C’era una volta in un paese vicino vicino un piccolo
castello, e dentro un piccolo re, re Lino.
Rovine di Castel Pradaglia |
Da sempre quel piccolo castello dominava la valle e l’ansa
del fiume ma le sue mura avevano visto tempi migliori, perché i traffici che
tanto tempo prima avevano portato ricchezze e potere a quel luogo si erano
spostati altrove, lasciando sul posto solo resti di vecchie dogane, di garitte
di guardia e di mura cadenti.
Re Lino non possedeva ormai che gli arredi di poche stanze,
quelli indispensabili, avendo già venduto i suoi predecessori gli ori e gli
argenti, le statue e le armature, i quadri e gli arazzi, le armi e la
biblioteca. Non aveva servi, né moglie o figli. Era re di sé stesso, insomma, e
di null’altro.
Dire che re Lino fosse infelice però sarebbe sbagliato. Dopo
la morte del re suo padre e della regina sua madre era rimasto solo, per un
tempo lunghissimo, vivendo del suo piccolo orto e dei pochi animali che
allevava e gli fornivano uova, latte, formaggi che lui stesso si preparava e,
raramente, un po’ di carne. Aveva imparato a conservare il cibo necessario per
le stagioni fredde, e conosceva ogni pianta selvatica utile a curarsi o a
sfamarsi.
Per la gente del paese, che lui vedeva dall’alto, era solo un
povero matto, tranquillo però, ed infatti nessuno lo infastidiva né lui
infastidiva loro. Nei rari ed occasionali incontri al massimo ci si scambiava
un cenno con la mano, o un sorriso, e niente di più.
Tutto avrebbe potuto continuare così ancora a lungo, se non
fosse stato per un impiegato del Comune troppo preciso e sollecito per
ammettere un tassello disordinato nell’anagrafe che gestiva con precisione
asburgica. Quel matto non risultava nei suoi libri, e, dopo un controllo
approfondito svolto sotto lo sguardo incuriosito del prete, non risultava
neppure nei tomi del locale archivio parrocchiale. Assolutamente inaccettabile.
L’indefesso impiegato iniziò a far notare, ossequioso della
via gerarchica che per lui era assolutamente indiscutibile, questa anomalia che
ricadeva sotto la giurisdizione del Comune, e quindi, indirettamente, anche
sua. Per un paio di anni infastidì i suoi superiori sino ad arrivare, come
desiderava, ad avere carta bianca per risolvere una volta per tutte quella
faccenda.
Investito così di un potere inutile e dannoso, mandò un
giorno due pubblici ufficiali comunali a prelevare il malcapitato ed ignaro re
Lino (che mai aveva incontrato di persona e neppure era intenzionato ad
incontrare) ed a farlo scortare in un
istituto adatto a curare i casi come il suo, per evitare che potesse
all’improvviso nuocere a sé stesso o ad altri, come era molto probabile che
prima o poi avvenisse.
Re Lino si ritrovò così a trascorrere le sue giornate in uno
stanzone con Napoleone, con un Bicchiere convinto di essere mezzo pieno, con un
Esibizionista Timido (si denudava solo quando era sicuro di non essere visto da
nessuno e tutti chiamavano ET) e con altri personaggi molto simpatici ma anche
molto tristi, chiusi tra mura alte e solide, sicuramente più di quelle del suo
piccolo castello. Non gli piaceva quella vita stupida e senza libertà, e poco
alla volta iniziò a mangiare sempre di meno, stanco di trascinarsi in quel modo.
Nel frattempo, in un paese lontano lontano, un posto di
confine dove c’erano altri stanzoni come quello dove erano rinchiusi re Lino ed
i suoi compagni di sventura, un medico aveva iniziato a fare una sua
rivoluzione ed a chiedersi come mai alcuni dovessero stare legati ai letti
senza aver fatto nulla di male, oppure rinchiusi senza poter mai uscire in
città, e neppure in cortile. Quel medico con la testa dura aveva iniziato a
farsi conoscere anche dai giovani che non volevano più avere a che fare con le
vecchie generazioni ma che stranamente lo adoravano, anche se lui era della
vecchia generazione.
Il vento iniziò a soffiare tanto forte che le porte dello
stanzone di re Lino vennero aperte, e lui, come tutti i suoi amici, poté
uscire.
Ritornò al suo piccolo castello senza che l’impiegato
comunale, nel frattempo promosso di grado, potesse far nulla per impedirlo. Appena
rientrato nella sua vecchia residenza vide il disastro avvenuto negli anni
della sua lontananza. Tutto in rovina, le poche cose che aveva prima sparite,
gli animali dispersi, l’orto pieno di rovi ed ortiche. Neppure il letto era
rimasto, e il tetto rischiava di cadere. Dove prima appoggiava il suo letto le
pietre del pavimento erano sconnesse, e si mise a piangere.
