Un altro tassello inizia a trovare il suo
posto, lo capisci? Ti rendi conto che anche questo è un meccanismo ripetitivo,
affine alla coazione a ripetere per alcuni aspetti, mi auguro almeno non in
modo pesantemente clinico e patologico.
Spero sia solo una fase che poi metabolizzerai
e supererai, parte di un cammino che, mi spiace, te lo giuro, tu devi percorre
sino in fondo. Poi dovresti uscirne, trovare il modo, anche se doloroso, per far
convivere esigenze spesso contraddittorie.
Tu ti aspetti, inconsciamente, che se vieni da
me io possa poi uscire con te. Se non stavolta magari una volta dopo, o dopo
ancora. Cioè mi chiedi, senza formalizzare la domanda: quando ti dimettono?
Io capisco che oggi tu
mi abbia visto almeno due volte, cioè tu abbia scambiato due donne incontrate
per strada per me. Mi assomigliavano molto vagamente, ma tu mi hai vista. Posso
dire che un po’ mi fa piacere ma che è un segno da valutare con attenzione? Stai
sul filo del pericolo.
Renditi conto che se tu
mi chiedi: quando ti dimettono? Io potrei,
a mia volta, ribattere con: e tu quando
ti fai ricoverare?
Capisco ogni cosa,
anche questa. Mi rendo conto che è possibile io agisca esattamente nei termini
che tu descrivi, anche se involontariamente. Eppure sbagli quando pensi a
ricadute patologiche. Prima di tutto io e te siamo nulla nell’universo, e non saremo
mai nulla di diverso di due semplici esistenze tra infinite altre. Io però
desidero ricordarti, e vorrei continuare a farlo. Questo mezzo per raccontare
di te mi aiuta a raggiungere il mio scopo; trattenerti ed accettare anche che
tu non ci sia come eri. Se servivano prove, inizio a toccare con mano che le
fornisco, comincio ad avere misure di questo. È la mia versione, lo ammetto, ma confido
anche nel tuo intervento per interposta persona.
E poi è vero, ora che
mi ci fai pensare. A lungo, quando stavi in ospedale, venivo a trovarti e poi capitava
che mi facessero uscire. Quando l’attesa era di poche ore restavo in zona,
camminavo per le strade, mi distraevo, fotografavo, ti compravo piccole cose,
ti pensavo e pensavo pure a me. Vivevo insomma. Avevo paura, certo, ma la
scordavo e progettavo. Tu eri in grado di farmi capire ma evitavi di spaventarmi.
Come tu potessi riuscirci non lo so, ma la tua forza mostruosa ci riusciva. Ed il
tuo coraggio. Ed ora per quale motivo dovrei evitare di dirlo, urlarlo, il tuo
coraggio? Infatti non intendo smettere. E intendo pure mandare a quel paese chi
non lo accetta. Io ora sono così. Vivo a modo mio, rispetto gli impegni che
posso, cerco anche di ascoltare i consigli di chi mi vuole aiutare ma evito persone
che ora mi potrebbero distogliere o demotivare o propinarmi giudizi che non mi
vanno. Alla mia età non ho tempo per queste persone, non ne ho più.
Quando tornavo a
vederti, dopo aver magari mangiato in giro, spesso per strada, ogni tanto ti
facevo quella domanda: quando ti
dimettono? Ecco perché mi è rimasta conficcata come un chiodo in un luogo che
non posso raggiungere con la mano e levarla.
Oggi ho avuto un’esperienza
di contatto con le mani guidato al buio da una voce registrata. Ho capito
ancora meglio che la realtà per i non vedenti è diversa da quella percepita da chi vede, ne ho
avuto una dimostrazione tangibile, e questo ha aperto prospettive nuove,
ipotesi nuove. Non so con quale senso posso raggiungerti più facilmente, certo
non con la vista. Rinunciando alla luce, che la rende possibile, tu forse
ti avvicini di più. In fondo basta chiudere gli occhi.
Silvano C.©
(La riproduzione è riservata ma non c'è nessun
problema se si cita la fonte, grazie)
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