sabato 31 gennaio 2015

…ed io ricordo



Ed io ricordo Franco Parenti in teatro, con quella sua voce particolare, quella lingua strana, nella penombra, solo sul palcoscenico, in un monologo forse dell’Ambleto, ma di questo non sono certo. E poi, anni dopo, ricordo quando a lui venne intitolato un teatro, a Milano.

Anche Romolo Valli ricordo, poiché anche lui ho visto, e pure quando gli venne dedicato il teatro di Reggio Emilia. La fine di un’era, di un momento storico, che passa sulla vita dei singoli in modo diverso, ma è destinato a passare, come ogni cosa umana, perché è naturale sia così.

Quello che rimane e nessuno può rubare è il ricordo, la sensazione di aver preso parte a qualche cosa di importante, magari senza meriti personali ma solo perché le circostanze hanno fatto sì che ciò avvenisse.

Come poi fosse iniziata questa cosa è difficile da spiegare, eppure è quello che ora mi piace tentare di fare, per farmi capire della fortuna che ho avuto, non per vantarmene, che anzi io tendo ad essere vittima, a vedermi sempre perdente nel confronto con le altrui fortune.

Un amico iniziò a farmi apprezzare la musica jazz, io andai a qualche recita pomeridiana al Teatro Comunale di Ferrara, quello ora dedicato a Claudio Abbado, e nello stesso tempo entrai a far parte di un gruppo di amici che, il sabato sera, si ritrovavano per decidere quale film vedere assieme per trascorrere in modo piacevole la serata. Queste le premesse più importanti che mi portarono a ritrovarmi, per alcuni anni, impegnato nell’organizzazione di spedizioni culturali in tutta la provincia di Ferrara ed in quelle vicine, cioè quelle di Rovigo, Bologna, Modena e Reggio Emilia, sino a Verona. Se arrivava un nome noto in un piccolo teatro con uno spettacolo del quale, confesso, sino ad allora non avevo avuto informazioni, io mi mettevo al telefono e prenotavo per quanti erano interessati, poi organizzavo le auto, gli orari, e la spedizione poteva aver luogo. Ci riuscivo abbastanza bene. Credo che grazie a me alcuni abbiano trovato l’anima gemella, più interessati a questo che a Tino Buazzelli o a Vittorio Gassman. Io, in quelle circostanze, ho trovato solo amicizie, ma mi sono divertito da morire, ed è stata una scuola, letteralmente.

Allora muoversi in inverno era sempre una cosa pericolosa. Le nebbia era micidiale, eppure la fortuna mi aveva preso a ben volere, da questo punto di vista. Inoltre viaggiare mi piaceva e mi piace ancora oggi, anche se la nebbia ora la temo.

Poi, lentamente, come in ogni ciclo della vita, le cose mutarono. Il lavoro regolare, i tempi gestititi da impegni seri e non solo da attività meno vincolati e la stanchezza che cominciai ad avvertire la sera portò alla fine di quel momento unico. Feci ancora in tempo a vedere Enzo Jannacci, Ray Charles, Augusto Daolio ed una mitica rappresentazione di danza  Kathakali  ad Oriente Occidente prima di capire che io, le sera, mi addormentavo.

Quella volta che mi ritrovai addormentato in loggione allo Zandonai, nella speranza che nessuno accanto se ne fosse accorto, mi fece capire la realtà.

Ma io ricordo ancora, certo che ricordo, quelle persone che entravano ed uscivano dalla vita a volte in un attimo, lasciando solo un’impressione, altre volte segnandomi per sempre. E come si potrebbe non ricordare, con un senso di gratitudine?





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venerdì 30 gennaio 2015

Usato sicuro


A lui, a “Mono”, come lo chiamavano, sembrava una cosa naturale. Mica ci aveva prestato attenzione sino a quando, una mattina, forse per un discorso con un amico più strano di lui la sera prima, aveva realizzato questa bizzarra realtà. Per caso o per scelta, giunto alla soglia dei suoi quarantasette anni, aveva capito che non amava le novità che invece sembravano tanto attirare molte delle persone con le quali veniva in contatto.
Se un nuovo prodotto informatico veniva lanciato sul mercato lui si interessava, perché era curioso, ma poi soprassedeva, rimandava l’eventuale acquisto, valutava pregi e difetti, e quasi sempre concludeva che non ne aveva bisogno o che tra sei mesi, se ancora fosse rimasto nei suoi pensieri, lo avrebbe trovato a prezzi inferiori.
All’auto non avrebbe mai rinunciato, ma non gli interessava il modello più recente. La motorizzazione, l’allestimento, le prestazioni, erano uno specchietto per allodole, e lui allodola non si era mai sentito. Quando era costretto dalla situazione a cambiare l’auto cercava un modello di quella casa, se possibile, e poi puntava a qualche cosa di collaudato, ad un motore che avesse già una presenza sul mercato tale da confermare la sua validità o, dal suo punto di vista, che la casa produttrice avesse avuto modo di eliminare gli immancabili difetti dei modelli iniziali, dopo le prime impressioni dei clienti.
Con l’acquisto della casa si era comportato allo stesso modo. Non si era rivolto ad un’impresa costruttrice per un appartamento nuovo ma aveva guardato con calma cosa offriva il mercato dell’usato, aveva visto decine di offerte, di posizioni e di soluzioni. Poi aveva sospeso per quasi un anno, non trovando nulla di adatto sia alle sue esigenze che alle sue disponibilità. Quando poi si era rimesso in cerca era andato a colpo più sicuro. Aveva scartato subito molti grandi occasioni e si era concentrato su soli tre appartamenti. Una seconda visita poi lo aveva fatto decidere, e non si era poi mai pentito di quella scelta. Non era stata dettata dall’impulso del momento.
Stessa resistenza inconscia sentiva nei confronti di locali nuovi come ristoranti o bar. Si sentiva a suo agio e tornava volentieri solo dove era già stato. Una volta, nella città scaligera, chiusero un locale per evidenti problemi di igiene. Era oggettivamente una bettola squallida e lurida, ma tornandoci un giorno ci rimase malissimo nel vedere quel portone sprangato e quel cartello applicato sul legno dall’ufficio del Comune. Poi ovviamente andava pure in posti nuovi, o meglio, lo portavano. E da quel momento, per non si quale alchimia strana, spesso questi entravano nella sua cerchia di locali graditi.
Persona strana, “Mono”, che per sè non aveva mai comprato una bicicletta nuova e amava visitare località mai viste solo dopo che qualche amico gli aveva parlato dei posti.
Fedele a modo suo, nel senso che le altre le guardava ma poi non aveva alcuna voglia di buttarsi in avventure faticose, si era sposato dopo un breve e tardivo fidanzamento con una donna che gli piaceva, che lo aveva incuriosito e stimolato da subito, e che, come prova del nove del suo stile, aveva già avuto diverse esperienze con altri prima di mettersi con lui. E questo lo aveva giudicato del tutto normale, anzi, era pure curioso quando lei gli raccontava della sua vita passata.
Resta poco da aggiungere a questo ritratto brevissimo, solo la spiegazione del perché di quel soprannome. Da piccolo un problema aveva impedito la discesa di un testicolo nella sua sede naturale, ed ora nello scroto ne aveva uno solo. La notizia era trapelata in paese, ed il soprannome se lo era trovato appiccicato come una gomma abbandonata sul marciapiede che si attacca sotto la suola e non se ne vuole andare. “Mono” in ogni caso ha tre figli, quindi anche di questo non si preoccupa più da tempo.


