venerdì 24 maggio 2013

Piccole storie di Ferrara


Quando il Landini era solo un trattore
Tutto avveniva in giorni di sudore e fatica, col sole che bruciava la pelle e faceva ardere la gola di sete, col lavoro che distruggeva, ma che per me, ancora piccolo, erano giorni di giochi e di novità. Io guardavo i grandi che lavoravano, e mi portavano in campagna con loro, ma poi mi lasciavano la libertà di muovermi e guardarmi attorno.
Il frumento andava prima tagliato, con le macchine dove si arrivava, ma a mano con la falce dove le macchine non arrivavano. Poi i fasci di culmi di grano si raccoglievano, e quando il raccolto era finito, arrivava la trebbiatrice, trainata dal trattore, un enorme e nero Landini, dotato di un grande e caratteristico volano.
I preparativi per la trebbiatura erano precisi ed ognuno aveva un ruolo. Il trattore veniva posto all’inizio, seguiva l’enorme trebbia simile ad un carrozzone da circo, ed alla fine si metteva la pressa per le balle del fieno. Ogni movimento meccanico veniva trasmesso da lunghe pulegge di cuoio che si incrociavano in modo preciso, ma che ogni tanto si rompevano o cadevano dai volani o dalle ruote metalliche, creando scompiglio ma anche occasione per vedere come si superava in fretta la difficoltà.  Quando tutto era pronto il Landini iniziava a far muovere ogni cosa, e tutti, donne e uomini, attorno o sopra, a portare o a raccogliere, come api operaie attorno all’ape regina.
Sulla trebbiatrice salivano alcune persone, altre formavano una catena per far arrivare loro le fascine del grano, ed usavano i forconi oppure lavoravano a mani nude. Sopra disfacevano queste fascine e buttavano poi nella bocca superiore della trebbia il frumento da trebbiare. Si sollevava poco a poco una nuvola di polvere, la “pula”, che copriva ogni cosa, che si respirava, e che neppure i fazzoletti sul viso bastavano a fermare.
Alcuni raccoglievano il grano che, da poche aperture, usciva in modo regolare, e ci riempivano sacchi che diventavano poi pesantissimi e venivano portati, sulle spalle, al deposito, o su un carro.
Il culmo della pianta, tolti i chicchi di grano, cadeva nella parte posteriore della trebbia sotto forma di paglia, e la pressa, con un enorme martello che si muoveva con cadenza precisa, formava una dopo l’altra le balle, tenute assieme da filo di ferro che la macchina stessa predisponeva, e gli operai controllavano. Se una balla si rompeva, si ributtava tutto nella pressa, sino ad ottenere una nuova balla. E tutta questa paglia arrivava infine a formare altissimi cumuli, a volte nei fienili, altre volte all’aperto.
Erano ore ed ore di lavoro senza soste, sino all’ora di pranzo, che ricordo ancora con un particolare piacere, perché coglievo il sollievo e la soddisfazione anche sul viso dei miei. Ma la fatica non veniva cancellata. La sera non c’era tempo per fare cene in comune, ma si tornava a casa, perché il giorno dopo il lavoro, prestissimo, sarebbe ripreso.
Il momento più bello arrivava alla fine di tutto, quando una “ganzega”, una grande festa, un banchetto, metteva agli stessi lunghi tavoli tutti quelli che avevano lavorato. Non si mangiava nulla di raffinato, io ricordo pasta asciutta, salame, pane, vino, formaggio, mele, uva, fichi e noci. Ma non era quello che si mangiava, bensì l’allegria a fare la festa. E le battute, gli scherzi, le allusioni sessuali che ancora non capivo ma che donne e uomini si scambiavano con visibile reciproco piacere.
I campi dove prima c’era il grano diventavano enormi distese di resti di piante, tagliate a pochi centimetri da terra, in attesa dell’aratura. Camminarci, come facevo io ogni tanto con
i sandali estivi senza calze, poteva significare, se non si faceva molta attenzione, infilarsi questi acuminati resti nelle caviglie, e farsi male. Ma io ci andavo per cercare i culmi intatti e lunghi perché, quando il Landini era un trattore, la gassosa si beveva con una cannuccia di frumento.
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Un bambino di 8 anni, al mare, indossa un costumino di lana fatto ai ferri dalla madre.
Lui odia quel costumino, ma non è in grado di opporsi all’ingiustizia che sente. Per fortuna la madre si rende conto che se si bagna poi non si asciuga mai, e decide di comprarne uno nuovo.

