Avevamo un orto per le
verdure da consumare in casa. Allevavamo alcune galline e conigli, anche un
maiale. Niente di più, perché non c’era neppure il bagno, in casa, ma avevamo
un cesso, fuori, in comune.
Poche stanze in una casa in
campagna che assieme a poche altre costruzioni racchiudeva un cortile, senza
terra oltre all’orto, e neppure casa nostra, ma in affitto. Una grande stanza
cucina-soggiorno con l’immancabile enorme camino. E altre due stanze in tutto.
Eppure mi sembrava tutto
normale, era normale. I più ricchi avevano case più belle, ovviamente, ma i
miei lavoravano tutti, genitori e nonni materni, ed avevano aspirazioni di
migliorare le loro condizioni di vita. Per me in effetti la vita è stata un
lento processo di superamento di antiche barriere, è stato un inserimento in un
mondo che aveva spazio pure per me. Ed allora non ne avevo alcun dubbio.
Ognuno aveva un ruolo.
Nessuno veniva isolato, non esisteva il portatore di handicap, ma solo la
persona che faceva lavori un po’ meno di responsabilità, ma che contribuiva al
bilancio familiare, come tutti.
In un certo periodo
dell’anno i miei andavano a comprare il maialino, e un paio di volte mi hanno
portato. Il commerciante teneva questi piccoli animaletti in un recinto pieno
di paglia, e noi potevamo scegliere quello che volevamo, poi i grandi si
mettevano d’accordo sul prezzo e si tornava a casa con il nuovo acquisto.
Da quel momento ogni residuo
di cibo in cucina, unito a crusca, foglie di barbabietole, ortaggi scadenti
dell’orto e tutto quanto potesse servire a fare il “pastone” era destinato al
maiale.
Per mesi e mesi, nel
porcile, un po’ al chiuso ed un po’ in un piccolo recinto, questo animale
cresceva. Ad un certo momento diventava rischioso avvicinarsi troppo, ed i miei
non si fidavano a farmelo toccare quando aveva raggiunto una certa dimensione.
Io lo vedevo mangiare
rapidamente ogni cosa che gli veniva offerta, ma mia nonna faceva attenzione a
non dargli nulla che lo facesse ammalare. Sarebbe stato un dramma.
E poi veniva il giorno della
macellazione, verso la fine dell’autunno, mi pare, o in inverno.
Il macellaio era chiamato
per l’occasione, con altre persone che io non avevo mai visto prima. Aveva
coltelli lunghi ed affilati, che teneva avvolti in una specie di borsa di
cuoio.
Il maiale veniva fatto uscire
dal porcile, e confinato in un angolo del cortile. Io ero tenuto in disparte,
ma mi arrivavano gli strilli altissimi del maiale, mentre veniva bloccato e poi
ucciso da pochi colpi del macellaio. Pochi minuti, e per il povero animale era
tutto finito.
Gli uomini allora lo
appendevano per le zampe posteriori, le donne buttavano sul suo corpo acqua
bollente per pulirlo, anche con le brusche. L’odore umido di morte si
diffondeva. Poi veniva sgozzato ed il sangue raccolto. Sempre le donne lo
rasavano, per tagliare i peli ispidi, poi il macellaio e gli aiutanti
iniziavano a squartare la bestia, raccogliendo prima le interiora, e poi la
testa, e poi ogni parte veniva separata dal resto, con una sapienza antica.
Tutti avevano un compito, ed ogni parte del maiale serviva per uno scopo
preciso. Lavoravano per un giorno intero, per produrre prosciutti e salami,
pancetta e coppa, ciccioli e lardo, salcicce, cotechini e salamine, in un
vorticare di macchine per macinare e spezie, su tutte il pepe, e tanto sale.
Verso sera, a lavori
ultimati, si faceva una grande cena con le parti meno conservabili del maiale,
ed erano puntine e patate fritte in quantità, e vino rosso che scorreva come
raramente mi capitava di vedere. Poi quelli che avevano aiutato se ne andavano,
dopo aver ripulito un po’, portando via con sé ognuno qualche insaccato o
qualche parte del maiale ormai pronta per essere conservata, per i mesi che
sarebbero venuti.
Non c’era pietà forse, per
gli animali, ma neppure per persone, in quegli anni. Si lavorava sotto il sole
estivo per ore, e si moriva giovani.
Silvano C.©( La riproduzione è riservata. Ma non c'è nessun problema se si cita la fonte. Grazie)
grazie del segno che mi hai lasciato, Francesco. ciao. Silvano
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