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mercoledì 28 gennaio 2015

Il nome sbagliato



Annette Wolkowiczes dorme, nella sua stanza al quinto piano di un vecchio palazzo, in Rue Ternaux. È notte fonda, quasi l’alba del 16 luglio 1942. Viene svegliata da urla lontane, che all’inizio le fanno credere di sognare e di essere al parco a passeggiare e sentire i bambini che giocano. La sua stanza è separata dal resto dell’appartamento, ed è ricavata in uno spazio che all’inizio era stato pensato come soffitta. Il suo alloggio, del resto, da un anno, è stato affittato ad una famiglia di ebrei di origine polacca, e vi può tornare praticamente solo per usare il bagno, ma esclusivamente di giorno.

La posizione della sua stanza la salva. Quando apre la porta per guardare verso le scale la raggiungono grida disperate, ordini, rumore di porte sbattute e di passi veloci. Pensa di scendere a vedere, ma sente chiaramente una voce gridare che i poliziotti stanno cercando tutti gli ebrei che vivono nel quartiere, e dice di scappare. Lei lì non ha più nessuno di famiglia. Il vecchio padre ormai da tempo è in un paesino, al sud. Del fratello, fatto prigioniero durante i primi mesi di guerra, non sa più nulla. La madre, per sua fortuna, è morta anni prima. Non può vedere quello che succede.



La notte della grande retata lei si trova nella sua guardiola, e come le è stato ordinato controlla i movimenti di tutti quelli che entrano ed escono. Da almeno tre ore però è tutto calmo, e si è assopita sulla sedia quando si sveglia di soprassalto a causa del rumore dei due grossi autocarri e delle auto che si fermano esattamente davanti al suo palazzo. La signora Fusier non sopporta quegli invadenti ebrei, e quando un amico collaborazionista le ha detto che presto ci sarebbero state sorprese, anche nel suo palazzo, ha sperato che fosse esattamente questo, ed ora sta succedendo. Si alza, apre la porta della guardiola, e si mette a disposizione del militare che la raggiunge in meno di un minuto.



Volcots Annisette, questo nome risulta sul suo passaporto, ma il viso è il suo, e con questo documento si imbarca da Marsiglia per la Spagna. In Spagna rimarrà solo il tempo per trasferirsi in una diversa città ed aspettare il nuovo imbarco, stavolta per gli Stati Uniti. Ha avuto un aiuto insperato, ed un po’ di soldi, ma vive nel terrore di essere scoperta in ogni momento. Non ha potuto salvare il padre, però. Quando è scappata da Parigi, il 19 luglio, praticamente muovendosi come una ladra, il suo primo pensiero è stato per lui, e si è recata al sud. Troppo tardi. Anche in quello sperduto paesino erano arrivati i cacciatori di uomini, e pure lei avrebbe rischiato di essere loro preda se uno strano personaggio, probabilmente un falsario prima della guerra e sicuramente un uomo poco raccomandabile, non l’avesse fatta entrare in malo modo nella sua abitazione, un po’ ai margini del paesino, e poi non si fosse presentato come un amico di Pierre Wolkowiczes, suo padre.



Annisette attende la nipotina, Candy Bollow, davanti alla scuola del quartiere, e intanto pensa al mese successivo, quando, malgrado tutti la sconsiglino, intende fare un viaggio a Parigi, da sola, dopo oltre 38 anni da quella notte di luglio. Vuole rivedere quelle strade che con suo marito, Adrian, non ha potuto visitare, perché lui ha deciso di andarsene prima, per una neoplasia dal decorso rapidissimo. Nessuno, nemmeno lui, ha mai saputo della sua origine ebraica, e lei si è allontanata dalla fede dei suoi come un bisogno profondo di sopravvivenza, del quale inizia a provare una crescente vergogna, un senso di colpa che poco a poco la scava da dentro, e che vuole in qualche modo rimuovere, riscattare. Ma deve farlo da sola, deve prima capire, alla soglia dei suoi sessant’anni.



A Parigi si muove apparentemente senza una meta. I luoghi che le sembravano fissati indelebilmente nella mente in realtà sono cambiati, negli anni, e le risulta difficile associare un palazzo o un androne con il suo ricordo. Entra in un cafè restaurant situato nel suo antico arrondissement, chiede informazioni su un certo dottor Goldberg, che ha un ufficio nelle vicinanze, e poi, con il cuore in gola, si dirige dove le è stato indicato. Monsieur David G. le apre personalmente la porta del suo piccolo locale, è basso, magro, e con gli occhi curiosi. Sembra un topo con gli occhiali. Le fa poche domande per capire cosa desidera quella sconosciuta dallo strano accento americano, poi intuisce anche quanto lei non sa dire, e la fa entrare.