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Romeo di baldunzin
È una figura un po’ mitica, sfumata dal tempo e dal ricordo quindi molto frammentario.
Che sia esistito tuttavia è sicuro. Che sia ancora vivo mi sembra improbabile. Da dove venisse, cosa facesse e come fosse arrivato a trascorrere le sue giornate così non lo so.
Eppure in quegli anni, in modo irregolare e casuale, faceva la sua comparsa sulle strade di Porotto e Cassana, e sicuramente dei paesi vicini, un uomo di età indefinibile, in bicicletta,
con attaccati al manubrio, al cannone, alla sella e ovunque si potesse un numero enorme di barattoli e secchielli di latta, di bidoni e bidoncini (i “baldunzin” ). Dentro credo che si portasse un po’ di tutto, perché era un barbone, più o meno, ma ciclomunito, e abbastanza ben visto, oggetto di scherno bonario ma nulla di più.
Una figura folcloristica, come si direbbe oggi; “un mat”, come allora veniva chiamato.
A me un po’ di timore lo faceva, ma non ho mai avuto modo di avvicinarmi, se non una volta, credo, quando si è fermato a parlare con qualche adulto. Svolgeva sicuramente una funzione importante, in quegli anni: portava notizie, curiosità e pettegolezzi da altri paesi.

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Dallo scalone di piazzetta Municipale si poteva entrare nell'anticamera del sindaco, oppure proseguire verso gli uffici di Comune e Provincia, praticamente senza incontrare ostacoli. L’importante era avere l'aria sicura di chi sa dove deve andare. All'inizio del percorso si saliva anche per una scala a chiocciola metallica, si percorrevano stanze una dopo l'altra, e ad un certo punto si poteva scendere verso piazza Savonarola, sbucando sotto i portici, di lato a dove ora c'è un ristorante con specialità tipiche.
Tanti anni fa, in quegli stessi spazi, vi si trovavano uffici, forse una esattoria, ma non ne sono sicuro.
Proseguendo si arrivava, sempre per vie interne, al Castello, superando anche un ponte levatoio e passando per altri uffici della Provincia o della Questura. E' la cosiddetta Via Coperta, nata come via di fuga del Duca di Ferrara, e che oggi è percorribile solo in parte, e solo come percorso museale. Passare da Piazzetta Municipale al cortile interno del Castello Estense in quel periodo era una piccola avventura.

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Abitava in via Vincenzo Monti, veniva dalla provincia, e durante la sua vita aveva traslocato più e più volte, segnando ogni volta un passaggio, un cambiamento. Aveva perso la madre piccolissimo, e poi aveva avuto una matrigna. Aveva lavorato sin da giovane, in campagna, come semplice bracciante, ed aveva acquistato esperienza in mille lavori, tutti faticosi, come quasi tutti quelli nati dal popolo come lui, senza altra fortuna se non nelle proprie braccia.
Si era sposato, Zanin, con Jole, aveva avuto un primo figlio, nato morto, e poi una figlia. Quando questa si era sposata a sua volta, era rimasto, lui e la moglie, con la nuova coppia. Aveva continuato a lavorare, anche quando erano nati i nipoti, a diversi anni di distanza. Ma ad un certo momento era stato fermato dal suo cuore. Si era salvato, dopo cure in ospedale, ma non aveva più potuto lavorare.
Poco a poco la figlia, sempre di carattere difficile, aveva preso a tormentare lui e sua moglie. Rinfacciava ogni cosa. Lui ne soffriva, ma sopportava, in silenzio, cercando di essere utile come poteva.
Per forza di cose aveva molto tempo libero, quando non lo dedicava ai nipoti o alle piccole faccende domestiche, ed aveva preso a frequentare un calzolaio, che aveva la sua bottega in una casetta bassa a pochi passi dall’appartamento nel quale vivevano, in via Compagnoni.
- A vag dal calzular – Diceva quando usciva, a mezza mattina o nel pomeriggio.
Il calzolaio era una specie di ritrovo, non si dovevano spendere soldi per stare seduti a parlare, come sarebbe stato necessario fare al bar, ed era un modo per scambiare opinioni sui fatti del giorno e su tante questioni che, quando uno dei nipotini andava a trovarlo per restare un po’ con lui, o a chiamarlo per farlo tornare, e magari rimaneva un po’ ad ascoltare, capiva ben poco.

