Quando il Landini era solo un trattore
Tutto avveniva in giorni di
sudore e fatica, col sole che bruciava la pelle e faceva ardere la gola di
sete, col lavoro che distruggeva, ma che per me, ancora piccolo, erano giorni
di giochi e di novità. Io guardavo i grandi che lavoravano, e mi portavano in
campagna con loro, ma poi mi lasciavano la libertà di muovermi e guardarmi
attorno.
Il frumento andava prima
tagliato, con le macchine dove si arrivava, ma a mano con la falce dove le
macchine non arrivavano. Poi i fasci di culmi di grano si raccoglievano, e
quando il raccolto era finito, arrivava la trebbiatrice, trainata dal trattore,
un enorme e nero Landini, dotato di un grande e caratteristico volano.
I preparativi per la
trebbiatura erano precisi ed ognuno aveva un ruolo. Il trattore veniva posto
all’inizio, seguiva l’enorme trebbia simile ad un carrozzone da circo, ed alla
fine si metteva la pressa per le balle del fieno. Ogni movimento meccanico
veniva trasmesso da lunghe pulegge di cuoio che si incrociavano in modo
preciso, ma che ogni tanto si rompevano o cadevano dai volani o dalle ruote
metalliche, creando scompiglio ma anche occasione per vedere come si superava
in fretta la difficoltà. Quando tutto
era pronto il Landini iniziava a far muovere ogni cosa, e tutti, donne e
uomini, attorno o sopra, a portare o a raccogliere, come api operaie attorno
all’ape regina.
Sulla trebbiatrice salivano
alcune persone, altre formavano una catena per far arrivare loro le fascine del
grano, ed usavano i forconi oppure lavoravano a mani nude. Sopra disfacevano
queste fascine e buttavano poi nella bocca superiore della trebbia il frumento
da trebbiare. Si sollevava poco a poco una nuvola di polvere, la “pula”, che
copriva ogni cosa, che si respirava, e che neppure i fazzoletti sul viso
bastavano a fermare.
Alcuni raccoglievano il
grano che, da poche aperture, usciva in modo regolare, e ci riempivano sacchi
che diventavano poi pesantissimi e venivano portati, sulle spalle, al deposito,
o su un carro.
Il culmo della pianta, tolti
i chicchi di grano, cadeva nella parte posteriore della trebbia sotto forma di
paglia, e la pressa, con un enorme martello che si muoveva con cadenza precisa,
formava una dopo l’altra le balle, tenute assieme da filo di ferro che la
macchina stessa predisponeva, e gli operai controllavano. Se una balla si
rompeva, si ributtava tutto nella pressa, sino ad ottenere una nuova balla. E
tutta questa paglia arrivava infine a formare altissimi cumuli, a volte nei
fienili, altre volte all’aperto.
Erano ore ed ore di lavoro
senza soste, sino all’ora di pranzo, che ricordo ancora con un particolare
piacere, perché coglievo il sollievo e la soddisfazione anche sul viso dei
miei. Ma la fatica non veniva cancellata. La sera non c’era tempo per fare cene
in comune, ma si tornava a casa, perché il giorno dopo il lavoro, prestissimo,
sarebbe ripreso.
Il momento più bello
arrivava alla fine di tutto, quando una “ganzega”, una grande festa, un
banchetto, metteva agli stessi lunghi tavoli tutti quelli che avevano lavorato.
Non si mangiava nulla di raffinato, io ricordo pasta asciutta, salame, pane,
vino, formaggio, mele, uva, fichi e noci. Ma non era quello che si mangiava,
bensì l’allegria a fare la festa. E le battute, gli scherzi, le allusioni
sessuali che ancora non capivo ma che donne e uomini si scambiavano con
visibile reciproco piacere.
I campi dove prima c’era il
grano diventavano enormi distese di resti di piante, tagliate a pochi
centimetri da terra, in attesa dell’aratura. Camminarci, come facevo io ogni
tanto con
i sandali estivi senza
calze, poteva significare, se non si faceva molta attenzione, infilarsi questi
acuminati resti nelle caviglie, e farsi male. Ma io ci andavo per cercare i
culmi intatti e lunghi perché, quando il Landini era un trattore, la gassosa si
beveva con una cannuccia di frumento.
