Non si scrive per dovere,
non si scrive per piacere,
non ci si oppone a quel che s’impone, e non
vuol sentir ragione.
Il dovere infine stanca ed il piacer non
cerca noia.
(Jean-Hippolyte de
Sainte de Columbrine et de Méliton-Kendel,
Romansure sur la Toimoselle, 16 settembre
1825, circa)
Chiederselo
è un bell’esercizio, ottimo momento introspettivo, che lascia tuttavia il tempo
che trova. Anche a chiederselo con serietà le motivazioni cambiano da un’ora
all’altra, figuriamoci da un mese all’altro, da un anno all’altro.
Ha
un valore storico-sentimentale, è indubbio. È una fotografia stampata su carta che
troviamo magari dopo anni, e ci fa vedere felici con persone che ora sono cambiate,
come noi lo siamo, oppure che abbiamo perso, nella nebbia o nelle scalate,
lasciati indietro da loro o che noi abbiamo abbandonato.
Dire
che si scrive per solitudine è solo in parte vero, se lo si fa perché non si
hanno persone con le quali scambiare alcune opinioni, magari perché non si ha
proprio nessuno. Ammesso che in quel caso sia meglio scrivere e non piuttosto
uscire di casa a cercarlo, quel nessuno che potrebbe diventare qualcuno.
Se
si scrive per dovere, se la scrittura è un lavoro (o solo un lavoro, è più
corretto dire), non deve essere molto piacevole e gratificante. C’è una bella
differenza tra il fare telai di finestre dalla mattina alle otto sino alle
quattro del pomeriggio, comprese le pause per il pranzo, la toilette e il
caffè, e il tornire un piccolo tronco in legno di noce, annusarne il profumo,
ricavare sulla sua superficie motivi e rilievi, assemblando pezzo dopo pezzo un
tavolo unico, non in serie, da artigiano che conserva una libertà in alcune
scelte.
Molto
meglio se si scrive per piacere, è evidente, a condizione tuttavia che non
venga mai a noia, perché in quel caso si abbandona, poco a poco, forse cercando
pure di negarlo agli altri ed a sé stessi, e non si scrive più, si cerca altro.
L’unico
modo che resta non è scrivere perché,
ma lasciarsi scrivere, guardarsi farlo, un po’ stupiti, a volte soddisfatti,
altre addirittura orgogliosi, ma diventare solo esecutori materiali, corpo
prestato alla mente, perché è lei che decide, alla fine, pur dipendendo dal
corpo (sino a quando saremo su questa terra certamente).
Sentirsi
scrittori è già tradire questo principio. Come sentirsi blogger, o padri, o
sorelle, o insegnanti di italiano o volontari della Caritas.
Abbiamo
molti ruoli, ognuno di noi. Ingabbiare quello che siamo in un solo ruolo è un
delitto.
Già
è un grosso handicap essere nati uomini o donne, e non entrambi.
Pochi
sanno essere con la pelle bianca e la pelle nera, nati in un quartiere bene e
in una periferia difficile, vittime e carnefici. Non limitiamoci quindi ad un
ruolo codificato: scrittore o non scrittore. Se per 20 anni non si è scritta
neppure una cartolina da Montecatini, chi ci dice che non sia arrivato il
momento di interrompere l’astinenza, se capita l’occasione?
E
se per alcuni giorni (mesi, anni) nulla pretende di essere scritta, perché inventarci
le cose fingendo il contrario?
Se nel dubbio or ti ritrovi
cerca in te la giusta via,
ché se guardi troppo fuori
poi ti perdi nella nebbia
(Anonimo ferrarese del novecento)
Silvano C.©
(La riproduzione è riservata ma non c'è nessun problema se si cita la fonte, grazie)
Lo scrivere deve essere divertente, oppure avere un motivo. io ultimamente amo sia leggere che scrivere. e leggere mi fa capire come io non sia uno scrittore, ma un artigiano, un operaio della parola. ma mi va bene così. e per ora mi diverto...:-)
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