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Gli ultimi anni viveva in via Coperta, prima di entrare, ancora autosufficiente, nella Casa di Riposo di via Ripagrande. Lo aveva scelto per non pesare su nessuno, e per molto tempo, anche in quel luogo dove molti si lamentano ed acuiscono i loro difetti, aveva aiutato gli altri, ad esempio cucendo, attaccando bottoni, rammendando, sino a quando la sua vista e le sue mani glielo avevano permesso. 
In via Coperta viveva da sola, non si era mai sposata, ma aveva avuto a lungo un compagno, Federico, una montagna di uomo, al quale lei, Ernesta, piccola e minuta, era stata vicina sino all’ultimo, quando ancora abitavano entrambi in una casa bassa nella zona di Campo Sabbionario. Lei e Federico dovevano avere avuto una relazione difficile, con abbandoni e riavvicinamenti, e probabilmente tradimenti da parte di lui. Quando io l’ho conosciuto ormai non aveva più certe idee per la testa, ma si capiva che da giovane doveva essere stato un uomo capace di far girare la testa a più di una donna.
Ed avevano un divano con i braccioli grande, in velluto bordò scuro, nel quale mi perdevo, ed un piccolissimo giardino prima dell’ingresso di casa, e mobili semplici ed antichi.
Ernesta era generosa, sempre sorridente, mai una cattiveria sugli altri, mai un lamento per il dolore che la vita le aveva dato con generosità, a partire da quei figli desiderati e mai avuti.
Una volta un parente rimase di sasso nel trovare, in Certosa, nella zona nuova vicino ai Rampari di Belfiore, un loculo con la sua lapide, e la sua foto. Lui non sapeva che fosse morta, ed in effetti non era ancora morta, ma si era preparata per tempo, aveva sistemato ogni cosa, pianificato con cura i suoi ultimi anni, anche l’addio alla vita.

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Il ragazzo passava per strada, voleva tentare un approccio, dimostrare una sicurezza ben lontana dalla realtà e dalla sua esperienza. Vide avvicinarsi pedalando in bicicletta una ragazza che sapeva abituata a stare con i ragazzi. Di vista si conoscevano tutti.
Quando lei fu alla sua altezza lui le disse: - che bei mudant chet gà …-
Per nulla colpita lei rispose sicura: - e je anch miè! -

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Prima che l'ospedale di Ferrara venisse spostato nella sua nuova sede, con una scelta che non capirò mai, a Cona, molto prima che io mi trasferissi per lavoro in Trentino, in un'altra epoca insomma, quando era bambino, andare all'ospedale Sant'Anna per visitare un parente ricoverato era un'impresa. Già arrivarci dal paese significava prendere l'autobus, o la corriera di linea. Poi l'ingresso severo, in fondo a Via Giovecca, vicinissimo alla Prospettiva, che separa la città dentro le mura dalla parte più nuova, in direzione del mare, metteva soggezione. 
I tempi erano scanditi in modo rigido. L'orario delle visite inflessibile. La domenica si entrava dalle ore 13.30 alle ore 14.30, mi sembra di ricordare. La fila dei parenti in attesa era sempre lunga, e non c'era modo di superare le mura che racchiudevano la struttura come un fortilizio.
Quando era l'ora, non prima, "Ghitan", il portinaio, apriva la pesante porta, stretta,e si entrava due alla volta, non di più, per poi disperdersi ognuno verso i propri cari. Chi non sapeva dove andare doveva fermarsi da lui, avvicinarsi alla sua alta cattedra, simile, ai miei occhi, a quella del giudice di una tribunale e chiedere. Mio padre pare che lo conoscesse, forse erano nati nello stesso paesino, Aguscello, ma non ne sono certo. In ogni caso si salutavano con rispetto reciproco, ed io mi sentivo un po’ importante per questo.
Poi i corridoi lunghissimi, da perdersi, e gli stanzoni delle varie sale enormi, con decine di letti affiancati ai due lati delle pareti. Si, allora non esistevano stanzette piccole da pochi letti come ora. Solo i dozzinanti avevano un trattamento diverso, quelli che pagavano insomma, ma non ne ho mai visitati, e non so effettivamente come funzionasse con questi degenti più fortunati.
 