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Un bambino di 8 anni, al
mare, indossa un costumino di lana fatto ai ferri dalla madre.
Lui odia quel costumino, ma
non è in grado di opporsi all’ingiustizia che sente. Per fortuna la madre si
rende conto che se si bagna poi non si asciuga mai, e decide di comprarne uno
nuovo.
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Romeo di baldunzin
È una figura un po’ mitica,
sfumata dal tempo e dal ricordo quindi molto frammentario.
Che sia esistito tuttavia è
sicuro. Che sia ancora vivo mi sembra improbabile. Da dove venisse, cosa
facesse e come fosse arrivato a trascorrere le sue giornate così non lo so.
Eppure in quegli anni, in
modo irregolare e casuale, faceva la sua comparsa sulle strade di Porotto e
Cassana, e sicuramente dei paesi vicini, un uomo di età indefinibile, in
bicicletta,
con attaccati al manubrio,
al cannone, alla sella e ovunque si potesse un numero enorme di barattoli e
secchielli di latta, di bidoni e bidoncini (i “baldunzin” ). Dentro credo che
si portasse un po’ di tutto, perché era un barbone, più o meno, ma ciclomunito,
e abbastanza ben visto, oggetto di scherno bonario ma nulla di più.
Una figura folcloristica,
come si direbbe oggi; “un mat”, come allora veniva chiamato.
A me un po’ di timore lo
faceva, ma non ho mai avuto modo di avvicinarmi, se non una volta, credo,
quando si è fermato a parlare con qualche adulto. Svolgeva sicuramente una
funzione importante, in quegli anni: portava notizie, curiosità e pettegolezzi
da altri paesi.
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Dallo scalone di piazzetta Municipale si poteva
entrare nell'anticamera del sindaco, oppure proseguire verso gli uffici di
Comune e Provincia, praticamente senza incontrare ostacoli. L’importante era
avere l'aria sicura di chi sa dove deve andare. All'inizio del percorso si
saliva anche per una scala a chiocciola metallica, si percorrevano stanze una
dopo l'altra, e ad un certo punto si poteva scendere verso piazza Savonarola,
sbucando sotto i portici, di lato a dove ora c'è un ristorante con specialità
tipiche.
Tanti anni fa, in quegli
stessi spazi, vi si trovavano uffici, forse una esattoria, ma non ne sono
sicuro.
Proseguendo si arrivava,
sempre per vie interne, al Castello, superando anche un ponte levatoio e
passando per altri uffici della Provincia o della Questura. E' la cosiddetta
Via Coperta, nata come via di fuga del Duca di Ferrara, e che oggi è
percorribile solo in parte, e solo come percorso museale. Passare da Piazzetta
Municipale al cortile interno del Castello Estense in quel periodo era una
piccola avventura.
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Abitava in via Vincenzo Monti, veniva dalla provincia, e durante la sua vita aveva traslocato più e più volte, segnando ogni volta un passaggio, un cambiamento. Aveva perso la madre piccolissimo, e poi aveva avuto una matrigna. Aveva lavorato sin da giovane, in campagna, come semplice bracciante, ed aveva acquistato esperienza in mille lavori, tutti faticosi, come quasi tutti quelli nati dal popolo come lui, senza altra fortuna se non nelle proprie braccia.
Abitava in via Vincenzo Monti, veniva dalla provincia, e durante la sua vita aveva traslocato più e più volte, segnando ogni volta un passaggio, un cambiamento. Aveva perso la madre piccolissimo, e poi aveva avuto una matrigna. Aveva lavorato sin da giovane, in campagna, come semplice bracciante, ed aveva acquistato esperienza in mille lavori, tutti faticosi, come quasi tutti quelli nati dal popolo come lui, senza altra fortuna se non nelle proprie braccia.
