In Via Porta S. Pietro, a Ferrara, c’è una chiesa un po’ particolare.
Dovrei però dire che lo era, una chiesa, e ormai non lo è
più. Anzi, era una basilica, eretta attorno alla metà del X secolo, come
testimonia una lapide marmorea posta da Ferrariæ Decus sui suoi muri esterni in
mattoni rossi, cioè ben prima dell’erezione dell’attuale cattedrale, ed era
legata alla cattedrale di Ferrara di quel tempo, cioè alla Basilica di San Giorgio fuori le mura.
Questa chiesa venne ricostruita nel secolo XV, quello
della nascita della città rinascimentale e moderna voluta dagli Estensi
(Ferrara è stata definita la prima città moderna d’Europa), ed in seguito, con
l’arrivo di Napoleone, sconsacrata. Venne restaurata nel 1941, omai in epoca
bellica, e in seguito divenne uno dei tanti cinema in città, il San
Pietro.
In quel cinema sono andato molte volte, prima che le cose
mutassero radicalmente, sino a trasformare quel luogo in una sorta di spazio
fuori dal tempo, sospeso tra un passato che non c’è più ed un presente che
pochi accettano, almeno ufficialmente, ma che mantiene la forza di una
tradizione.
Ora l’antica chiesa è diventata il cinema a luci rosse
Mignon, e su quella sala è stato girato anche un documentario che riporta lo
stesso nome del cinema: Mignon.
Il West in piazza d'Armi: cow-boys, cow-girls, cavalli, indiani e pistoleri nel primo mega show americano d'esportazione
I bambini non credono sempre agli adulti. Negli anni Cinquanta, una
nonna raccontava al nipote, a letto con l'influenza: "Sai Claudio che
tanti anni fa, ero una ragazza, è venuto Buffalo Bill a Ferrara, e ho
visto il suo circo in Piazza d'Armi." Una bugia, sospettava il bambino;
Buffalo Bill altro non era che un personaggio da fumetto. Eppure, quella memoria avrebbe lasciato un segno sul futuro
ricercatore di storia del circo. Da adulto, avrebbe scoperto che
quell'eroe leggendario non solo era stato un uomo in carne ed ossa, ma
aveva davvero calpestato le strade della nostra città. (continua a leggere)
Ci guardano, mute, sembrano osservarci e giudicarci, o
forse sono solo indifferenti, nessuno lo sa.
Noi viviamo per un tempo breve, e per loro siamo meno che
falene, ci è impossibile tentare di parlare la loro lingua, se mai ne hanno
una, se mai comunicano, e forse lo fanno.
Eppure si muovono, come neppure riusciamo a realizzare con
la nostra esperienza limitata. Nascono, vivono e muoiono.
Pare che alcune che sembrano vive in realtà siano morte
tanto tempo fa, ma ancora stanno tra le altre, o sembrano stare, sarebbe più
giusto dire, come se non volessero perdere la compagnia delle sorelle, che pur
lontane per noi forse non lo sono per loro.
Non so cosa vogliano farci capire, ammesso che abbiano
questa intenzione, le stelle.
I racconti della fatica e del dolore sembravano favole belle con
un lieto fine, perché chi li raccontava era in vita, ed aveva ottenuto qualche
risultato con i propri sforzi.
Quelle narrazioni però non erano immagini lontane, momenti
di lotte e riscatti, vicende che non ci sarebbero mai toccate.
La vera favola (o illusione) è la prospettiva del miglioramento lento e
continuo, del progresso tecnologico e scientifico inarrestabile affiancato dal
miglioramento delle condizioni di vita e delle conquiste continue sul piano dei
diritti umani.
A questa occorre smettere di credere, come non si crede più
alla fatina dei dentini o a babbo natale.
La provincia di Ferrara ai primi del secolo scorso era
povera, l’economia era legata all’agricoltura ed i grandi proprietari terrieri
non amavano troppo legarsi a lavoratori ai quali garantire un rapporto
regolare. Preferivano assumere al momento del bisogno e licenziare quando il
lavoro non serviva. E questo significava miseria e fame, malattie e scarsissima
educazione. Solo chi sapeva leggere e scrivere poteva votare, e non le donne.
La prima guerra mondiale ha portato altra miseria e
sacrifici, oltre alla morte, anche se la provincia non è stata toccata
direttamente da quel primo conflitto.