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Estati lunghe, mosche, piccoli insetti che ronzano intorno, ombra sotto i filari delle viti, oppure sotto un vecchio carro di quelli trainati dai buoi o dalle mucche. Mucche con un nome proprio: Stella, Nerina, mi sembra di ricordare...
Oppure una spedizione in una zona di trivellazioni dell'ENI, dicevano per cercare il petrolio, o il metano. Una zona abbandonata, scavi enormi e buche con un fondo di fango. Io che sono curioso, e finisco sul fondo, che sembra formato di sabbie mobili. Ed inizio a sprofondare, e me ne rendo conto terrorizzato, perché ho visto in un film cosa succede a chi capita nelle sabbie mobili. Ma non trovo appigli, e scivolo sempre più in basso, inghiottito. Finalmente con le mani trovo qualcosa di solido, mi aggrappo, smetto di scivolare, riesco a togliermi poco a poco da quella situazione, e mi allontano, sporco di fango rossastro sino al petto. Non ricordo neppure cosa mi dicono i miei quando mi vedono così.

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Un’ancorina. Una piccola ancora. Un piccolo oggetto pericoloso: un amo a 3 o 4 punte, in tutto simile ad ancore ben più pesanti e voluminose di grosse navi, ma con le punte, poste sugli ardiglioni, assolutamente micidiali.
Questo oggetto compro un giorno in un negozio, forse una ferramenta, a Porotto, quando mi viene l’infelice idea di dedicarmi alla cattura delle rane.
I miei, le rane, le comprano talvolta da un ragazzo poco più grande di me, molto abile in questo tipo di “pesca”. Loro le mangiano, fritte, mentre a me non sono mai piaciute. Però voglio sperimentarmi e, allo stesso tempo, rendermi utile.
Ho osservato questo ragazzo, spiato la sua tecnica precisa e sicura, mi sembra facile imitarlo, e decido di farlo.
Una lunga canna è facile da recuperare. Il filo sottile e robusto in casa non manca, anche se non è certamente da pesca.
Sia davanti alla casa dove abitiamo, sia dietro, scorrono due piccoli canali (“ i du canalin” come li chiamiamo in dialetto), relativamente puliti ancora, e con pesci che si vedono guizzare talvolta, e rane, tantissime rane, che in certe stagioni fanno concerti assordanti.
E’ quindi del tutto naturale che io provi a catturarne qualcuna da poter poi orgogliosamente esibire come trofeo a mia nonna, cuoca ufficiale di famiglia.
Ma ancora non mi conosco, e posso dirlo con tranquillità.
Mi apposto in una zona sicura, metto in posizione la canna col filo e l’ancorina appesa, resto immobile, e cerco la mia preda. Eccola, sul pelo dell’acqua, l’ancorina si avvicina piano, scende sotto la superficie a specchio, uno strappo rapido, ma la rana è più veloce, e sfugge alla cattura.
Non è facile come pensavo. Riprovo, ma stavolta la rana prescelta se ne va prima ancora che io possa arrivare a tiro.
Faccio altri tentativi a vuoto. Normale, penso, non l’ho mai fatto prima, devo imparare.
Finalmente arriva l’occasione, è quella giusta. La rana resta immobile, io sono più cauto e freddo, strappo, la infilzo e la sollevo in aria in un attimo, sino a farla ricadere a poca distanza da dove mi sono sistemato sulla riva del “canalin”.
La mia prima preda. Mi avvicino per recuperarla. Il suo corpo è squarciato, non come le rane che i miei comprano da quel ragazzo, ancora intatte. No, si muove ancora, ma è sventrata, quasi divisa in due. Resto fermo, a fissare quello che ho fatto, non ho il coraggio di raccoglierla, provo sensi di colpa, senso di impotenza per non poter riportare tutto alle condizioni precedenti, prima del mio gesto crudele. Non andrò più a cercare rane, ora. So che non sono adatto, so che non sono fatto per questo.