Due ore dopo leggono assieme, in un enorme registro pieno di nomi, date e destinazioni, che una certa Annette Wolkowiczes è stata catturata e deportata a Birkenau nel 1942, e che da quel luogo non ha più fatto ritorno. Annisette annuisce, sbianca visibilmente, non sa dire nulla, e tenta un improbabile ed improvviso impegno per allontanarsi da Goldberg senza ricevere ulteriori domande o dare spiegazioni. Lui non le chiede nulla però, si alza con cortesia subito dopo di lei e l’accompagna alla porta, invitandola tuttavia a tornare, se avesse avuto ancora bisogno di lui.



La sera stessa una donna col nome sbagliato è in volo su un aereo dell'Air France sulla rotta Parigi-Philadelphia, diretta a casa.

Immagine: Ebrei di Parigi vengono raccolti nel Velodromo d'inverno, nel luglio 1942, e poi deportati ad Auschwitz




                                                                       Silvano C.©


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martedì 27 gennaio 2015

Reputazione


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Col lavoro che ho svolto so bene cosa significa reputazione dal punto di vista dei rapporti umani e sociali, anche sui social ed, in genere, in rete.
Ho tentato a lungo di far riflettere poi i ragazzi sull’importanza della loro immagine affidata quasi per gioco a piattaforme sulle quali non hanno reali possibilità di controllo ma, semplicemente, di fornire sempre e solo nuovi dati e nuove informazioni sulla loro vita, sino ad arrivare, in alcuni tragici casi, addirittura all’autolesionismo o al bullismo.

Per gli adulti in grado di intendere e di volere la cosa è ancora più complessa, o forse solo diversa. Alcuni DEVONO stare in rete perché la loro attività ne ha bisogno, e devono farlo con nome, cognome, immagine e molte altre informazioni. Alcuni sfruttano in modo molto efficiente tale situazione a loro vantaggio, e sanno “vendersi” nel modo adatto alle loro finalità. Sanno usare le varie piattaforme come negozi virtuali dove il prodotto è offerto meglio che se avessero una vetrina sul corso.

Poi ci sono i milioni che stanno in rete senza un riscontro economico immediato, senza la vera necessità di vendere alcunché. Le mille motivazioni che spingono questi ultimi sono le più varie: narcisismo, amicizia, facilità di allacciare rapporti, miglioramento della propria visibilità per far conoscere posizioni personali, volontariato, partecipazione da casa al dibattito politico e su grandi temi di interesse sociale, informazione alternativa, semplice passatempo e , non ultima,  la produzione di bufale medianiche decisamente fuorvianti e depistanti.

Dentro questo vaso dove tutti stiamo alla rinfusa rimane una costante equamente suddivisa: la reputazione.
Quello che facciamo, scriviamo, diciamo di noi, anche se in forma anonima o semianonima, contribuisce a costruire una nostra immagine che è anche la nostra reputazione. E questo esattamente come avviene nel piccolo paese dove viviamo, e tutti sanno di noi ogni cosa, oppure sul posto di lavoro, o tra gli amici che vediamo. È la reputazione la moneta che spendiamo in rete, sul nostro sito, sul blog, sui social,  sulle piattaforme finalizzate alla presentazione professionale, su Wikipedia e pure su Youtube.
La reputazione è importante. Se fai l’idiota poi non lamentarti se ti ritrovi circondato da idioti. Se tocchi solo temi leggeri, se continui a cercare la lite e se diffondi cose discutibili non sperare che chi cerca altro non ti consideri un mentecatto digitale.


                                                                                   Silvano C.©

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lunedì 26 gennaio 2015

Una storia per la sera


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Ad ogni età della vita sono assegnati ruoli, ed ognuno di questi ruoli prevede la presenza o meno degli altri, in forme diverse.
Poi ci sono i luoghi comuni, quelli che vogliono alcune fasi più felici di altre, per definizione.
Fermandosi ad uno o pochi aspetti è ovvio che la sensazione muta, che si evolve, ma io non sono per nulla sicuro che durante la mia infanzia tutto fosse più facile di adesso, o che fossi più felice solo perché più giovane.

Tornavo a casa e la solitudine mi cadeva addosso come una coltre pesante, che fingevo di non vedere, di ritenerla naturale. Poi trovavo cose da fare, da pensare, e mi distraevo, oppure mi nascondevo, in modo da sparire al giudizio altrui, come se fosse sufficiente. Ero felice in quegli anni? Per nulla. Lo sarei stato in seguito? Direi di sì, senza esagerare, ma direi di sì. Con un senso della misura però, o di continua sensazione di dover perdere le conquiste, le persone, la stessa mia sicurezza.

Poi puntualmente le cose temute si materializzavano, ma non solo quelle, anche quelle sperate, ovviamente, in un intrigo abbastanza difficile da sciogliere, da valutare nel suo insieme.
E le persone attorno a me erano felici, lo sono? Credo in modo analogo. Qualcuno sa nascondere i propri pensieri, si mostra nel solo suo lato pubblico, usa una maschera perfetta. Altri sono più trasparenti e non nascondono i problemi, ma tutti vivono situazioni che non posso definire perfette.
A volte ho persino l’impressione, non essendo io direttamente coinvolto, che la soluzione per loro sarebbe a portata di mano, che basterebbe poco per raggiungerla. Che pia illusione. Se fosse vero dovrei poter applicare pure a me la stessa formula, avere cioè il potere di modificare ciò che tocco.

Allora ti racconto una storia, brevissima, che vorrebbe racchiudere un possibile segreto.
Dopo una giornata lunga, magari con problemi o faticosa, pian piano viene la sera. So di un uomo che con la sera poco a poco capisce che quanto ha fatto è ormai fatto, che i giochi si sono conclusi, che non ha altro da aggiungere, e che può riposare, ormai. A volte sa di aver commesso errori, ma li ha commessi. Altre volte è consapevole che non ha finito un lavoro, ma ormai non può più finirlo. Ogni tanto è soddisfatto di quanto ha realizzato, o di quanto ha detto o fatto, di quello che ha ottenuto o dato. Ed anche questo è ormai successo. È arrivata la sera. Ora può finalmente stare tranquillo, e, solitamente, è più tranquillo.


