Il delirio è una sindrome,
cioè un insieme di sintomi che, con modalità o tempi diversi, annullano una modalità condivisa di rapporti e di percezione della nostra
condizione umana, della realtà accettata dai più. Ovviamente è una mia
elaborazione personale da profano, e non pretendo assolutamente che sia
esaustiva o corretta.
L’onnipotenza, a sua volta,
è letteralmente la possibilità di fare tutto, che comporta il sapere tutto. Per
alcuni è la perfezione assoluta, per altri una condizione infantile e
passeggera, per altri ancora una limitazione della libertà personale, e così
continuando.
Il delirio di onnipotenza è
quindi una condizione contraddittoria, patologica, potenzialmente pericolosa.
Sembra quasi una figura retorica, un ossimoro, poiché accosta tra loro due
termini per certi versi contrari:
Delirio – malattia, anomalia
di giudizio, azione distorta, male.
Onnipotenza – perfezione,
potere assoluto, azione positiva, bene.
Quanto sia discutibile il
concetto di bene e male è evidente, ed anche di azione o distorta oppure
positiva, ma fingo di non vedere questi difetti nel mio ragionamento, e
proseguo, perché non intendo fondare una corrente filosofica, e
sfrutto solo come artificio questa premessa, per arrivare a quello che mi
interessa.
Quando si vede un'ingiustizia e si vorrebbe intervenire direttamente per annullarla, si sfiora
questo D.d.O. (delirio di onnipotenza). Noi, in effetti, normalmente non
abbiamo questo potere, se non in misura limitata e occasionale. Alcuni possono
farlo usando la loro professione, in particolare i giudici, gli uomini di
legge, i politici, gli insegnanti quando giudicano, gli assistenti sociali, e
tante altre figure, non escluse quelle religiose (anche se con loro il discorso
specifico diventa rischioso e preferisco ignorarlo, qui). Ma anche un giudice,
fuori dal tribunale, non può nulla o quasi.
Il D.d.O. quindi normalmente
rimane un sogno, un cedimento ad un momento di rabbia, una fantasia malata.
Un ottimo modo per esorcizzarlo,
questo delirio, è scrivere. Un breve racconto, un romanzo, una poesia, un
poema, una canzone. Oppure raccontare storie, con capacità affabulatorie che
alcuni hanno e sanno dispensare, facendone talvolta una professione, allo
stesso modo degli scrittori. Raccontare con parole o con segni muti da scorrere
con gli occhi significa vedere mondi nuovi, paesi lontani, mostrare il reale
vicino con altra prospettiva, significa a volte non solo documentare, ma
inventare, modificare. Ecco allora che l’assassino, che si nasconde impunito, o
che sfugge alla legge umana, non sfugge al romanziere, che lo punisce con
sadico potere liberatorio.
E lo stupratore paga
decuplicati, senza salvezza finale, i suoi debiti e la sua mancanza di umana
pietà. Allo stesso modo lo scrittore, come un dio, porta la salvezza a chi ha subito un torto, restituisce la dignità a chi l’ha persa senza colpa, e ripaga con un
artificio la disperazione ed il dolore.
A volte però (questo lo
dicono moltissimi grandi scrittori, ed io non posso che prenderne atto) i
personaggi diventano autonomi, si svincolano dall’autore, agiscono con libero
arbitrio, annullano la sete di onnipotenza che sfiora il delirio, e
restituiscono una realtà fantastica che rifiuta ogni morale precostituita e
ogni giustizia imposta. Allora l’opera letteraria o il racconto
dell’affabulatore sfiorano la perfezione artistica e ci restituiscono alla
nostra condizione umana, non certo divina. Perché questo siamo, solo uomini.
Silvano C.©
( La riproduzione è riservata. Ma non c'è nessun problema se si cita la fonte. Grazie)
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