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C'era un luogo, tanti anni fa, dentro il Parco Massari, vicinissimo all'ingresso principale in Corso Porta Mare, di fronte al Giardino Botanico dell'Università, che era magico. Bastava andare subito a sinistra, appena entrati, per trovare un piccolo labirinto in siepi dove entrare e perdersi, cercare il punto più interno, e poi ritornare fuori. Quanti anni saranno passati da quando non esiste più? Non lo so. Le motivazioni per tagliare quelle piante immagino siano state più che giustificate, prima di tutto per la sicurezza dei bambini. Però che peccato perdere così quel passato che raccontava un modo di vivere più legato alla nostra terra, alle nostre tradizioni. Una sorta di antica nobiltà concessa a tutti, perché le più belle ville patrizie, questi labirinti, li hanno sempre avuti e curati. Io però ho fatto in tempo a vederlo, ed a perdermici un po’.

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La Gigina è stata a lungo una birreria unica nel suo genere, dove ci si trovava le sere d’estate, magari sul tardi, a bere una piccola chiara ed a mangiare un panino, non di rado un po’ duro. A volte arrivavano i tonfi sordi degli urti dei vagoni in manovra dalla vicina ferrovia. Spesso le zanzare rendevano meno piacevole la permanenza, ma la birra, secondo un amico, era la migliore della zona, paragonabile a quella servita all’Oktoberfest, a Monaco. Solo molto più tardi avrei conosciuto Monaco.

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Una cosa mette allegria in ogni uomo di Ferrara, una donna che passa in bicicletta con la gonna.

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Anni '70, piscina comunale di Ferrara, ancora la sola in città, posta sulla circonvallazione, compresa nell'area di quello che diverrà il parco urbano Bassani, poco lontana da Porta degli Angeli e dai luoghi di Micòl.
La vasca coperta è piccola, solo 25 metri, e quella più grande apre esclusivamente nel periodo estivo. C'è un bagnino in quel periodo che non passa inosservato a chi frequenta l'impianto natatorio, è Giorgio Sofritti. Fisico costruito, da culturista, modi di fare sbrigativi, ma a suo modo umano e disponibile con chi vuole parlare con lui. E' un personaggio anche fuori dalla città, tanto che Federico Fellini lo vorrà in un suo film: La voce della Luna, per una piccola parte. Quando lascio la città lo perdo di vista, ma lo incontro poi, quando lui ormai ha smesso di fare assistenza bagnanti, in giro per il centro storico di Ferrara in bicicletta con un piccolo cagnetto in un cestino davanti al manubrio che controlla con le sue spalle possenti.

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Vicino a Diamantina un'azienda agricola di proprietà di una famiglia di veneti, i Panato, si estendeva per un'area che ora non saprei definire. Vi si coltivava frumento, e, tra un campo e l'altro, filari di salici e viti di uva Fragola e di uva Clinto. Il vino Clinto, ora vietato dalle leggi, non so esattamente per quale motivo, credo sia stato il primo che ho assaggiato, sicuramente ben prima di aver compiuto 10 anni. Ma l'ho assaggiato come mosto, dolcissimo, appena ottenuto dalla spremitura dei grappoli, rigorosamente fatta a piedi nudi e con gonne o pantaloni rimboccati. Il mosto, se ne bevevi troppo, te la faceva fare addosso, mi dicevano tutti ridendo.