                                                                                   Silvano C.©

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domenica 25 gennaio 2015

Vento


Folata di vento - Jean-Baptiste Camille Corot
Soffia un vento forte, da nord, che trova angoli nascosti per entrare in casa anche se ogni porta ed ogni finestra  sono chiuse.
Ha un nome, quel vento, ma non so se lui lo sa, ne ho seri dubbi.
Lui pensa a soffiare, a passare con forza sopra ogni cosa, a portare freddo e a pulire l’aria. Stanotte, grazie a lui, il cielo sarà più limpido del solito, si vedranno meglio le stelle e, dove sarà giusto, gelerà.

Il vento, dove soffia spesso, dicono faccia anche un po’ impazzire le persone, oppure le renda più nervose. Forse è vero, non ne ho prove certe. Nei luoghi dove vivo solitamente il vento non è una costante della natura, è un’eccezione, eppure tanto sano di mente non sono.

Col vento secondo me loro passano a trovarmi, quelli, quelli che pensi tu. Ne approfittano del trambusto per mimetizzarsi, per tornare a vedere, giusto un attimo, il tempo di una folata, per portare qualche cosa, forse solo un ricordo, forse un sorriso, forse un pianto.

Poi, improvvisamente, il vento cala, senza avvisare, torna la pace di prima e restano solo i segni del suo passaggio. Qualche cartaccia sparsa, un ramo spezzato, una piccola tegola spostata. La vita riprende naturalmente, il ciclo continua, si ripensa a lunedì, col suo carico di pensieri, che lui non ha portato via con sé.





                                                                                   Silvano C.©

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sabato 24 gennaio 2015

Scrivere non è più una virtù


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Forse non lo è mai stato, o forse solo per pochi grandissimi, irraggiungibili. Saper scrivere, come leggere e far di conto è tutta un’altra questione, e fa parte del bagaglio minimo di competenze richieste per il vivere ed il partecipare civile. Ma non confondiamo una presentazione personale per trovare lavoro o un verbale condominiale con la scrittura che trasmette emozione e cultura, che matura, che aiuta la società intera a riflettere e a crescere.
Anche notissimi autori di oggi che leggo, lo ammetto, non appartengono alla schiera dei grandi. Scrivono bene ma trasmettono piccole emozioni. Intrattengono ma oltre non vanno. E sorvolo sulla paccottiglia prodotta dai tanti personaggi baciati dalla notorietà che vomitano le loro immense idiozie ben confezionate ma vuote più dello spazio cosmico. Se mi regalano un libro di quest’ultimo tipo mi offendo, la prendo molto male.
Leggere un libro non è mai piacevole. Se lo è probabilmente è un libro sbagliato. Oppure stiamo solo illudendoci di leggere mentre invece ci stiamo banalmente facendo rassicurare nelle nostre convinzioni, cerchiamo citazioni colte da usare a sostegno di quanto già sappiamo. Guadagno zero, insomma, escludendo quelli economici e professionali di autore ed editore.
Io, che scrittore non sono, non sono in grado di sconvolgere il mondo con quello che scrivo. Se potessi sarei uno scrittore.

Scrivere è una virtù, che è dote riservata a ben pochi, non alla maggioranza. Quindi per quasi tutti non è una virtù, ma un bisogno di dire cose, un’esigenza insomma, a volte pure dettata da spinte abbastanza discutibili, come narcisismo, bisogno di guadagno, rispetto di impegni, sfogo di istinti, presenzialismo, mancanza di generosità e così continuando.
Trovare il nuovo libro di un autore che ho contribuito ad arricchire mi fa ritrovare le parole consolatorie di un amico che mi blandisce, non la sferzata brusca di un maestro che mi corregge. Quello però non vende. O se vende, ed è famoso, spesso non è letto. Fa tendenza avere certi titoli in libreria, basta averli. Un po’ come dipingerseli addosso, insomma. Epidermicamente.

E poi chi scrive, legge? Non ho alcun dubbio che quasi ogni cosa sia già stata detta. È praticamente impossibile non plagiare almeno in parte altri autori. O addirittura sé stessi, colmo dell’ironia o dell’inganno consapevole.
Io vorrei che alcune persone che hanno cose da dire, che scrivono bene e che potrebbero trovare lettori venissero aiutate in questo mondo dove i giovani trovano ogni porta chiusa, bloccata dall’interno da chi è solo arrivato prima e non intende mollare la sua posizione di rendita. Che tristezza, e che rabbia, leggendo di editoria puttana e di concorsi letterari truffa. Si salvano alcuni blog, dove esiste ancora la possibilità di mostrarsi, sperimentare, tentare di farsi conoscere. Io alcuni di questi li seguo. Non tutti. Alcuni autori non scriveranno forse per virtù, ma con onestà sì. E questa mi basta.

                                                                                   Silvano C.©

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venerdì 23 gennaio 2015

È un fatto personale



È sempre un fatto personale.
Nella migliore delle ipotesi vieni escluso in seguito ad un selezione corretta e meritocratica. Non perché non sei il figlio del Dottor X, e neppure perché non hai pagato. Vieni escluso esattamente perché tu non sei all’altezza. Mi ricordi qualcosa di più deprimente e personalmente  più destabilizzante che il non essere scelti esattamente per un giusto ed equilibrato motivo? Non ti restano scuse da accampare come “quello aveva più conoscenze” oppure “lei ci è andata a letto”. Sei tu come persona che non vai.

