con una moneta unica, ma con una politica unica, un solo esercito, una parità di diritti ed una società  fondata su basi laiche nel rispetto di ogni credo religioso, che rimane libertà individuale, non legge.
Vorrei un’Europa diversa, ma non uscire dall’Europa. Non è intelligente tornare alla Lira dell’inflazione a due cifre, della svalutazione continua per sostenere l’economia a danno dei risparmi, dei pensionati e dei lavoratori. E ricerco equità, redistribuzione del reddito, lotta all’evasione ed alla corruzione, in un’Europa che difende i suoi cittadini.
Molte cose scritte in quest’ultima parte sono contraddittorie, lo vedo da solo, ma mica ho premesso di essere perfetto, ho fatto solo riferimento all’illusione.

                                                                                           Silvano C.©


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domenica 25 maggio 2014

Le mani sporche di terra


Paola nasce mentre il padre è lontano, all’estero per lavoro, ma trascorre i primi anni circondata dall’amore di Lucia, la madre, che è rimasta al paese vicino al mare, e dei nonni materni ormai anziani ma felici di avere una bambina da accudire mentre la figlia lavora. È una bella donna, Lucia, capelli nerissimi, occhi profondi e vivaci, viso magro e zigomi forti, da greca o turca, e forse andando indietro nel tempo probabilmente è proprio in quelle terre non lontanissime che stanno le sue antiche radici. I pochi parenti vicini vivono la loro vita e non hanno rapporti molto stretti con loro, che del resto non ne hanno bisogno.
Ogni tanto il padre torna, due o tre volte ogni anno, ed è sempre una festa. Quando Paola sta per compiere sei anni arriva il primo fratellino, Dario, e lei si diverte ad aiutare la mamma ed i nonni a seguirlo, sentendosi perfetta per quel ruolo.

Ora lei sente la mamma ed il papà che fanno progetti, ed inizia a capire che lui tra un po’ tornerà per stare poi sempre con loro. Parlano di un ristorante sul mare, di una grande casa, di tanta gente, e lei, da bambina, sogna castelli magici o grandi ville come quelle che vede in televisione.
Un bellissimo giorno di sole, in primavera, uno di quei giorni perfetti nei quali tutto può accadere perché il mare è calmo e l’orizzonte è pulito, il padre torna, come aveva promesso, per restare. Porta due grosse valigie e poi abbracci e lacrime, e finalmente si può aspettare l’estate, la bella estate.

Nei due anni che seguono arrivano anche Vincenzo e Giuseppe, i due fratellini più piccoli, mentre i nonni, felici per la famiglia che cresce, decidono che ora tocca a loro lasciare spazio ai giovani, e se ne vanno a pochi mesi di distanza uno dall’altra. Ora non c’è più bisogno di loro, e se una dei due ormai è stanca, l’altro vuole seguirla presto, sicuro che la sua presenza non sia più indispensabile.

La grande casa inizia prendere forma. Federico è un bravo muratore ed il progetto lo ha firmato un amico che ha studiato, ma nessuno bada troppo a permessi e burocrazia quindi, con l’aiuto di un paio di contadini senza troppo lavoro, le stanze aumentano, viene costruito il salone, poi la veranda e anche la cucina viene ingrandita.

Paola guarda orgogliosa il suo uomo costruire il loro tanto sognato futuro, con la tristezza per i genitori che non lo vedranno ma con la consolazione che sono morti vedendoli felici.
Un giorno sono tutti assieme, lei, Paola, Dario, Vincenzo e Giuseppe a guardare Federico che sale su una scala per passare mattoni ad uno dei suoi aiutanti, quando un’auto arriva silenziosa e ne scendono due uomini, eleganti, con un paio di valigette, e si avvicinano alla casa in costruzione.

La sera Paola sente i genitori che discutono, in cucina, con le porte chiuse, e non capisce bene cosa si dicono, ma avverte che sono parole gravi, che portano nubi e temporali.
Il giorno dopo la visita dei due con le valigette il padre sospende tutti i lavori, e si allontana già dalle prime ore dell’alba con la loro vecchia auto scassata. In casa i bambini fanno silenzio, e Paola è incaricata di badare che i fratellini più piccoli non facciano cose pericolose. Lei ha già 12 anni, Dario invece ne ha solo 6 e non può badare ai più piccoli, di tre e due anni. 
La madre è muta, e non sorride come i giorni precedenti. Quando la sera tardi torna Federico lei si precipita ad accoglierlo, ma dice ai bambini di restare in casa, e di andare a letto, che ormai è tardi.