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Uno di loro si chiamava Alberto, i suoi possedevano terra ed apparteneva ad una famiglia ricca, molto più della mia. Io ricordo ancora lui, un po’ la madre ed un po’ anche la sorella, di poco più giovane di noi. Era un mio compagno di classe, che ho frequentato per una breve stagione, invitato nel suo parco giardino, oppure nelle zone allora con frutteti e depositi e magazzini per la lavorazione della frutta. I suoi possedevano un frigorifero per la conservazione di questa frutta, e a volte mi ricordo che da una costruzione bassa usciva odore di ammoniaca, fastidioso e pungente.
Un giorno, con cassette disposte a formare un fortino, ed usando mele marce, abbiamo combattuto una battaglia. Io ne sono uscito completamene allordato, con gli abiti schizzati e macchiati. La sorella non era quasi mai presente ai nostri giochi, tranne una volta nella quale mi sfidò a salire su un albero, e, manco a dirlo, vinse senza alcuno sforzo.
Il loro appartamento era in una casa altissima, all’ultimo piano, e lo ricordo pulito e signorile, con mobili belli ed antichi. Tutta la casa non era abitata solo da loro, ma anche da altri parenti, che, non so perché, io immaginavo ancora più benestanti di loro. Possedevano auto, ad esempio una bella Giulietta Alfa Romeo, mentre noi al massimo andavamo in bicicletta.
Alberto sfoggiò un giorno una cravatta spiegando che era ottenuta dal petrolio, in altre parole era sintetica, ma allora mi fece uno strano effetto.
Una cosa che mi piaceva molto era quando lui prendeva la sua carabina ad aria compressa, una vera arma che sparava piccoli proiettili di piombo. Si faceva tiro a segno con i mille oggetti che si trovano in giro nelle case di campagna.
Una sola volta mi propose una vera battuta di caccia, nel suo parco, per sparare ai passeri. Non ricordo se lui sparò prima di me o dopo, se colpì qualche uccellino o no. Ricordo solo che quando ebbi in mano il fucile per mirare in alto, e cercare di colpire un uccellino, mi resi conto che non doveva essere tanto facile. Ma alla fine, non so se al primo colpo o meno, feci centro, e colpii un passero, che cadde a terra. Non l’avevo ucciso, ma ferito all’ala, e il piccolo animaletto, nella mano, non pesava nulla, non si muoveva neppure, solo respirava veloce...
 L’assurdità di quella azione avrei dovuto immaginarla, prima di compierla, ma a quei tempi la morte mi sembrava naturale, quasi che non mi toccasse e riguardasse solo altri, animali o persone che fossero.

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Aveva circa 14 anni, era vissuto sempre in un piccolo paese, lontano (allora) dalla città. Aveva amici coi quali andava in giro in bicicletta in estate. Stava iniziando a partecipare a festicciole alle quali erano invitate pure le ragazze. Era di natura timido, e faceva con fatica nuove conoscenze. I suoi si trasferirono in città, in un appartamento moderno, anche se di edilizia popolare. Rimase isolato a lungo, dopo quel trasloco, perché i pochi tentativi che fece per recuperare chi aveva lasciato in paese gli fecero capire subito che ormai lui era diventato un estraneo, con il quale non si potevano fare progetti.
In quel periodo Celentano, a Sanremo, presentò: “Il ragazzo della via Gluck”. Lui la imparò a memoria, e la cantò, a volte piangendo.

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Arrampicarsi su un fico con i pantaloncini corti è un'esperienza che non si può descrivere a chi non l'ha mai provata. Credo tuttavia sia preferibile ad un'altra esperienza, che invece per fortuna non ho fatto, e cioè usare una foglia di fico come carta igienica.

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Un maestro spiegò un giorno l’alfabeto Morse, ed un ragazzino, armato di batteria piatta, cavo elettrico, lampadine e la fantasia di realizzare l’impresa, lanciò sull’altra sponda di un canale ora interrato un sasso con una corda. Un altro ragazzino lo raccolse, e tirò a sé il cavo elettrico che il primo aveva legato alla corda. In poche ore due nuovi marconisti iniziarono a comunicare via cavo. Se qualcosa si inceppava, bastava urlare da una sponda all’altra.

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Le finestre e le porte in estate sono coperte da tende di cotone pesante. In casa filtra sempre poca luce, e le mura spesse trattengono ancora un po’ del fresco della notte. Fuori la vampa brucia la pelle, il sudore bagna i vestiti leggeri, e si cerca una zona d'ombra. Dentro l'ombra c'è. E ci sono anche le mosche.

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Via San Romano, a Ferrara, tanti anni fa era la via dei negozi di scarpe e di quelli di abbigliamento, anche se abbigliamento si trovava pure in via Mazzini (ad esempio Fusi).
I suoi portici erano, e sono ancora, bellissimi.
Nelle giornate di nebbia invernale, specialmente il giovedì pomeriggio, ci passava poca gente, visto che i negozi erano chiusi. Era il momento più bello per una passeggiata solitaria, ed il silenzio permetteva di sentire l’eco dei propri passi rimbalzare dai muri degli edifici.