In una discussione ti viene detto “Nessuno ti dà lezione... leggi bene prima di valutare…”, e tu ovviamente non replichi, perché la lezione è chiaro che ti viene data, quella era esattamente l’intenzione ben poco nascosta dell’interlocutore, che arriva a dirti esplicitamente che non capisci nulla e non sai neppure leggere quello che lui intendeva dire. Sai anche però che non ne vale la pena, che nella sostanza tu puoi aver pure torto, e che ciò che in realtà non puoi esprimere è che lui è semplicemente un maleducato, e che le cose si possono dire in modo diverso da quello usato. E poi ti arrabbi pure con te stesso, perché ti rendi conto che hai usato parole che avresti dovuto evitare, che sai da sempre che non si deve mai abboccare alle provocazioni, e le giustificazioni servono a poco. Hai sbagliato a replicare in quel momento, senza aspettare di recuperare un po’ di lucidità, tutto qui. Lui è un maleducato, ma tu sei un pirla.

È un fatto personale se tenti di far capire che stavi solo scherzando e che vieni frainteso nelle tue intenzioni. Significa che sino a quel momento ogni tua azione ed ogni tua parola è stata letta in modo distorto, anche quando riceveva qualche sorriso di apparente condivisione. Più personale che il rendersi finalmente conto di non aver contato quasi nulla, di essere stato anzi una sorta di ostacolo per la realizzazione di una visione diversa dalla tua mi sai dire se ti viene in mente qualche cosa?

È sempre una motivazione di questo genere che fa trovare amici, o li fa perdere quando manca una spinta abbastanza equilibrata: il fatto personale.

Proseguendo nel ragionamento poi arrivi facilmente molto avanti, in una sorta di terra di nessuno nella quale è impossibile non sentirsi perseguitati o malvisti almeno da una buona percentuale di tutti quelli che incontri in strada e non ti conoscono neppure. A quel punto forse è meglio se ti fermi, rifletti e valuti seriamente cosa è veramente importante sul piano personale. Il resto, tutto quanto scritto prima, ora decidi tu come considerarlo.

                                                                                   Silvano C.©

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giovedì 22 gennaio 2015

La favola


A volte è un bisogno profondo, altre volte è un semplice caso che riporta la memoria tanto indietro. E se la memoria ricorda, significa che trova qualche cosa che ne vale la pena, che continua a rimanere, magari sotto le stratificazioni di una vita formate da impulsi sessuali, frustrazioni, grandi sogni e progetti realizzati in parte sì ed in parte no, perdita dell’innocenza e tentativo di recuperarla.

Mio nonno se n’è andato tanti anni fa. È stato il primo a lasciarmi della mia vecchia famiglia, quando io stavo per formarmi la mia nuova, allontanandomi senza però mai sciogliere veramente quei legami, in una posizione che oggi, a ben vedere, poteva sembrare ambigua, e che è stata pure male interpretata, ma che, dentro di me, non ha mai avuto dubbi o ripensamenti su alcuni temi.
Se tento di andare con la mente all’infanzia è impossibile raggiungere quelle sensazioni che oggi mi rendono debitore, e ricavo solo frammenti di discorsi, lezioni a loro modo esemplari, e poi una lenta e progressiva perdita di dignità, inaccettabile, che non posso né voglio spiegare.
Le cose peggiori, che feriscono di più, avvengono in famiglia. Quello che all’inizio è il luogo dove si è accettati sempre e comunque diviene altro, e si diventa per forza complici, anche solo per omissione.
Non so neppure se serve il tentativo di ora, che effetti può produrre.
Preferisco semplicemente fermarmi a quando, mio nonno, tenendomi sulle ginocchia, mi raccontava quella favola, proprio quella, con le parole precise scandite allo stesso modo di sempre, ed io aspettavo la fine, conoscendola ma trovandola sempre nuova.

    
                                                                                   Silvano C.©

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lunedì 19 gennaio 2015

L’immobile


In senso stretto, nell’uso corrente, come s. m., “edificio o parte di esso”, come si legge nel Vocabolario on line della Treccani.
Questo è esattamente il significato che mi interessa, ora.
Case di Amsterdam
In senso lato, casa. Casa legata al suolo, ovviamente, ad una terra, legame con la terra, con la propria terra, di nascita o di adozione. Nello specifico personale non tanto inteso come valore legato al mercato, o come bene da tassare, come ogni altro bene, del resto, bensì come bene affettivo.
Non è necessariamente di proprietà, e si può vendere, senza spezzare in modo completo, mai, i legami che ci legano a quello spazio fisico.
Se penso alla vita dei miei, che è ruotata praticamente sempre attorno ad una casa da sentire propria, per la quale fare sacrifici enormi, da lasciare in qualche modo come estremo regalo a chi resta, mi riesce difficile essere obiettivo e distaccato. Sono figlio di quei genitori, ne ho ereditato una forma mentale con pregi e difetti, non ne posso fare a meno, e non mi interessa neppure farne a meno. A loro sono semplicemente grato, per quanto mi hanno trasmesso. E per quanto hanno fatto.
Di case ne ho vissute tante, alcune perse e confuse nel tempo, tanto che mi ricordo solo vagamente di loro. Altre attuali, pur se non più a mia disposizione. In quella sono caduto dalle scale in modo rovinoso, nell’altra stavo parlando con qualcuno quando mi sono girato di scatto ed ho sbattuto violentemente la testa ad un muro, che era li da sempre. E poi la vita, che è trascorsa, le gioie e le litigate folli, l’investimento emotivo a volte esagerato, i cattivi affari ed i fallimenti immobiliari, il terremoto, la famiglia che si trasforma, le persone che vanno via per sempre lasciando però la loro presenza, muta ma fortissima.
Eppure si tratta pur sempre di cose, oggetti materiali, contenitori di altri oggetti e di persone. E animali. Ricordo un paio di criceti, qualche canarino, pochi pesci rossi, e molti gatti, che facevano parte della famiglia, i gatti prima di tutti.

