Una tesi consolatoria capace di generare non
pochi sensi di colpa è quella secondo la quale stare vicini ai propri cari
praticamente sempre, in ogni momento dei tanti bisogni della vita, sia utile
per non dover poi pentirsi di non averlo fatto, e preservi in qualche modo da
un assillo che impiega poco a farsi strada dentro, peggio di un tarlo, peggio
di un parassita mimetizzato nel tessuto vivente del suo ospite.
Ci credo sempre meno. Il dolore riaffiora sempre,
come le feci nell’acqua limpida. Solo la corrente è in grado di disperderlo,
cioè il tempo, ma secondo i suoi ritmi, non i nostri. Alla lunga star troppo
vicini a qualcuno, in certe occasioni, è persino controproducente, è
asfissiante. Abbiamo tutti bisogno, chi più chi meno, della nostra libertà.
Abbiamo anche bisogno di vicinanza, di
complicità, di qualcuno col quale condividere anche la più stupida delle idee
che ci passa per la mente, oppure per consigliarci su temi importanti.
Abbiamo bisogno di raggiungere un equilibrio tra
esigenze opposte.
Ora, oggi, in questi minuti, cosa cambierebbe se
io venti anni fa fossi andato ad un pranzo con tutta la famiglia? Non ci sono
andato, avevo i miei motivi, forse ho creato delusione, e col passare del tempo
ho anche avuto modo di spiegarmi. Però non sono andato. E cosa muta ora che i
miei sono morti, che mia moglie è morta, che mio fratello è lontano? Avrei forse
un ricordo piacevole in più? Non so cosa me ne farei.
A modo mio ho amato i miei, e ci ho pure litigato
in modo folle. Eppure li ricordo in altre occasioni. Ad esempio ho rimosso
certe cerimonie ufficiali o quasi. Credo anche di averne le foto, ma non le
guardo ormai più. E di Vittoria cosa
dovrei dire? Che rimpiango ogni momento che non ho vissuto con lei quando avrei
potuto? È vero, lo rimpiango perché lo rivorrei ora, da rivivere, ma non per
ricordarlo. Se vedo alcune sue foto, quasi tutte ormai, crollo e non so trattenere
le lacrime. Non sono pronto ancora per lasciarla andare ma lei è già andata,
non aspetta me. Io la trattengo, e lei mi parla, ma non so cosa avrei dovuto
fare di diverso rimanendo me stesso.
Lei rispettava la mia libertà, e così mi voleva. Avrebbe
voluto anche altre cose, che non le ho dato, ma ha accettato che io non le
facessi, ha preferito sapermi più forte e con meno problemi. Ha taciuto
talvolta per proteggermi, come già ho ripetuto tante volte. Quello che è
avvenuto prima ormai conta nulla. È importante come ci raccontiamo la nostra
verità, come la capiamo lentamente, come siamo aiutati a ricostruirla, come
riusciamo ancora a guardarci nello specchio e a non vederci come mostri.
Sono deluso da troppe cose che capitano a me ed a
tanti altri. Sono incazzato col destino che le ha rubato il suo diritto di
vedere andare finalmente in porto alcuni progetti. E quegli stessi progetti ora
sono cose diverse, hanno un sapore amaro quando finalmente li assaporo.
Ad un’amica ho raccontato che in fondo noi due
non abbiamo avuto una vita infelice malgrado le enormi difficoltà incontrate
ogni tanto. Abbiamo viaggiato quanto basta, abbiamo conosciuto quanto volevamo,
io l’ho amata meno di quanto avrei potuto, secondo lei, ma molto di più a modo
mio. Non possiamo lamentarci se non del fatto che ci è mancata la ciliegina
sulla torta, la conclusione che aspettavamo da tempo, cioè la possibilità di
invecchiare assieme. Quella ci è stata negata, ed io non me do pace.
Di tutto il resto non posso che ringraziare sia
lei, per quanto ha saputo darmi, sia il destino, per avercelo concesso.
Mi viene da piangere al pensiero di essere stato
tanto fortunato.
Silvano C.©
(La
riproduzione è riservata ma non c'è nessun problema se si cita la fonte,
grazie)
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