Si era sposato, Zanin, con
Jole, aveva avuto un primo figlio, nato morto, e poi una figlia. Quando questa
si era sposata a sua volta, era rimasto, lui e la moglie, con la nuova coppia.
Aveva continuato a lavorare, anche quando erano nati i nipoti, a diversi anni
di distanza. Ma ad un certo momento era stato fermato dal suo cuore. Si era
salvato, dopo cure in ospedale, ma non aveva più potuto lavorare.
Poco a poco la figlia,
sempre di carattere difficile, aveva preso a tormentare lui e sua moglie.
Rinfacciava ogni cosa. Lui ne soffriva, ma sopportava, in silenzio, cercando di
essere utile come poteva.
Per forza di cose aveva
molto tempo libero, quando non lo dedicava ai nipoti o alle piccole faccende
domestiche, ed aveva preso a frequentare un calzolaio, che aveva la sua bottega
in una casetta bassa a pochi passi dall’appartamento nel quale vivevano, in via
Compagnoni.
- A vag dal calzular –
Diceva quando usciva, a mezza mattina o nel pomeriggio.
Il calzolaio era una specie
di ritrovo, non si dovevano spendere soldi per stare seduti a parlare, come
sarebbe stato necessario fare al bar, ed era un modo per scambiare opinioni sui
fatti del giorno e su tante questioni che, quando uno dei nipotini andava a
trovarlo per restare un po’ con lui, o a chiamarlo per farlo tornare, e magari
rimaneva un po’ ad ascoltare, capiva ben poco.
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Gli ultimi anni viveva in via Coperta, prima di entrare, ancora autosufficiente, nella Casa di Riposo di via Ripagrande. Lo aveva scelto per non pesare su nessuno, e per molto tempo, anche in quel luogo dove molti si lamentano ed acuiscono i loro difetti, aveva aiutato gli altri, ad esempio cucendo, attaccando bottoni, rammendando, sino a quando la sua vista e le sue mani glielo avevano permesso.
In via Coperta viveva da
sola, non si era mai sposata, ma aveva avuto a lungo un compagno, Federico, una
montagna di uomo, al quale lei, Ernesta, piccola e minuta, era stata vicina
sino all’ultimo, quando ancora abitavano entrambi in una casa bassa nella zona
di Campo Sabbionario. Lei e Federico dovevano avere avuto una relazione
difficile, con abbandoni e riavvicinamenti, e probabilmente tradimenti da parte
di lui. Quando io l’ho conosciuto ormai non aveva più certe idee per la testa,
ma si capiva che da giovane doveva essere stato un uomo capace di far girare la
testa a più di una donna.
Ed avevano un divano con i
braccioli grande, in velluto bordò scuro, nel quale mi perdevo, ed un
piccolissimo giardino prima dell’ingresso di casa, e mobili semplici ed
antichi.
Ernesta era generosa, sempre
sorridente, mai una cattiveria sugli altri, mai un lamento per il dolore che la
vita le aveva dato con generosità, a partire da quei figli desiderati e mai avuti.
Una volta un parente rimase
di sasso nel trovare, in Certosa, nella zona nuova vicino ai Rampari di
Belfiore, un loculo con la sua lapide, e la sua foto. Lui non sapeva che fosse
morta, ed in effetti non era ancora morta, ma si era preparata per tempo, aveva
sistemato ogni cosa, pianificato con cura i suoi ultimi anni, anche l’addio
alla vita.
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Il ragazzo passava per
strada, voleva tentare un approccio, dimostrare una sicurezza ben lontana dalla
realtà e dalla sua esperienza. Vide avvicinarsi pedalando in bicicletta una
ragazza che sapeva abituata a stare con i ragazzi. Di vista si conoscevano
tutti.
Quando lei fu alla sua
altezza lui le disse: - che bei mudant chet gà …-
Per nulla colpita lei
rispose sicura: - e je anch miè! -
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Prima che l'ospedale di
Ferrara venisse spostato nella sua nuova sede, con una scelta che non capirò
mai, a Cona, molto prima che io mi trasferissi per lavoro in Trentino, in
un'altra epoca insomma, quando era bambino, andare all'ospedale Sant'Anna per
visitare un parente ricoverato era un'impresa. Già arrivarci dal paese
significava prendere l'autobus, o la corriera di linea. Poi l'ingresso severo,
in fondo a Via Giovecca, vicinissimo alla Prospettiva, che separa la città
dentro le mura dalla parte più nuova, in direzione del mare, metteva
soggezione.
