Vedi caro il mio Camillo, o
Filippo, scusami sai, ma non ricordo bene i nomi e me li confondo, ho troppi
studenti, troppi, e non restano mai gli stessi, cambiano ogni anno, anche i
migliori ai quali mi affeziono, che poi dicono sia giusto, che sia naturale
andare avanti, ma io intanto dove vado? Non mi pare di andare molto avanti da
qualche tempo. In ogni caso, Davide, tu sei Davide, vero, mi sembra che sia
quello il tuo nome, il problema è che stiamo perdendo il legame con noi stessi
e con chi eravamo prima di adesso. Alla tua età, Andrea, io avrei spaccato il
mondo o mi sarei buttato senza pensarci troppe volte in imprese senza speranze
ma solo con l’illusione di fare qualche cosa di positivo, o di soltanto bello. Ora
che le speranze le ho perse quasi tutte vorrei trovare luoghi sicuri, che mi ridiano
le motivazioni e le rassicurazioni. Ho sete di consolazione, sto diventando
debole, è un segno che il mio tempo sta finendo. Ma vedi caro il mio Giovanni, abbiamo
perso il contatto con l’uomo, ora siamo numeri, peggio che nei campi di
sterminio. Peggio perché ci sembra di aver conquistato la democrazia e l’uguaglianza
e tanti diritti mentre siamo solo più lontani uno dall’altro. Abbiamo assistenza
ma siamo soli. E perderemo anche l’assistenza ma resteremo soli, caro il mio
Vincenzo.
(Da un dialogo tratto da “L’errata
ragione”, di Giampaolo Guezzi Roversi)
Quando un dirigente scolastico si ritrova a
rivestire il ruolo che prima era di tre direttori didattici e di due presidi,
cioè a dirigere 5 diversi istituti scolastici con oltre 800 alunni e più di 150
insegnanti, senza contare i vari assistenti nelle classi e tutto il personale non
insegnante in segreteria e nelle varie sedi e succursali come potrà mai avere
un rapporto umano con i suoi troppi alunni? Non sarebbe stato meglio lasciare
in ogni sede un dirigente con meno potere e una retribuzione più bassa ma molto
più attento ai bisogni delle persone?
Il problema della razionalizzazione passa
anche attraverso l’annullamento dell’umanità, di quella che un tempo si
chiamava solidarietà di quartiere, di paese, di vicinato, tra colleghi. E calpesta
in modo irrazionale esattamente quei bisogni che apparentemente dice di voler
difendere.
In una società più giusta ma più fredda,
attenta ai principi di fondo ma disposta, per quei principi, a non ascoltare il
grido che, di tanto in tanto ognuno di noi lancia nel vuoto alla fine tutti
perdiamo qualcosa per avere in cambio solo il bisogno di denaro, che da solo
non basta mai.
Io avrei bisogno di un medico che mi tratti
da amico, che si interessi a me personalmente e non nella massima correttezza
possibile ma sempre a distanza, per non dare l’impressione agli altri di fare
favoritismi. Se io fossi seguito in tal modo il medico mi direbbe di fare
controlli anche quando non necessari secondo le tabelle ufficiali, e, forse, mi
potrebbe scoprire un tumore in fase molto precoce e permettermi così di curarmi
nel modo migliore, prima che diventi troppo tardi. Però se un medico deve avere
1500 assistiti è difficile che possa curare tutti con la stessa attenzione,
come se fossero suoi amici, o parenti, o meritevoli di interesse specifico.
Avrei bisogno di un sindacato capace di
seguire le mie esigenze e quelle di mio figlio e dei miei familiari, di essere
consigliato meglio riguardo ai miei ed ai loro diritti, sia che lavorino, sia
che siano in pensione sia che il lavoro lo cerchino. Ma il sindacato non ha personale
che segua in modo continuo i suoi stessi iscritti, quindi io non ho il mio
sindacalista personale ed ogni volta ad ascoltarmi trovo l’incaricato del
momento, non la stessa persona. E in questo modo, a volte, posso perdere l’occasione
per fare la domanda giusta per avere la pensione che mi spetta, o la riduzione nelle
tasse prevista dalla legge ma della quale io non sono (colpevolmente) a conoscenza.
Avrei bisogno di un impiegato delle poste o
della banca che mi rispetti come persona e non mi tratti solo da cliente al
quale proporre un prodotto commerciale molto utile all’istituto ma non al
sottoscritto. In questo modo sentirei maggiormente fiducia in chi mi sta di
fronte invece di dubitare sempre di più davanti agli impiegati ogni volta nuovi
che mi ricevono e che, alla fine, mi trattano solo come un numero.
Io non vivrei mai in un piccolo paese, e non
tornerei mai dove son nato, mi sentirei soffocare. Non rinuncerei mai al
condominio non potendomi permettere una casa indipendente con il minimo di
sicurezza che ritengo necessaria, oggi. In queste mie scelte però, che hanno
coinvolto milioni di italiani come me, c’è il seme di un mutamento drammatico, forse
irreversibile, che mi ha condannato a quello che cercavo: l’anonimato.
E nei confronti di un anonimo si deve essere
corretti, rispettosi delle leggi e della buona educazione, ma non è necessario
essere amici.
Silvano C.©
(La
riproduzione è riservata ma non c'è nessun problema se si cita la fonte,
grazie)
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