Trascorrono giornate strane, di silenzi ed assenze. I due aiutanti non si vedono più. Il padre è quasi sempre fuori. La madre si rinchiude ogni tanto in cucina e ne esce con gli occhi rossi, poi cerca di fare qualche battuta, per tranquillizzare i bambini, ma non risponde alle domande di Paola.
Poi tutto precipita. Un’auto dei carabinieri arriva, un tardo pomeriggio, e un brigadiere si avvicina alla casa, bussa, vede Lucia e le dice poche parole. Lei sviene, davanti al militare, che riesce a sostenerla appena in tempo prima che batta la testa sul cemento della base della tettoia.

Il padre si è impiccato ad un ulivo, un vecchio ulivo, uno dei più vecchi del paese, e lo hanno trovato per caso un paio di cacciatori.
Paola non sviene, ma muore dentro. Cambia, diventa un’altra, abbandona i suoi interessi, segue poco e svogliatamente i fratelli. Quando inizia l’anno scolastico ha ancora davanti agli occhi le scene del funerale del padre, senza prete, ma con quasi tutto il paese a rendere omaggio in modo ipocrita. Il primo giorno si picchia con una vecchia compagna di classe. Il secondo giorno si fa buttare fuori dall’aula perché offende una professoressa. Il terzo giorno, accompagnata dalla madre, viene ammessa a condizione che cambi atteggiamento, ma in realtà si isola soltanto. Non studia e non fa compiti a casa. Non si fa avvicinare da nessuno. Non risponde a nessuno. Non si fa aiutare da nessuno.

Una sera Lucia la cerca, non la trova, si spaventa, chiama aiuto, lascia una lontana cugina a guardare i fratelli e va a cercarla. Dopo ore trova Paola, è nel vecchio cimitero, urla al padre di venire fuori, scava la terra con le mani nude, con tutto il fiato che ha in corpo gli dice che non è giusto che se ne sia andato così. 
Poi torna a casa, con la madre, le mani sporche di terra, e non parla, la segue semplicemente in silenzio.

(Solo molti anni dopo, quando Paola sta per compiere ormai vent’anni e lavora da tempo come cameriera in un ristorante sulla riviera, un locale esattamente come quello che avrebbe voluto costruirsi il padre, il figlio del padrone, tornando dai suoi studi all’estero, la vede per la prima volta, e chiede al padre chi sia quella ragazza)

                                                                                   Silvano C.©


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L’orologio



Già da anni lo sapeva, e non voleva accettare del tutto la faccenda, ma non poteva impedirsi di notarla quella stranezza ogni volta che si ripresentava, di registrarla come un dato di fatto, e non sapeva spiegarla in alcun modo razionale.
Dal punto di vista scientifico insomma non sapeva da dove iniziare, ma ormai era inconfutabile il rapporto di causa ed effetto.
Nulla di misurabile, nessun dato quantitativo insomma, o almeno nessuno che lui si fosse mai deciso a trascrivere su un quadernetto di appunti o in una bella ed ordinata tabella informatica come ogni buon ricercatore che si rispetti sa fare.
Se avesse avuto una raccolta di episodi precedenti, risalenti ad alcuni anni prima, con date, località, persone, situazione generale, descrizioni dei fenomeni scatenanti o supposti tali con gli effetti finali, avrebbe potuto, forse, arrivare ad una qualche conclusione.
E poi chissà quanti gliene sarebbero comunque sfuggiti, rientrando nella normale casistica del tutto prevedibile dell’errore di misurazione dovuto allo strumento meccanico, o coperti da quella specie di rumore di fondo che avvolge ogni fatto umano.

In ogni caso era accertato. Il suo fedele orologio automatico, che ricaricava ormai da decenni semplicemente col movimento del polso, percepiva il suo umore e le sue tensioni come un fedele animale domestico.
Quando stava male o aveva problemi perdeva la calma distaccata pure lui, accelerava o rallentava il suo ritmo, lui, uno strumento, nulla di più di una macchina. Questo non capitava invece quando si sentiva bene ed era felice, o almeno non lo aveva mai notato.
Il suo orologio, insomma, non si accontentava di misurare pazientemente il tempo cronologico, ma si faceva influenzare da altro, dalla sua testa, probabilmente, e dalle tensioni che il suo corpo provava.

Quella sera, quando scese per preparare la tavola per la cena, rimase stupito dal fatto che l’orologio sulla parete segnava le 20 e16 mentre il suo, al polso non era ancora arrivato alle 20. Qualcosa era successo, quindi, anche se lui aveva tentato di minimizzare. E fu costretto ad ammettere che l’orologio aveva ragione.