I tempi erano scanditi in
modo rigido. L'orario delle visite inflessibile. La domenica si entrava dalle
ore 13.30 alle ore 14.30, mi sembra di ricordare. La fila dei parenti in attesa
era sempre lunga, e non c'era modo di superare le mura che racchiudevano la
struttura come un fortilizio.
Quando era l'ora, non prima,
"Ghitan", il portinaio, apriva la pesante porta, stretta,e si entrava
due alla volta, non di più, per poi disperdersi ognuno verso i propri cari. Chi
non sapeva dove andare doveva fermarsi da lui, avvicinarsi alla sua alta
cattedra, simile, ai miei occhi, a quella del giudice di una tribunale e
chiedere. Mio padre pare che lo conoscesse, forse erano nati nello stesso
paesino, Aguscello, ma non ne sono certo. In ogni caso si salutavano con
rispetto reciproco, ed io mi sentivo un po’ importante per questo.
Poi i corridoi lunghissimi,
da perdersi, e gli stanzoni delle varie sale enormi, con decine di letti
affiancati ai due lati delle pareti. Si, allora non esistevano stanzette
piccole da pochi letti come ora. Solo i dozzinanti avevano un trattamento
diverso, quelli che pagavano insomma, ma non ne ho mai visitati, e non so
effettivamente come funzionasse con questi degenti più fortunati.
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Estati lunghe, mosche,
piccoli insetti che ronzano intorno, ombra sotto i filari delle viti, oppure
sotto un vecchio carro di quelli trainati dai buoi o dalle mucche. Mucche con
un nome proprio: Stella, Nerina, mi sembra di ricordare...
Oppure una spedizione in una
zona di trivellazioni dell'ENI, dicevano per cercare il petrolio, o il metano.
Una zona abbandonata, scavi enormi e buche con un fondo di fango. Io che sono
curioso, e finisco sul fondo, che sembra formato di sabbie mobili. Ed inizio a
sprofondare, e me ne rendo conto terrorizzato, perché ho visto in un film cosa
succede a chi capita nelle sabbie mobili. Ma non trovo appigli, e scivolo
sempre più in basso, inghiottito. Finalmente con le mani trovo qualcosa di
solido, mi aggrappo, smetto di scivolare, riesco a togliermi poco a poco da
quella situazione, e mi allontano, sporco di fango rossastro sino al petto. Non
ricordo neppure cosa mi dicono i miei quando mi vedono così.
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Un’ancorina. Una piccola
ancora. Un piccolo oggetto pericoloso: un amo a 3 o 4 punte, in tutto simile ad
ancore ben più pesanti e voluminose di grosse navi, ma con le punte, poste
sugli ardiglioni, assolutamente micidiali.
Questo oggetto compro un
giorno in un negozio, forse una ferramenta, a Porotto, quando mi viene
l’infelice idea di dedicarmi alla cattura delle rane.
I miei, le rane, le comprano
talvolta da un ragazzo poco più grande di me, molto abile in questo tipo di
“pesca”. Loro le mangiano, fritte, mentre a me non sono mai piaciute. Però
voglio sperimentarmi e, allo stesso tempo, rendermi utile.
Ho osservato questo ragazzo,
spiato la sua tecnica precisa e sicura, mi sembra facile imitarlo, e decido di
farlo.
Una lunga canna è facile da
recuperare. Il filo sottile e robusto in casa non manca, anche se non è
certamente da pesca.
Sia davanti alla casa dove
abitiamo, sia dietro, scorrono due piccoli canali (“ i du canalin” come li
chiamiamo in dialetto), relativamente puliti ancora, e con pesci che si vedono
guizzare talvolta, e rane, tantissime rane, che in certe stagioni fanno
concerti assordanti.
