domenica 11 agosto 2013

Delirio di onnipotenza


Il delirio è una sindrome, cioè un insieme di sintomi che, con modalità o tempi diversi, annullano una modalità condivisa di rapporti e di percezione della nostra condizione umana, della realtà accettata dai più. Ovviamente è una mia elaborazione personale da profano, e non pretendo assolutamente che sia esaustiva o corretta.

L’onnipotenza, a sua volta, è letteralmente la possibilità di fare tutto, che comporta il sapere tutto. Per alcuni è la perfezione assoluta, per altri una condizione infantile e passeggera, per altri ancora una limitazione della libertà personale, e così continuando.
Il delirio di onnipotenza è quindi una condizione contraddittoria, patologica, potenzialmente pericolosa. Sembra quasi una figura retorica, un ossimoro, poiché accosta tra loro due termini per certi versi contrari:

Delirio – malattia, anomalia di giudizio, azione distorta, male.
Onnipotenza – perfezione, potere assoluto, azione positiva, bene.

Quanto sia discutibile il concetto di bene e male è evidente, ed anche di azione o distorta oppure positiva, ma fingo di non vedere questi difetti nel mio ragionamento, e proseguo, perché non intendo fondare una corrente filosofica, e sfrutto solo come artificio questa premessa, per arrivare a quello che mi interessa.

Quando si vede un'ingiustizia e si vorrebbe intervenire direttamente per annullarla, si sfiora questo D.d.O. (delirio di onnipotenza). Noi, in effetti, normalmente non abbiamo questo potere, se non in misura limitata e occasionale. Alcuni possono farlo usando la loro professione, in particolare i giudici, gli uomini di legge, i politici, gli insegnanti quando giudicano, gli assistenti sociali, e tante altre figure, non escluse quelle religiose (anche se con loro il discorso specifico diventa rischioso e preferisco ignorarlo, qui). Ma anche un giudice, fuori dal tribunale, non può nulla o quasi.
Il D.d.O. quindi normalmente rimane un sogno, un cedimento ad un momento di rabbia, una fantasia malata.

Un ottimo modo per esorcizzarlo, questo delirio, è scrivere. Un breve racconto, un romanzo, una poesia, un poema, una canzone. Oppure raccontare storie, con capacità affabulatorie che alcuni hanno e sanno dispensare, facendone talvolta una professione, allo stesso modo degli scrittori. Raccontare con parole o con segni muti da scorrere con gli occhi significa vedere mondi nuovi, paesi lontani, mostrare il reale vicino con altra prospettiva, significa a volte non solo documentare, ma inventare, modificare. Ecco allora che l’assassino, che si nasconde impunito, o che sfugge alla legge umana, non sfugge al romanziere, che lo punisce con sadico potere liberatorio.
E lo stupratore paga decuplicati, senza salvezza finale, i suoi debiti e la sua mancanza di umana pietà. Allo stesso modo lo scrittore, come un dio, porta la salvezza a chi ha subito un torto, restituisce la dignità a chi l’ha persa senza colpa, e ripaga con un artificio la disperazione ed il dolore.

A volte però (questo lo dicono moltissimi grandi scrittori, ed io non posso che prenderne atto) i personaggi diventano autonomi, si svincolano dall’autore, agiscono con libero arbitrio, annullano la sete di onnipotenza che sfiora il delirio, e restituiscono una realtà fantastica che rifiuta ogni morale precostituita e ogni giustizia imposta. Allora l’opera letteraria o il racconto dell’affabulatore sfiorano la perfezione artistica e ci restituiscono alla nostra condizione umana, non certo divina. Perché questo siamo, solo uomini.

                                                                                                    Silvano C.©


( La riproduzione è riservata. Ma non c'è nessun problema se si cita la fonte.  Grazie)

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