                                                                                           Silvano C.©


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sabato 24 maggio 2014

24 maggio - La leggenda del Piave



Negli anni ’60, alle scuole elementari di Porotto, un piccolo paese vicino a Ferrara, il maestro Adriano Franceschini, tra le altre attività che proponeva ai suoi alunni, faceva cantare in classe vari pezzi importanti della nostra storia musicale classica, come ad esempio il coro del Nabucco di Verdi, il “Va, pensiero”.
Così  ho studiato sino a sapere a memoria La leggenda del Piave, ed oggi in parte la ricordo ancora e sono grato a chi me l’ha fatta conoscere ed imparare, approfondendo la storia sin dove potevamo capirla noi ragazzini di circa dieci anni.
È stato pure l’Inno del nostro Paese, dal 1943 (caduta del fascismo e armistizio con gli alleati, con conseguente cambio di fronte, costituzione della Repubblica di Salò, fuga dei Savoia da Roma e inizio della guerra partigiana)   al 1946 (referendum monarchia-repubblica, nascita della Repubblica Italiana ed inizio dei lavori della Commissione Costituente).
Oggi, 24 maggio, mi è tornata alla mente.

La leggenda del Piave, testo di Ermete Giovanni Gaeta (E.A.Mario).

Il Piave mormorava,
calmo e placido, al passaggio
dei primi fanti, il ventiquattro maggio;
l'esercito marciava
per raggiunger la frontiera
per far contro il nemico una barriera...

Muti passaron quella notte i fanti:
tacere bisognava, e andare avanti!

S'udiva intanto dalle amate sponde,
sommesso e lieve il tripudiar dell'onde.
Era un presagio dolce e lusinghiero,
il Piave mormorò:
«Non passa lo straniero!»

Ma in una notte trista
si parlò di un fosco evento,
 
e il Piave udiva l'ira e lo sgomento...
Ahi, quanta gente ha vista
venir giù, lasciare il tetto,
poi che il nemico irruppe a Caporetto!
 

Profughi ovunque! Dai lontani monti
Venivan a gremir tutti i suoi ponti!

S'udiva allor, dalle violate sponde,
sommesso e triste il mormorio de l'onde:
come un singhiozzo, in quell'autunno nero,
il Piave mormorò:
«Ritorna lo straniero!»

  E ritornò il nemico;
per l'orgoglio e per la fame
volea sfogare tutte le sue brame...
Vedeva il piano aprico,
di lassù: voleva ancora
sfamarsi e tripudiare come allora...

«No!», disse il Piave. «No!», dissero i fanti,
«Mai più il nemico faccia un passo avanti!»

Si vide il Piave rigonfiar le sponde,
e come i fanti combatteron l'onde...
Rosso di sangue del nemico altero,
il Piave comandò:
«Indietro va', straniero!»

 Indietreggiò il nemico
fino a Trieste, fino a Trento...
E la vittoria sciolse le ali al vento!
Fu sacro il patto antico:
tra le schiere, furon visti
Risorgere Oberdan, Sauro, Battisti...

Infranse, alfin, l'italico valore
le forche e l'armi dell'Impiccatore!

Sicure l'Alpi... Libere le sponde...
E tacque il Piave: si placaron l'onde...
Sul patrio suolo, vinti i torvi Imperi,
la Pace non trovò
né oppressi, né stranieri!


                                                                                           Silvano C.©


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mercoledì 21 maggio 2014

#Brustlina 14


Rivoglio il mio Gelosino

Lo rivoglio, l’ho perso non so dove durante un trasloco dei miei, era in una scatola da scarpe, e con quel mio primo registratore avevo una raccolta di bobine a nastro di circa una ventina di pezzi, o forse di più.



Collegavo il cavo di alimentazione alla presa, inserivo la spina  jack mono del microfono e lo sistemavo vicino alla radio o all’altoparlante del televisore, mettevo il nastro in posizione tra le testine di registrazione ed ascolto, poi spingevo in contemporanea due tasti, tra i quali quello rosso, e la registrazione partiva. 


Se in casa qualcuno faceva rumore in quel momento, veniva registrato assieme a quello che mi interessava. Così ad esempio avevo salvato alcune canzoni di Celentano, oppure quell’ultima interpretazione di Luigi Tenco, a Sanremo, il 26 gennaio 1967: Ciao amore ciao….


Ora mi piacerebbe ritrovarlo, ma ancor di più vorrei che Luigi non avesse ceduto, quella notte tra il 26 ed il 27, quando non aveva ancora 29 anni.


Ciao, Luigi, ciao…
                                                                                          Silvano C.©


( La riproduzione è riservata. Ma non c'è nessun problema se si cita la fonte.  Grazie)

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