E’ quindi del tutto naturale
che io provi a catturarne qualcuna da poter poi orgogliosamente esibire come
trofeo a mia nonna, cuoca ufficiale di famiglia.
Ma ancora non mi conosco, e
posso dirlo con tranquillità.
Mi apposto in una zona
sicura, metto in posizione la canna col filo e l’ancorina appesa, resto
immobile, e cerco la mia preda. Eccola, sul pelo dell’acqua, l’ancorina si
avvicina piano, scende sotto la superficie a specchio, uno strappo rapido, ma
la rana è più veloce, e sfugge alla cattura.
Non è facile come pensavo.
Riprovo, ma stavolta la rana prescelta se ne va prima ancora che io possa
arrivare a tiro.
Faccio altri tentativi a
vuoto. Normale, penso, non l’ho mai fatto prima, devo imparare.
Finalmente arriva
l’occasione, è quella giusta. La rana resta immobile, io sono più cauto e
freddo, strappo, la infilzo e la sollevo in aria in un attimo, sino a farla
ricadere a poca distanza da dove mi sono sistemato sulla riva del “canalin”.
La mia prima preda. Mi
avvicino per recuperarla. Il suo corpo è squarciato, non come le rane che i
miei comprano da quel ragazzo, ancora intatte. No, si muove ancora, ma è
sventrata, quasi divisa in due. Resto fermo, a fissare quello che ho fatto, non
ho il coraggio di raccoglierla, provo sensi di colpa, senso di impotenza per
non poter riportare tutto alle condizioni precedenti, prima del mio gesto
crudele. Non andrò più a cercare rane, ora. So che non sono adatto, so che non
sono fatto per questo.
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C'era un luogo, tanti anni fa, dentro il Parco Massari, vicinissimo all'ingresso principale in Corso Porta Mare, di fronte al Giardino Botanico dell'Università, che era magico. Bastava andare subito a sinistra, appena entrati, per trovare un piccolo labirinto in siepi dove entrare e perdersi, cercare il punto più interno, e poi ritornare fuori. Quanti anni saranno passati da quando non esiste più? Non lo so. Le motivazioni per tagliare quelle piante immagino siano state più che giustificate, prima di tutto per la sicurezza dei bambini. Però che peccato perdere così quel passato che raccontava un modo di vivere più legato alla nostra terra, alle nostre tradizioni. Una sorta di antica nobiltà concessa a tutti, perché le più belle ville patrizie, questi labirinti, li hanno sempre avuti e curati. Io però ho fatto in tempo a vederlo, ed a perdermici un po’.
C'era un luogo, tanti anni fa, dentro il Parco Massari, vicinissimo all'ingresso principale in Corso Porta Mare, di fronte al Giardino Botanico dell'Università, che era magico. Bastava andare subito a sinistra, appena entrati, per trovare un piccolo labirinto in siepi dove entrare e perdersi, cercare il punto più interno, e poi ritornare fuori. Quanti anni saranno passati da quando non esiste più? Non lo so. Le motivazioni per tagliare quelle piante immagino siano state più che giustificate, prima di tutto per la sicurezza dei bambini. Però che peccato perdere così quel passato che raccontava un modo di vivere più legato alla nostra terra, alle nostre tradizioni. Una sorta di antica nobiltà concessa a tutti, perché le più belle ville patrizie, questi labirinti, li hanno sempre avuti e curati. Io però ho fatto in tempo a vederlo, ed a perdermici un po’.
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La Gigina è stata a lungo
una birreria unica nel suo genere, dove ci si trovava le sere d’estate, magari
sul tardi, a bere una piccola chiara ed a mangiare un panino, non di rado un
po’ duro. A volte arrivavano i tonfi sordi degli urti dei vagoni in manovra
dalla vicina ferrovia. Spesso le zanzare rendevano meno piacevole la
permanenza, ma la birra, secondo un amico, era la migliore della zona,
paragonabile a quella servita all’Oktoberfest, a Monaco. Solo molto più tardi
avrei conosciuto Monaco.