Poi è arrivato il fascismo, che ha fatto presa facilmente,
malgrado tutta l’area fosse a maggioranza socialista, grazie alla violenza
organizzata degli squadristi ed alla convinzione tra strati sempre più larghi
della popolazione che le amministrazioni precedenti non avessero saputo lavorare
con onestà ed efficienza. In realtà l’arretratezza congenita dell’area non era
colpa degli amministratori locali ma del predominio del latifondo e della
difesa delle classi più fortunate, e il dissesto economico provocato dalla
guerra aveva complicato ulteriormente la situazione. I singoli comuni non
avevano alcuna possibilità di intervenire in modo incisivo.
Il fascismo in seguito non ha fatto altro che allearsi con gli
stessi grandi proprietari terrieri e, di fatto, la povertà, invece di
diminuire, è aumentata.
La ricostruzione della città, in parte per darle un volto
moderno e razionalista, ma anche per offrire lavoro alle migliaia di disoccupati,
ha mutato di poco la vita di chi poteva contare solo sulle proprie braccia per
mangiare e sfamare i figli. Poi è venuta la seconda guerra mondiale, ed i
nostri bisnonni, nonni e genitori hanno pagato duramente quegli anni, senza
uscire dalla miseria e, in più, con le tragedie della violenza,
dell’occupazione tedesca e della guerra civile.
La prima metà del secolo scorso, insomma, non è stata un
periodo da invidiare, o da preferire all’oggi.
Poi sono arrivati gli anni 50 e 60, gli anni della
ricostruzione e delle speranze. Si sono commessigrossi errori ma, in quei tempi, nessuno sembrava rendersene
conto. Ognuno poteva pensare di comprarsi una Vespa o una Lambretta, e subito
dopo una piccola Fiat. Era finito, finalmente, il periodo delle Topolino solo
per chi aveva soldi. E poi si poteva aspirare ad una casa col bagno, col
riscaldamento. Andava bene pure in condominio, in periferia, dimenticando la
vecchia e cadente casa in paese.
E si è iniziato a vivere sopra i propri mezzi, con la
sensazione di benessere diffuso e ormai stabilizzato, anche per i propri figli,
che non avrebbero più dovuto soffrire come i loro genitori, ma avere comodità e
possibilità di studiare, come i figli dei signori, per farsi una posizione e
migliorare la propria situazione sociale.
Una manciata di anni, prima delle avvisaglie del declino
imminente, che ancora in pochi vedevano, ed erano presi per portatori di
malaugurio.
Si era illusa una generazione che la vita fosse una favola,
che il progresso fosse come un treno lanciato ad alta velocità, praticamente
inarrestabile.
Invece, prima drammaticamente e poi tragicamente, si è capito che non tutti potevamo vivere da ricchi, che per ottenere
qualche cosa occorreva adattarsi ai lavori più umili, oppure emigrare, o
comunque spostarsi dal proprio luogo di origine.
Ora il consumismo e l'economia finaziaria hanno creato falsi bisogni, che devono essere
soddisfatti a tutti i costi, ma alcuni lavori, ancora, in pochi sono disposti a
svolgerli. Si delocalizza? Certo. Si licenzia e si riassume a minor stipendio e
senza garanzie? Certo. Ma i nostri nonni, che razza di garanzie avevano, e come
vivevano? Forse abbiamo scordato che, per chi nasce in certe condizioni, la
vita era, è e sarà sempre dolore.
La foto mi ricorda che mio
padre, quando si passava in questa parte della città, mi raccontava sempre che
era stato lui a costruire quei palazzi, quando era muratore. Ed una volta, cadendo
da un’impalcatura, a momenti è rimasto ucciso, al suolo.
Cosa rimane dello spazio che si è scelto per vivere, se si è
stati fortunati e si è potuto averlo, quello spazio?
Forse quello spazio è solo una costruzione mentale, possiede
una dimensione ideale, non fisica. Sicuramente è anche così. Ci si adatta
all’ambiente che ci accoglie, che si ruba, che si ottiene per un breve momento,
che ci viene proposto, offerto, venduto anche.
E poi, quando noi non ci saremo più, quello spazio vuoto,
vuoto di noi, che destino avrà? Io non trovo risposte convincenti, solo nuove
domande, o riesco a formulare ipotesi sulla base di quello che ho visto, ma non
su quello che non vedrò.
E non è detto che il passato si ripeta, esattamente con le
modalità già osservate almeno.
Gli spazi urbani, a partire dalle piccole situazioni dei
paesi per arrivare alle grandi realtà metropolitane sono quasi entità autonome,
piccoli o grandi formicai nei quali il singolo individuo si perde, e lascia ben
poco di suo. Rimangono i segni potenti di momenti storici particolari, a volte
contrassegnati da enormi demolizioni e altrettanto importanti costruzioni o
ricostruzioni. Capita che qualcuno imponga il suo nome ad una di queste
trasformazioni, mentre in altri casi sia il risultato di un lavoro continuo e
collettivo, meno personalizzato ma sempre invasivo.
