venerdì 24 gennaio 2014

Integrazione


Nella casa popolare si ritrovarono famiglie provenienti da zone rurali, abituate a vivere in ampi spazi aperti, senza servizi igienici in casa, a parlare a voce alta perché in campagna serve farsi sentire anche da lontano. Persone abituate a portare le scarpe pesanti, a muoversi in casa come se attorno a loro i primi esseri umani vivessero a centinaia di metri, se non a chilometri.
Fu la prima urbanizzazione del dopoguerra, quella che trasformò un popolo di contadini in uno di operai che allora servivano per le industrie che avrebbero dovuto rendere l’Italia uno dei Paesi più industrializzati al mondo. Una rivoluzione ed un’occasione di miglioramento economico per milioni di italiani che dalle campagne andarono a vivere nelle periferie delle città oppure dal sud, ancora prevalentemente agricolo, migrarono verso il nord dove c’erano le grandi fabbriche.
Un popolo di barbari iniziò a civilizzarsi, a pensare al motorino e poi all’auto, e l’educazione civile subì una mutazione genetica, costretta a fare i conti con le nuove regole condominiali di convivenza, rese più difficili da osservare e prima ancora da capire a causa delle costruzioni, a quei tempi, sicuramente meno rispettose di alcuni parametri abitativi moderni, primo tra tutti, per far capire la portata delle modifiche alle quali erano costretti i contadini di allora, l’isolamento acustico. In altre parole chi camminava in casa con scarponi o scarpe coi tacchi disturbava i vicini, chi parlava a voce alta in casa disturbava i vicini, chi teneva radio o televisore ad alto volume disturbava i vicini, chi occupava il cortile con la sua auto e accendeva il motore per scaldarlo la mattina presto disturbava i vicini, chi chiamava dalla strada urlando o fischiando quelli dei piani alti disturbava i vicini, e lascio continuare a piacere, perché chi ha provato o prova le gioie del condominio non ha bisogno di altri esempi.

Da alcuni anni i barbari ci stanno invadendo ancora, i partiti xenofobi trattano i nuovi arrivati esattamente come nelle grandi città del nord un tempo si trattavano i nostri connazionali del sud, e tutti ci rendiamo conto, se viviamo a contatto con queste persone, di quante analogie ci siano tra loro adesso e noi allora. Dovranno passare almeno un paio di generazioni prima che questa ondata di uomini e donne provenienti da altri Paesi si possa integrare, si civilizzi secondo i nostri parametri, capisca esattamente dove è arrivata, e nel frattempo le forze dell’egoismo ottuso o dell’accoglienza incondizionata si scontreranno, troveranno terreno fertile per le loro contrapposizioni nelle aree degradate del nostro Paese, sfrutteranno contro i più poveri la tragedia della crisi, mettendo gli ultimi contro i penultimi, dando a qualcuno colpe che non ha, perché, da sempre, noi abbiamo bisogno di un colpevole, di un capro espiatorio. Una riflessione non dico filosofica o antropologica, ma soltanto sulle mutazioni avvenute in noi stessi e nei nostri conoscenti negli ultimi 50 anni è troppo difficile da fare, studiando storia non ci si arriva mai, ed è più facile fare un po’ di sano razzismo.

                                                                     Silvano C.©


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