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Una cosa mette allegria in
ogni uomo di Ferrara, una donna che passa in bicicletta con la gonna.
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Anni '70, piscina comunale di Ferrara, ancora la sola in città, posta sulla circonvallazione, compresa nell'area di quello che diverrà il parco urbano Bassani, poco lontana da Porta degli Angeli e dai luoghi di Micòl.
La vasca coperta è piccola,
solo 25 metri, e quella più grande apre esclusivamente nel periodo estivo. C'è
un bagnino in quel periodo che non passa inosservato a chi frequenta l'impianto
natatorio, è Giorgio Sofritti. Fisico costruito, da culturista, modi di fare
sbrigativi, ma a suo modo umano e disponibile con chi vuole parlare con lui. E'
un personaggio anche fuori dalla città, tanto che Federico Fellini lo vorrà in
un suo film: La voce della Luna, per una piccola parte. Quando lascio la città
lo perdo di vista, ma lo incontro poi, quando lui ormai ha smesso di fare
assistenza bagnanti, in giro per il centro storico di Ferrara in bicicletta con
un piccolo cagnetto in un cestino davanti al manubrio che controlla con le sue
spalle possenti.
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Vicino a Diamantina un'azienda agricola di proprietà di una famiglia di veneti, i Panato, si estendeva per un'area che ora non saprei definire. Vi si coltivava frumento, e, tra un campo e l'altro, filari di salici e viti di uva Fragola e di uva Clinto. Il vino Clinto, ora vietato dalle leggi, non so esattamente per quale motivo, credo sia stato il primo che ho assaggiato, sicuramente ben prima di aver compiuto 10 anni. Ma l'ho assaggiato come mosto, dolcissimo, appena ottenuto dalla spremitura dei grappoli, rigorosamente fatta a piedi nudi e con gonne o pantaloni rimboccati. Il mosto, se ne bevevi troppo, te la faceva fare addosso, mi dicevano tutti ridendo.
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Uno di loro si chiamava
Alberto, i suoi possedevano terra ed apparteneva ad una famiglia ricca, molto
più della mia. Io ricordo ancora lui, un po’ la madre ed un po’ anche la
sorella, di poco più giovane di noi. Era un mio compagno di classe, che ho
frequentato per una breve stagione, invitato nel suo parco giardino, oppure
nelle zone allora con frutteti e depositi e magazzini per la lavorazione della
frutta. I suoi possedevano un frigorifero per la conservazione di questa
frutta, e a volte mi ricordo che da una costruzione bassa usciva odore di
ammoniaca, fastidioso e pungente.
Un giorno, con cassette
disposte a formare un fortino, ed usando mele marce, abbiamo combattuto una
battaglia. Io ne sono uscito completamene allordato, con gli abiti schizzati e
macchiati. La sorella non era quasi mai presente ai nostri giochi, tranne una
volta nella quale mi sfidò a salire su un albero, e, manco a dirlo, vinse senza
alcuno sforzo.
Il loro appartamento era in
una casa altissima, all’ultimo piano, e lo ricordo pulito e signorile, con
mobili belli ed antichi. Tutta la casa non era abitata solo da loro, ma anche
da altri parenti, che, non so perché, io immaginavo ancora più benestanti di
loro. Possedevano auto, ad esempio una bella Giulietta Alfa Romeo, mentre noi
al massimo andavamo in bicicletta.
Alberto sfoggiò un giorno
una cravatta spiegando che era ottenuta dal petrolio, in altre parole era
sintetica, ma allora mi fece uno strano effetto.
Una cosa che mi piaceva
molto era quando lui prendeva la sua carabina ad aria compressa, una vera arma
che sparava piccoli proiettili di piombo. Si faceva tiro a segno con i mille
oggetti che si trovano in giro nelle case di campagna.
