Cerco
di pronunciarla poco, ma ogni tanto devo. Quando la pronuncio a volte spiego
che non mi piace, ma non sempre. Spesso lascio correre. È noioso ripetere
troppe volte lo stesso concetto, in particolare se ho la vaga impressione che
possa non essere inteso come lo intendo io.
La
parola è cimitero.
Da
quando tu riposi al cimitero io trovo l’espressione odiosa e fuorviante,
pietosa al limite dell’inganno, volutamente consolatoria ma per nulla
oggettiva. Nessuno riposa al cimitero.
Io riposo a letto. Tu riposi all’ombra di un olmo. Lei riposa stesa sulla
sabbia in riva al mare. Noi riposiamo dopo una giornata faticosa. Voi riposate
la mente dopo troppa concentrazione. Essi riposano tranquillamente dopo una
mattinata di giochi. Ma nessuno pensa di andare a riposare al cimitero.
Sino
ad alcuni mesi fa per me era diverso, Viz, non ci stavi tu in
quel non luogo per eccellenza. Nei cimiteri ci entravo con maggior leggerezza e
senso di pace. Sentivo a volte gratitudine per alcuni che avevano lasciato in
quel luogo i loro ultimi resti. Mi sentivo anche bene con me stesso. Ci andavo
volentieri, mentre tu non ne hai mai subito il fascino. Amavi tantissimo tuo
padre, ma non sei mai andata sulla sua tomba dopo che lui è morto. Per te era giusto
così, quindi era giusto e basta. Era una tua libera scelta. Tuo padre non l’hai
scordato, credo, un solo giorno da quando se ne è andato.
Stamattina
sono tornato come faccio d’abitudine a ritrovarti per un breve saluto, se si
vuole pietosamente definire così, ed ho capito finalmente una cosa che mi
covava dentro da un po’. Troppa pace voluta. Troppe statue dal viso rilassato,
al massimo piangenti. Angeli in preghiera, altri simboli dettati da una nostra
convenzione o da una nostra convinzione, ma nulla che potesse tradurre quello che ruggiva dentro
di me.
Nessun
segno di rabbia, di protesta, di dolore non accettato, di rifiuto, non dico
della morte ma di un destino che non si è capito.
Ecco.
Nel cimitero io oggi volevo vedere la rabbia di chi ha dovuto lasciare la vita
troppo presto, di chi ha abbandonato i propri cari e non ne aveva alcuna
intenzione. E avrei voluto vedere anche qualche segno, sempre di rabbia, da
parte di chi è rimasto, da parte di chi non ha accettato tranquillamente perché,
in ogni caso, noi dobbiamo accettare il nostro destino.
Io
lo accetto il mio destino, sia chiaro, non mi posso opporre, ma lo farei
volentieri. Quindi accetto il tuo destino, non avendo il potere di mutarlo,
ma non mi si chieda di approvarlo. Mi sento tradito e derubato. Ti hanno
tradita e derubata. Ti hanno impedito di vivere cose che avresti voluto vivere,
di mangiare un piatto che avresti gradito, di vedere una persona che ti stava
simpatica, di ritornare in un luogo a te caro, di finir di leggere quel libro
che hai dovuto interrompere, di risentire ancora la mia voce, o quella di tuo
figlio.
E
non mi si dica che tu sei qui con noi. È vero. Lo sei. Ma non in quel modo che
vorrei e secondo me sarebbe giusto. Provo solo rabbia per tutto questo, oltre
che odio per quella parola impronunciabile.
Silvano C.©
(La
riproduzione è riservata ma non c'è nessun problema se si cita la fonte,
grazie)
il dolore non è lì,
RispondiEliminail dolore è qui.