Il terrore, il rifiuto del vuoto, come l’ho sempre inteso
io. Esiste, e non solo in natura, ma nella mente umana, nel suo stato di
default, per così dire. Forse non per tutti, perché generalizzare è sempre un
atto di presunzione, ma è una condizione abbastanza condivisa.
Nella connessione costante è ovvio che la paura del vuoto,
dell’abbandono e della solitudine trova un suo antidoto virtuale e virale.
Abbastanza innaturale per chi non è nativo digitale, per alcuni addirittura
incomprensibile, ma in realtà accettato, a volte come surrogato, altre volte
con tutta la potenza delle sue capacità di coinvolgimento, tanto da preferire
un contatto con chi vive a centinaia di chilometri a quello di chi è a pochi
metri, a portata reale e non mediata. E certi contatti, una sorta di rapporto
epistolare in tempo reale (senza arrivare a quelli molto più coinvolgenti con
voce e video) sono sicuramente importanti, reali, e coinvolgono persone, non
pacchetti di bytes ben confezionati ed esclusivamente virtuali.
Quando per qualche motivo il collegamento cade si avverte il
senso di vuoto, di distacco. La cosa è accettabile solo perché si sa che è una
condizione temporanea, una sorta di influenza che si deve superare per poi
riprendere la vita di tutti i giorni, non è qualche cosa di peggiore,
definitivo, inappellabile.
Tuttavia esiste anche questo. Il distacco definitivo. E può
essere il nostro o quello di una persona che ci è o ci era vicina.
Esiste la morte, insomma. La fine di ogni esperienza terrena
e di tutto quello che oggi è il nostro quotidiano.
A questo vuoto non esiste rimedio se non l’accettazione.
Ognuno reagisce secondo la propria convinzione, pensando a qualche cosa che
avverrà dopo o rinunciando ad ogni ulteriore proiezione, ma oltre all’accettare
non esistono alternative. È così.
Il fatto è che la vita inizialmente non prevedeva la morte,
la vita biologica intendo, e che questa è intervenuta solo in un secondo
momento sul piano evolutivo, ed è arrivata come miglioramento, non certo come
forma di punizione per il singolo individuo bensì come accelerazione del
processo.
I primi semplicissimi organismi non morivano mai
naturalmente, ma semplicemente di sdoppiavano, da uno che erano diventavano
due. Tale modalità riproduttiva esiste ancora oggi, per le forme di vita più
elementari.
In tale situazione la morte arriva soltanto per cause
esterne: mutate condizioni ambientali, mancanza di cibo, malattie o predazione.
Ovviamente senza mai scordare i problemi di spazio. Nessun organismo può in
nessun caso riprodursi all’infinito occupando più dello spazio a
disposizione.
‘In Voluptas Mors’, 1951, di Salvador Dalì |
Solo in un secondo momento è arrivata la morte, programmata
in modo tale da permettere alle generazioni successive una maggior velocità nel
cammino evolutivo, una più efficiente adattabilità, un miglioramento, insomma.
Il meccanismo è doppio, è stato studiato e dimostrato sin dai tempi di Darwin,
e consiste nella combinazione di due forze per certi versi contrastanti. La
selezione naturale, che permette la sopravvivenza degli organismi più adatti, e
l’evoluzione con la ricombinazione di caratteristiche presenti in proporzioni
diverse nei genitori, unita all’eventualità, sempre presente, di mutazioni
genetiche casuali.
La possibilità che i figli siano diversi dai genitori, anche
se in misura minima, rappresenta quindi una velocizzazione del processo
evolutivo, e questo comporta sesso e morte. Eros e Thanatos, come dicevano gli
antichi.
Il vuoto è parte integrante del pieno della nostra vita,
anche se ci spaventa. Come le formiche tendono a coprire con ogni genere di
oggetto a loro portata un'eventuale cavità o buco nel loro ambiente, riempiendo
gli spazi vuoti, così esattamente noi combattiamo la solitudine cercando gli
altri, con i mezzi che abbiamo a disposizione, senza realizzare mai in modo
completo e stabile il nostro desiderio.
( La riproduzione è riservata ma non c'è nessun problema se si cita la fonte, grazie)
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