Una sola volta mi propose una
vera battuta di caccia, nel suo parco, per sparare ai passeri. Non ricordo se
lui sparò prima di me o dopo, se colpì qualche uccellino o no. Ricordo solo che
quando ebbi in mano il fucile per mirare in alto, e cercare di colpire un
uccellino, mi resi conto che non doveva essere tanto facile. Ma alla fine, non
so se al primo colpo o meno, feci centro, e colpii un passero, che cadde a
terra. Non l’avevo ucciso, ma ferito all’ala, e il piccolo animaletto, nella
mano, non pesava nulla, non si muoveva neppure, solo respirava veloce...
L’assurdità di quella
azione avrei dovuto immaginarla, prima di compierla, ma a quei tempi la morte
mi sembrava naturale, quasi che non mi toccasse e riguardasse solo altri,
animali o persone che fossero.
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Aveva circa 14 anni, era
vissuto sempre in un piccolo paese, lontano (allora) dalla città. Aveva amici
coi quali andava in giro in bicicletta in estate. Stava iniziando a partecipare
a festicciole alle quali erano invitate pure le ragazze. Era di natura timido,
e faceva con fatica nuove conoscenze. I suoi si trasferirono in città, in un
appartamento moderno, anche se di edilizia popolare. Rimase isolato a lungo,
dopo quel trasloco, perché i pochi tentativi che fece per recuperare chi aveva
lasciato in paese gli fecero capire subito che ormai lui era diventato un
estraneo, con il quale non si potevano fare progetti.
In quel periodo Celentano, a
Sanremo, presentò: “Il ragazzo della via Gluck”. Lui la imparò a memoria, e la
cantò, a volte piangendo.
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Arrampicarsi su un fico con
i pantaloncini corti è un'esperienza che non si può descrivere a chi non l'ha
mai provata. Credo tuttavia sia preferibile ad un'altra esperienza, che invece
per fortuna non ho fatto, e cioè usare una foglia di fico come carta igienica.
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Un maestro spiegò un giorno
l’alfabeto Morse, ed un ragazzino, armato di batteria piatta, cavo elettrico,
lampadine e la fantasia di realizzare l’impresa, lanciò sull’altra sponda di un
canale ora interrato un sasso con una corda. Un altro ragazzino lo raccolse, e tirò
a sé il cavo elettrico che il primo aveva legato alla corda. In poche ore due
nuovi marconisti iniziarono a comunicare via cavo. Se qualcosa si inceppava,
bastava urlare da una sponda all’altra.
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Le finestre e le porte in estate sono coperte da tende di cotone pesante. In casa filtra sempre poca luce, e le mura spesse trattengono ancora un po’ del fresco della notte. Fuori la vampa brucia la pelle, il sudore bagna i vestiti leggeri, e si cerca una zona d'ombra. Dentro l'ombra c'è. E ci sono anche le mosche.
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Via San Romano, a Ferrara,
tanti anni fa era la via dei negozi di scarpe e di quelli di abbigliamento,
anche se abbigliamento si trovava pure in via Mazzini (ad esempio Fusi).
I suoi portici erano, e sono
ancora, bellissimi.
Nelle giornate di nebbia
invernale, specialmente il giovedì pomeriggio, ci passava poca gente, visto che
i negozi erano chiusi. Era il momento più bello per una passeggiata solitaria,
ed il silenzio permetteva di sentire l’eco dei propri passi rimbalzare dai muri
degli edifici.
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Frequentavo la Scuola Media
Statale "Dante Alighieri", in centro, quando la sua sede si trovava
in via Bersaglieri del Po. Partivo il mattino dal paese con l'autobus di linea
e tornavo, una volta in settimana, più tardi del solito, perchè il pomeriggio
avevo lezione di ginnastica, materia che non amavo molto. A pranzo andavo alla
POA (Pontificia Opera di Assistenza) che aveva una mensa in via Adelardi, di
fianco alla Cattedrale, pagando abbastanza poco per un primo, un secondo un
contorno e l'acqua. Poi avevo quasi un'ora di assoluta libertà, da solo, per
girare la città, prima di presentarmi alla palestra di via Savonarola, dentro
palazzo Tassoni, ora sede universitaria e, dal 20 maggio 2012, chiuso per
inagibilità. A volte il viaggio di andata o di ritorno avveniva su un autobus
mitico, chiamato da tutti Pompeo. Pompeo aveva il cofano motore dentro la
cabina passeggeri, davanti, in mezzo. Da un lato stava l'autista, dall'altro si
apriva la porta automatica. Quando si metteva in moto vibrava ogni cosa.