Quando passeggio, dove mi capita di essere, guardo sempre le case degli altri. Ammiro i praticelli ben tenuti, gli alberi che fanno ombra in estate, le imposte curate e dipinte secondo la tradizione locale. E anche le grandi costruzioni, enormi alveari, con mille piccole finestre dalle luci che si accedono e si spengono secondo una logica tutta loro. E invidio le ricche ville di chi può permettersele, ma pure la felicità di chi vive in un piccolo appartamento in affitto, il primo di una conquistata indipendenza.
E mi spiace per chi perde la sua casa o per chi non l’ha mai avuta. Non è giusto. Troppo dipende da un proprio spazio per potervi rinunciare a cuor leggero, la stessa dignità ne ha bisogno, e morire nella propria casa è, in fondo, un grande privilegio.
                                                                                   Silvano C.©

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domenica 18 gennaio 2015

UMIM - unico maschio italiano medio

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Venia imploro prima ancor d’iniziare, nessun si senta costui, seppur io un po’ lo sono. Se tu ti ci vedi, non è mia colpa, e se non è, ne son ben lieto.

A cosa pensa un maschio italiano medio, in ordine di importanza decrescente? Risposta impossibile da dare in modo serio, perché questo dipende da età, grado di istruzione, condizione sociale e lavorativa, stato civile, esperienze e stato di salute. Potrei aggiungere altre variabili, ovviamente, ma mi sento di affermare che in uno dei primi dieci posti c’è “figa”. È politicamente scorretto? Indubbiamente. Dimentico le diverse inclinazioni sessuali, tutte a pari dignità, ovviamente. Ma superando o ignorando questa osservazione, si ritorna al tema del sesso, in senso lato e in tutte le sue espressioni e realtà.
È quello che ha in testa l’italiano medio.
Qualcuno è maggiormente soddisfatto, in questo, perché ottiene più facilmente quanto desidera. Qualcun altro molto meno, visto che non ha capito, non sa come, non è adatto. Quanto dolore inutile e sublimato o trasformato in odio. Oppure buon senso della misura, attese commisurate alle proprie possibilità. O ancora fame continua, irrefrenabile, che consuma le persone, divenute oggetti.
Io sono anche il mio culo. A mia volta sono pure io un oggetto, e in certe situazioni mica me ne dispiace. Quindi il culo lo guardo, a mia volta. Cosa c’è di sbagliato in questo?

Dopo anni passati assieme, magari con figli grandi, un’altra donna più giovane attira di più, è chiaro. Lei offre ciò che la moglie non può più. E l’amante, pure lei, perché no se capita un’occasione magari neppure cercata? Poi ci sono quelle che si vendono, senza problemi emotivi, solo per un bisogno occasionale, del tutto naturale. E che c’è di male?
Ora la rete, con mille offerte, incontri virtuali, che possono diventare reali, e ancora il porno, per il quale neppure devi faticare, non devi discutere, neppure convincere. È il sesso dei poveri, che non si nega a nessun maschio medio, quando è solo.

E poi tante altre situazioni, che puoi benissimo immaginare, o ricordi da recuperare, o fantasie, da realizzare, tante da non poter neppure contare.

Ma non c’è solo il maschio italiano medio che si può trovare, ne sono sicuro, non c’è un unico modello, basta cambiare negozio, trovare altre offerte, cercare altrove, e non accontentarsi. Vivere un’intera vita in modo diverso l’ho visto, si può fare, senza attraversare il mare.

                                                                                   Silvano C.©

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sabato 17 gennaio 2015

Il mago


Quando gira in bicicletta per le vie della città passa quasi del tutto inosservato. Non che sia trasparente, no, semplicemente si mimetizza molto bene, è anonimo, non si fa notare sia nel modo di fare che di vestire. E poi ha smesso da tempo di vedere assiduamente le persone che frequentava, quelle che in gioventù e anche dopo gli riempivano le giornate, gli offrivano impegni e scadenze, gli davano un senso.
Quel senso non è del tutto dimenticato, è rimasto sottotraccia, come se dovesse dargli un filo ideale da seguire, ma non si impone più così vincolante com’era anni prima.

Guarda un angolo della città rimasto per miracolo praticamente inalterato, e, di fianco, un edificio in vetrocemento, con le vetrine di alcuni negozi in parte nascoste da grandi fogli di carta appiccicate dall’interno. La crisi colpisce duro, impone le sue regole spietate, e per ora sente poche parole ottimiste quando gli capita di rubare le conversazioni degli altri.
Se di una cosa non si vergogna è quella di ascoltare ciò che gli altri si dicono. Non si dovrebbe, ma non fa male a nessuno. E con nessuno poi usa a suo favore o contro altri le informazioni, i pettegolezzi o le confidenze che casualmente arrivano alle sue orecchie. Semplicemente se ne nutre, ne ha bisogno, ha bisogno di vita. E la vita la ruba in questo modo.

Inutile dire che ha sviluppato un senso dell’udito molto raffinato ed acuto, e anche mille diverse tecniche per avvicinarsi a chi parla senza far assolutamente sospettare che lui sta ascoltando. Quando si muove in bicicletta sa destreggiarsi tra pedoni, altre biciclette ed automezzi. Quando invece cammina a piedi è molto veloce nei tratti isolati e lentissimo se incrocia, segue o è seguito da qualcuno. È camminando a piedi o sedendo in posti pubblici che lui va a caccia.

Due ragazze si parlano di una serata noiosissima, e di alcuni amici che si sono rivelati una delusione. Tre uomini ad un tavolino si sfogano bestemmiando contro chi fa arrivare gli immigrati, che se fosse per loro saprebbero come fare. Un venditore spiega come è disposto un appartamento ad un possibile acquirente, e gli indica le finestre dalla strada, prima di salire per la visita. Due parlano di tanti soldi, che c’è stato un problema, che per ora sono in un bidone, ma che non possono avvicinarsi, sono controllati. Rischiano troppo. Ma il bidone dov’è? Ma è quello, dietro la colonna, idiota, stai calmo. Una donna con una mini notevole e due gambe bellissime appena velate da calze scure manda a quel paese, al cellulare, presumibilmente un uomo, e lo riempie di insulti.

Lui senza nessuna fretta si muove nella piazza, si avvicina alla colonna, vede il bidone e, al suo interno, una busta scura di medie dimensioni. È un attimo, e la busta è prima nelle sue mani e poi infilata in una borsa pieghevole che porta sempre con sé, utilissima quando deve comprare qualche cosa e poi portarsela a casa in bicicletta. Le nuove borse di plastica biodegradabile non resistono ai pesi, e lui puntualmente le rifiuta quando gli vengono offerte. 

