Primo fu il Mona, che ebbe l’onore di tale appellativo, decisamente non originale, poco dopo averlo conosciuto. I motivi perché lo meritasse furono diversi, e neppure li ricordo bene. In fondo però non fu una cattiva persona, per quanto ci riguardò, e sicuramente non finì bene i suoi giorni. Un po' beveva, è vero, ma quello che distrusse veramente lui e la moglie fu una guerra fratricida che lo costrinse ad abbandonare una casa nella quale viveva credo da sempre e di proprietà per trasferirsi in un appartamento, forse in affitto, il particolare non lo conosco. Anche la moglie ne ebbe enormi danni, e nessuno dei due si risollevò più da quella situazione e ora serve umana pietà per quello che vissero. Restammo in quella casa ancora un paio di anni, prima di abbandonarla per sempre e con qualche rimpianto per quello che aveva rappresentato, ma stava diventando invivibile pure per noi, e intanto avevamo deciso di trasferirci, perché la vita non permette di fare come si vorrebbe e ci spinge a scelte quasi obbligate.
Quel Mona fu il primo, poi ne vennero tanti altri. Sono cose nostre però, parole e nomi di un linguaggio che io ho perduto per sempre, che non posso più condividere, che solo tu capivi quando lo usavo. Quante volte capita questo durante una vita? Non lo so, immagino tante. Le persone che vanno via portano con sé parte di noi, e questa è una conseguenza inaccettabile. Ci lasciano parte di loro, per compensare la perdita, ma la bilancia non ritorna in equilibrio. Alla fine si continua a fingere che tutto sia naturale, che non ci si avvicini alla pazzia, e la realtà interna lentamente supera quella esterna, visibile. L’invisibile, alla fine diventa evidente, è ovunque.
Ciao, Viz. Poco altro da dire, solo che vorrei scambiare due parole.
Silvano C.©
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