Peccato non sia stato conservato in un museo.
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In via degli Spadari, sotto
i portici, a due passi da via Garibaldi, per molti anni è rimasto esposto in
una vetrina un magnifico modello del nostro transatlantico "Andrea
Doria", affondato dopo lo speronamento con la nave svedese
Stockholm, nel 1956.
Era uno spettacolo per me
che ho sempre ammirato le navi di ogni genere.
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A Porotto la scuola elementare è intitolata al mio maestro: Adriano Franceschini.
A Porotto la scuola elementare è intitolata al mio maestro: Adriano Franceschini.
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Il Festival de l'Unità del periodo d'oro, a Ferrara,
si teneva sul Montagnone, dove oggi vanno le giostre e le bancarelle della
festa del patrono, il 23 aprile, San Giorgio. Io ci andavo con i miei,
rigorosamente dopo cena, a fare l'offerta al Partito, a ricevere il simboletto
con falce e martello attaccato con uno spillo alla giacca o al
maglioncino.
A me interessava vedere le
luci e le bancarelle, a mio padre sentire i comizi che i dirigenti nazionali
tenevano agli iscritti. In quelle occasioni ho sentito parlare Togliatti,
Pajetta, Ingrao e diversi altri. Cosa dicessero non lo so, ci capivo ben poco,
ma sentivo che la gente approvava e batteva le mani.
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A due passi dalla vecchia basilica di San Giorgio (fuori dalle mura) c'è un piccolo quartiere che un tempo (e forse ancora adesso) si chiamava "concera". Non so se questo avveniva perchè vi si trovava una antica conceria o no, so solo che così in famiglia veniva indicata quella zona. Vi abitavano allora, in piccole casette affiancate e basse, mia nonna paterna, vedova, una zia di mio padre, la più giovane, un mio zio con mia zia e miei cugini. Solo una volta ho dormito, tantissimi anni fa, in quella casa. Il campanile della basilica batteva le ore ed i quarti, in modo assordante per me che non vi ero abituato. Alle ventitrè e tre quarti ha ragiunto il massimo del numero possibile di rintocchi. Quella notte ho dormito pochissimo.
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All'inizio è stato il Diana,
dove andavo con mio nonno, negli anni '50. Il Diana era un cinema di seconda
visione nella zona di Piazza del Travaglio, dove la domenica la programmazione
prevedeva due film, solitamente uno barboso, con storie sdolcinate d'amore ed
uno divertente, o a cartoni animati, o con Stanlio e Ollio, o con Jerry
Lewis.
Era un'abitudine, durata non
ricordo neppure quanto. Una domenica invece, più tardi, i miei mi hanno portato
al cinema teatro Verdi, dove era programmato prima il film, poi la rivista. Il
film è stato barboso, ma la rivista una cosa del tutto nuova. Le scene comiche
mi sono sembrate bellissime, e sopportavo i vari intermezzi di balletti per
rivedere il comico che era molto buffo.
Poi,crescendo, ho avuto anni di vita abbastanza
isolata, ed andavo al cinema con frequenza. Costava relativamente poco e
l’offerta era notevole. Ricordo sale ormai scomparse, come l’Astra, in viale
Cavour, il Corso, in corso Porta Po, il Garibaldi, sulla via omonima. E poi il
Ristori, il vecchio Apollo, in Porta Reno, e il San Pietro, e il Rivoli, e il
Manzoni, e l’Eden, ed il cinema teatro Nuovo, in piazza Trento e Trieste.
Nessuno di questi vecchi
cinema è rimasto. Il tempo li ha cancellati, fatti dimenticare.
Di alcuni restano scheletri
ed insegne corrose dal tempo, di altri nulla.
Silvano C.©
( La riproduzione è riservata. Ma non c'è nessun problema se si cita la fonte. Grazie)
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