Si allontana dalla colonna, non si gira e non si guarda attorno, sparisce dietro un edificio e poi si infila in una libreria con doppia entrata. Per oltre dieci minuti controlla attraverso le vetrine i movimenti all’esterno. I due che prima ha ascoltato non si vedono. E neppure nota altri che guardino la libreria, né vicini né lontani.
Si rilassa e finalmente mette le mani nella sua borsa per controllare il contenuto di quella busta misteriosa.
È quella della quale parlavano, è chiaro. Contiene banconote di grosso taglio. La borsa gli sfugge dalle mani ma non esce nulla, e lui la raccoglie, nell’indifferenza dei pochi che guardano copertine e sfogliano libri e riviste.

Lentamente, e stavolta guardandosi ogni tanto dietro le spalle fingendo di osservare le vetrine, raggiunge la sua bicicletta e in un attimo apre due lucchetti e già pedala verso il centro. La borsa la tiene nel cestino anteriore, senza perderla di vista, e si dedica ad un lunghissimo giro per vie principali e secondarie. Impossibile seguirlo senza che lui non se ne renda conto. Non a piedi, certamente, ma neppure in bicicletta o con altri mezzi. Nessuno lo ha notato, ne è certo. Ora è il momento di andare a casa, nel suo appartamento dove vive da solo ormai da 9 anni, e solo a casa avrà il coraggio di guardare cosa ha preso in quel bidone.

Trecentoventisettemilaquattrocentocinquanta Euro occupano pochissimo spazio se in banconote di grosso taglio. Ecco come portano i capitali all’estero, pensa.
Sono le undici di mattina. Non ha fame. Gli è passata. Guarda in strada, e non vede nulla di nuovo. Nessun volto sospetto. Nessuno lo ha seguito. Quei due erano malviventi, è chiaro, inseguiti da altri di un’altra banda o dalla polizia. E quei soldi sono presumibilmente frutto di traffici non molto leciti, sono tanti, ma non abbastanza importanti da far rischiare i due di tenerseli addosso. Ecco cosa deve essere successo. Quelli sono soldi sporchi. Dovrebbe andare alla polizia. Per ora deve pensarci. Deve capire. Poi ci andrà. Va nella dispensa, in basso, dove tiene le poche bottiglie di vino che possiede. Afferra la prima che sta davanti: Sangiovese. Va bene il Sangiovese. Apre e se ne versa un bicchiere che beve d’un fiato. Si siede al tavolo, versa un altro bicchiere, e pure quello lo beve come acqua fresca.
Poi si sposta. Si accomoda in poltrona. Pensa. Chiude gli occhi e la mente si perde, e parte.

Giulia gli sorride, nella bellezza dei sui trent’anni, lo guarda con l’aria furbetta che aveva quando si erano conosciuti, quando per prenderlo in giro si alzava la gonna davanti a lui, oppure quando litigava, e diventava una vipera incontenibile, e poi ancora, nelle lunghe vacanze dei loro anni migliori, in giro per il mondo.  E anche negli ultimi giorni, quando ormai non parlava più, in coma irreversibile, ma sempre viva, accanto a lui. Ora gli sta davanti, in piedi, è sicuramente lei, non un sogno, anche se ha il sole di fronte e non la vede molto bene.
“Tu mi raccontavi che da ragazzino volevi fare il mago, stupire, cambiare le cose sbagliate in cose giuste, un po’ illusionista ed un po’ Don Chisciotte, perché il coraggio di Robin Hood non l’hai mai avuto. Ora ne hai l’occasione. Non serve andare alla polizia. Tu sai ascoltare molto bene i discorsi degli altri, vero? Quindi sai già cosa devi fare…”

Quando apre gli occhi di soprassalto si rende conto che si è addormentato, e che il Sangiovese ha fatto la sua parte. Ha la testa un po’ pesante, ma ora sente fame, ed ha le idee più chiare. Apre un sacchetto di grissini e si taglia qualche fetta di salame. Mangia e comincia a realizzare che ha tanti soldi, troppi per le sue esigenze. Mangia in fretta, vuole uscire di nuovo, ha bisogno di aria fresca.

Cammina verso il centro. Ascolta. Vede i segni di tante cose che non vanno. Adesso ignora i discorsi di chi è arrabbiato. Si compiace della gioia che avverte nelle parole di alcuni giovani, e se ne alimenta come prima ha fatto con pane e salame.
Poi sente due donne, che parlano piano. Una delle due racconta all’altra che il marito è stato di recente lasciato a casa dalla ditta trasporti per la quale lavorava. Due anni senza stipendio in attesa della pensione. Non ce la fanno quasi più. Lui è depresso, e lei piange quasi tutto il giorno.
Il mago, quando le due donne si separano, segue discretamente quella che raccontava, e scopre dove abita.
Nei prossimi giorni cercherà di capire qual è la sua cassetta della posta tra le quattro unite, sul portone. Poi si esibirà nel suo primo gioco di magia.

                                                                                   Silvano C.©

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venerdì 16 gennaio 2015

Una volta


Informativa sulla privacy
Una volta il telefono era quello, se eri fortunato, solo quello. Non c’era scelta, nessuna. Se volevi il telefono in casa, e te lo potevi permettere, ti affidavi alla sola società che forniva il servizio. Tutto semplice. Poi sono cambiate tante cose.



Una volta la posta ti veniva recapitata dal postino, sempre quello, un volto noto e che negli anni diventava un’istituzione, un amico. Non di rado a Natale gli si faceva un regalo. Era tradizione farlo. Poi sono cambiate tante cose.



Una volta hanno eliminato dai treni la terza classe, e finalmente si è cominciato a  viaggiare solo in prima o in seconda. Sembrava un’ondata di democrazia e di riduzione dei privilegi. Poi sono cambiate tante cose.