Una lacrima cadde in una fessura tra due pietre, lui guardò
quella fessura, la sfiorò con la mano, avvertì che una piastra levigata si muoveva,
la spinse, la forzò con entrambe le mani, e la sollevò. Sotto stava una scatola
di metallo, nascosta da chissà quanti anni: Lui non ne sapeva nulla, non
l’aveva mai vista.
Aprì senza difficoltà la scatola, e all’interno trovò,
perfettamente conservati, antichi documenti, alcuni risalenti a vari secoli prima.
Il primo era un editto del 1253 a firma del
Conte del Tirolo che donava come compenso di non è ben chiaro quali servigi una
vasta area comprendente il castello ad una ignota famiglia nobile locale.
Il secondo consisteva nella registrazione di un atto di
proprietà risalente al 1496, firmato dalla egina Anna di Baviera e col sigillo
della Sovrana. I nomi dei beneficiari in qualche modo non gli erano estranei, e
riaffiorava intanto nella sua memoria qualche spezzone di discussione tra i suoi
genitori.
Il terzo era un documento del 1880 che
confermava il diritto di piena potestà perenne su tutta l’area
attorno al castello concesso ad un suo trisavolo ed ai suoi legittimi discendenti da Sua Altezza Imperiale l'Arciduca
Filippo d'Asburgo.
Gli altri documenti erano semplici mappe e
disegni che riportavano solo confini e competenze, ma che confermavano quanto riportato sui primi.
Re Lino rimase senza parole, non mangiò e
non bevve nulla per tre giorni, non si alzò da dove era rimasto seduto, con
quei documenti accanto, e neppure dormì.
Il quarto giorno si alzò, scese piano, con
la scatola ben chiusa sotto il braccio, verso il paese. Andò dritto in municipo, per
parlare col sindaco.
Il fatto risultò tanto straordinario che lo fece ricevere subito, senza alcuna attesa.
Il fatto risultò tanto straordinario che lo fece ricevere subito, senza alcuna attesa.
Fu così che la rivoluzione arrivò in paese. Esperti in
legge e in storia locale non impiegarono molto a stabilire che quei documenti
erano autentici, e la notizia divenne in breve il principale argomento di
discussione dei paesani. Re Lino era a tutti gli effetti il
padrone dell’intero territorio comunale ed oltre. Gli atti che attestavano il
suo diritto non erano mai stati resi nulli da alcuna legge o norma successiva
che li citasse esplicitamente, quindi erano assolutamente validi, ed andavano
rispettati.
Ai diversi grossi proprietari che avevano sino al
giorno prima tiranneggiato i loro operai e contadini vennero sequestrati, a
titolo cautelativo, tutti i beni che fu possibile individuare e gli interi possedimenti in immobili e terreni. Le industrie locali vennero
espropriate. Gli stessi enti pubblici si trovarono nella necessità di iniziare
a versare un canone di affitto per i locali che utilizzavano.
Da quel momento re Lino venne trattato non
solo con il normale rispetto del quale in fondo aveva sempre goduto da parte di
tutti (o quasi) i suoi compaesani, ma poiché manifestò prestissimo la sua
intenzione di non crear danni a nessuno, specialmente ai più poveri e
bisognosi, decisamente con ammirazione e benevolenza.
Pochissimi ricevettero grossi danni dalle
novità procurate dai documenti di re Lino, ma questi semplicemente si eclissarono,
portando con sé tutto quanto poterono (ed avevano precedentemente nascosto) come solo i ricchi san fare, lasciando di fatto al Comune tutti i loro
possedimenti terrieri ed immobiliari.
Re Lino si ritirò di nuovo a vivere nel suo piccolo castello
diroccato, perché era quello che in fondo lo interessava maggiormente, ma non
fu più lasciato solo.
Senza alcun bisogno di accordarsi dal paese ogni tanto
saliva qualcuno ad aiutarlo. Chi gli riparava il tetto, chi gli portava un
formaggio, chi zappettava l’orto e chi portava qualche gallina, qualche
coniglio o una capretta. A parte la scomparsa di pochi personaggi nulla in
effetti mutò nella vita della gente, e il Comune semplicemente si ritrovò ad
avere nelle sue casse, per gentile concessione del re, molti più soldi di
quanti ne avesse mai avuto bisogno.
Silvano C.©
( La riproduzione è riservata ma non c'è nessun problema se si cita la fonte, grazie)
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