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Frequentavo la Scuola Media Statale "Dante Alighieri", in centro, quando la sua sede si trovava in via Bersaglieri del Po. Partivo il mattino dal paese con l'autobus di linea e tornavo, una volta in settimana, più tardi del solito, perchè il pomeriggio avevo lezione di ginnastica, materia che non amavo molto. A pranzo andavo alla POA (Pontificia Opera di Assistenza) che aveva una mensa in via Adelardi, di fianco alla Cattedrale, pagando abbastanza poco per un primo, un secondo un contorno e l'acqua. Poi avevo quasi un'ora di assoluta libertà, da solo, per girare la città, prima di presentarmi alla palestra di via Savonarola, dentro palazzo Tassoni, ora sede universitaria e, dal 20 maggio 2012, chiuso per inagibilità. A volte il viaggio di andata o di ritorno avveniva su un autobus mitico, chiamato da tutti Pompeo. Pompeo aveva il cofano motore dentro la cabina passeggeri, davanti, in mezzo. Da un lato stava l'autista, dall'altro si apriva la porta automatica. Quando si metteva in moto vibrava ogni cosa. Peccato non sia stato conservato in un museo.

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In via degli Spadari, sotto i portici, a due passi da via Garibaldi, per molti anni è rimasto esposto in una vetrina un magnifico modello del nostro transatlantico "Andrea Doria",  affondato dopo lo speronamento con la nave svedese Stockholm, nel 1956. 
Era uno spettacolo per me che ho sempre ammirato le navi di ogni genere.
 
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A Porotto la scuola elementare è intitolata al mio maestro: Adriano Franceschini.

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Il Festival de l'Unità del periodo d'oro, a Ferrara, si teneva sul Montagnone, dove oggi vanno le giostre e le bancarelle della festa del patrono, il 23 aprile, San Giorgio. Io ci andavo con i miei, rigorosamente dopo cena, a fare l'offerta al Partito, a ricevere il simboletto con falce e martello attaccato con uno spillo alla giacca o al maglioncino. 
A me interessava vedere le luci e le bancarelle, a mio padre sentire i comizi che i dirigenti nazionali tenevano agli iscritti. In quelle occasioni ho sentito parlare Togliatti, Pajetta, Ingrao e diversi altri. Cosa dicessero non lo so, ci capivo ben poco, ma sentivo che la gente approvava e batteva le mani.

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A due passi dalla vecchia basilica di San Giorgio (fuori dalle mura) c'è un piccolo quartiere che un tempo (e forse ancora adesso) si chiamava "concera". Non so se questo avveniva perchè vi si trovava una antica conceria o no, so solo che così in famiglia veniva indicata quella zona. Vi abitavano allora, in piccole casette affiancate e basse, mia nonna paterna, vedova, una zia di mio padre, la più giovane, un mio zio con mia zia e miei cugini. Solo una volta ho dormito, tantissimi anni fa, in quella casa. Il campanile della basilica batteva le ore ed i quarti, in modo assordante per me che non vi ero abituato. Alle ventitrè e tre quarti ha ragiunto il massimo del numero possibile di rintocchi. Quella notte ho dormito pochissimo.

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All'inizio è stato il Diana, dove andavo con mio nonno, negli anni '50. Il Diana era un cinema di seconda visione nella zona di Piazza del Travaglio, dove la domenica la programmazione prevedeva due film, solitamente uno barboso, con storie sdolcinate d'amore ed uno divertente, o a cartoni animati, o con Stanlio e Ollio, o con Jerry Lewis. 
Era un'abitudine, durata non ricordo neppure quanto. Una domenica invece, più tardi, i miei mi hanno portato al cinema teatro Verdi, dove era programmato prima il film, poi la rivista. Il film è stato barboso, ma la rivista una cosa del tutto nuova. Le scene comiche mi sono sembrate bellissime, e sopportavo i vari intermezzi di balletti per rivedere il comico che era molto buffo.
Poi,crescendo, ho avuto anni di vita abbastanza isolata, ed andavo al cinema con frequenza. Costava relativamente poco e l’offerta era notevole. Ricordo sale ormai scomparse, come l’Astra, in viale Cavour, il Corso, in corso Porta Po, il Garibaldi, sulla via omonima. E poi il Ristori, il vecchio Apollo, in Porta Reno, e il San Pietro, e il Rivoli, e il Manzoni, e l’Eden, ed il cinema teatro Nuovo, in piazza Trento e Trieste.  
Nessuno di questi vecchi cinema è rimasto. Il tempo li ha cancellati, fatti dimenticare.
Di alcuni restano scheletri ed insegne corrose dal tempo, di altri nulla.

                                                                                                          Silvano C.©


( La riproduzione è riservata. Ma non c'è nessun problema se si cita la fonte.  Grazie)

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