Una volta il signor dottore, il signor farmacista, il comandante dei carabinieri, il signor sindaco, il signor maestro ed il signor curato erano le quasi sole autorità riconosciute nei piccoli centri. Poi sono cambiate tante cose.

Sono cambiate tantissime cose, è naturale che sia successo, alcune in meglio, altre in peggio, ed era impossibile mantenere la situazione com’era in quegli anni densi, infatti, di cambiamenti e speranze.
Le condizioni di salute ed istruzione sono migliorate, le opportunità sono cresciute, sino al raggiungimento di un apice, e poi è iniziato il processo inverso. Il concetto di Stato, mai troppo forte in Italia, si è indebolito. Ha iniziato a prevalere il privato sul pubblico, l’interesse del politico a curare prima i propri affari (o quelli del proprio partito) e, solo dopo, quelli della comunità. La ricchezza, sempre esistita, è diventata più volgare ed esibita, quasi mai condivisa però. La differenza tra ceti sociali che si stava riducendo ha ricominciato ad aumentare. La furbizia diffusa, troppo diffusa, anche tra gli insospettabili, ha accelerato il processo ed ora, per dirla francamente, è difficile trovare innocenti, figli di innocenti, non amici e complici di chi innocente non è.
Pagare le tasse è sempre stato un optional, sia chiaro, e chi poteva ha sempre evitato di dichiarare al fisco ogni guadagno. Ma l’economia sembrava assorbire, in anni di crescita, questo danno. Era falso, ovviamente, perché il debito pubblico aumentava, sino ad indebitare i nostri discendenti, ma si pensava che non fosse tanto grave. Ora che il danno è fatto si potrebbe tentare di non aggravarlo, senza mitizzare ere mai esistite di onestà, semplicemente tentando di imitare le democrazie più evolute della nostra, quelle del nord europeo. Ma quelle, dimenticavo, hanno un’etica, anche religiosa, molto più laica della nostra, che accusiamo il peccato, mai il peccatore.

  
                           Marcello Mastroianni e il Quartetto Cetra - Un Disco dei Platters
                                                                                       
                                                                                   Silvano C.©


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giovedì 15 gennaio 2015

Cosa diranno


Cosa diranno, e, principalmente, cosa faranno, che reazioni avranno?
Nel mescolarsi di idee, posizioni e commenti, non si trova in nessun luogo, in nessun gruppo organizzato, una certezza, un punto fermo.
Il mondo del possibile perché anche solo immaginato a volte è un semplice annuncio pubblicitario per vendere caffè o un’automobile, ma altre volte è realmente la realtà che diventa tale solo perché una mente geniale o malata (o entrambe) l’ha pensata.
Per non offendere nessuno, come alcuni chiedono apparentemente in modo ragionevole, occorrerebbe tacere, e neppure scrivere. Poi bisognerebbe magari non leggere o non studiare, accettare semplicemente ciò che è stato deciso altrove, senza una logica apparente, o anche solo dettata dal banale buon senso.

In tempi di grandi mutamenti, di problematiche che esaltano le responsabilità che le hanno generate, di ipocrisie viste sempre e solo nel comportamento altrui, mai nel nostro, come se esistesse al mondo veramente una donna o un uomo non contraddittori, c’è da sedersi ed aspettare, che passi, questa ondata di piena, possibilmente e sperabilmente senza troppi danni, o almeno con danni riparabili.
Se io ho problemi di salute perché mangio troppo mentre qualcuno muore di fame esiste una colpa generalizzata mostruosamente grande, e cercare di stare solo con i propri pari, con i correligionari, con chi ha lo stesso censo, con chi condivide le stesse idee politiche, le stesse illusioni e fanatismi, escludendo chiunque altro, non estingue la colpa, ma semplicemente la nasconde.
E poi ci sono coloro che tentano una sintesi, evitano lo scontro, mediano soluzioni, ammettono di essere in cerca e, verosimilmente, vivono molto male la situazione nella quale sono costretti a restare, pur tentando di cambiarla.
In ogni caso se si ha fame, sete, se si è malati, se non si sono soddisfatti alcuni bisogni elementari, o si è anche solo stanchi, non si ragiona liberamente, e manca la lucidità necessaria.

Ed allora cosa diranno gli altri? Cosa faranno? Che effetti avranno le nostre azioni o i nostri silenzi?
Lo sforzo di individuare anche un solo luogo comune al mese e di combatterlo potrebbe essere un buon motivo per vivere, in fondo. Magari a pochi interesserà, o forse potrà essere ritenuto riduttivo, eppure è il regalo più bello che potremmo fare a noi stessi. Iniziare a cambiarci, almeno un poco, forse provvisoriamente (chi può dirlo?).
Magari potrebbe essere una cosa pericolosa, trasmissibile per via orale.

                                                                                 Silvano C.©



 
Balada para los poetas andaluces de hoy

¿Qué cantan los poetas andaluces de ahora?
¿Qué miran los poetas andaluces de ahora?
¿Qué sienten los poetas andaluces de ahora?

Cantan con voz de hombre, ¿pero dónde están los hombres?
con ojos de hombre miran, ¿pero dónde los hombres?
con pecho de hombre sienten, ¿pero dónde los hombres?

Cantan, y cuando cantan parece que están solos.
Miran, y cuando miran parece que están solos.
Sienten, y cuando sienten parecen que están solos.

¿Es que ya Andalucía se ha quedado sin nadie?
¿Es que acaso en los montes andaluces no hay nadie?
¿Qué en los mares y campos andaluces no hay nadie?

¿No habrá ya quien responda a la voz del poeta?
¿Quién mire al corazón sin muros del poeta?
¿Tantas cosas han muerto que no hay más que el poeta?

Cantad alto. Oiréis que oyen otros oidos.
Mirad alto. Veréis que miran otros ojos.
Latid alto. Sabréis que palpita otra sangre.

No es más hondo el poeta en su oscuro subsuelo encerrado
Su canto asciende a más profundo
Cuando, abierto en el aire, ya es de todos los hombres.

Rafael Alberti Merello
                                     

( La riproduzione è riservata ma non c'è nessun problema se si cita la fonte, grazie)

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