Il tempo cioè impone la sua legge, il suo pensiero dominante
anche se momentaneo, e l’individuo non può che assecondarlo. Non serve
accettarlo o condividerlo, tanto sarà così ugualmente e ci si dovrà solo
abitare, abituandosi.
Tutto cambia tuttavia quando si tratta di una singola casa,
che può essere un appartamento o un edificio completo e più importante.
Queste mura si riempiono della presenza delle persone molto
di più, perché vi hanno dormito e giocato, gioito e sofferto, hanno vissuto
l’amore e l’odio, a volte la violenza, e la noia, o la tranquillità che allora
non si percepiva come normalità, e sembrava destinata a durare, in modo
indefinito.
Quelle persone hanno colorato le pareti, scelto mobili,
messo quadri o stampe, usato calendari, accumulato documenti, fotografie, libri
o musica, attrezzi, abiti. Hanno coltivato piccole o grandi piante, hanno
cucinato ed impregnato le cose.
Le cose, sempre le cose, quelle inutili cose che non valgono
come le persone, ma che sono ciò che le persone fisicamente lasciano, oltre al
ricordo ed all’assenza.
Sembra, vivendo altrove e vedendo un amico molto raramente,
che lui rimanga inalterato. Un po’ come l’immagine interna che abbiamo di noi
che non sempre corrisponde a quella che ci restituisce lo specchio. Ma anche
per lui il tempo passa.
Allo stesso modo il gioco del bambino che chiude gli occhi e
fissa l’immagine che ha appena visto, e la mantiene esattamente immobile.
Oppure, all’opposto, immagina che tutto sparisca, che nulla
esista più.
Tutto questo è la lontananza, che non capisce sino in fondo
il tempo che passa, che confonde l’assenza con una semplice distanza spaziale
colmabile usando un mezzo diffuso come l’auto, o, ma questo è più immediato, il
telefono. Il telefono è il più duro, perché obbliga a capire immediatamente. Ma
ancora offre scappatoie logiche. Non sembra definitivo.
L’auto invece (o il treno, o l’aereo, il senso non cambia)
permette di pensare nell’attesa. Ma poi, trovando il vuoto, le cose senza le
persone, la realtà si impone, e la domanda iniziale riemerge.
Ora, questo spazio vuoto di loro, dove hanno vissuto, cosa
diventerà?
Nella foto parte del chiostro dell'antico ospedale Sant'Anna, a Ferrara, costruito attorno al 1443 su un convento preesistente per volere degli Estensi. Tutta l'area, negli anni '30 del secolo scorso, subì una vera rivoluzione urbanistica, l'ospedale venne trasferito vicino alle mura, in corso Giovecca, e in quest'area sorsero il museo di storia naturale, il conservatorio Frescobaldi, il centro Boldini e le scuole elementari Alda Costa. La piazzetta Sant'Anna nel sito del Comune di Ferrara
dovrebbe essere il contrario.
ho letto tutto degli scrittori che non mi hanno voluta. pochi. anzi uno
solo. non che abbia cercato di farmeli tutti eh, si fa per dire… dai…
era ovvio volessi capire che cosa avesse di strano nella testa quel
tizio: di solito, e lo dice anche Houellebecq, il maschio prende tutto
ciò che gli si offre.
È da un po’ che vorrei parlare ancora di uomini che
uccidono donne, e di femminicidio. Poi non ho trovato le parole giuste, ed ho lasciato perdere,
continuando però a pensarci. Il termine non mi piace, questo credo di averlo già scritto,
e vorrei evitare di ripetermi anche sul resto. Tuttavia, poiché le tragedie non
si fermano, e nuovi casi si aggiungono quasi giornalmente, io penso sempre a
questa cosa. Non ne posso parlare ogni momento, ovviamente, ma ci penso.
Sono arrivato alle considerazioni che sintetizzo qui di
seguito, più che altro per chiarire a me stesso, e capire se hanno una loro
logica.
Alcuni passaggi sono necessari, prima di arrivare al punto. Credo che il maschio, per sua natura, sia più violento,
almeno sul piano fisico, della donna. Questo per motivi evolutivi, genetici,
storici e sociali.
Penso che pure la donna possa essere violenta ed uccidere
l’uomo, o i figli ed altri. Le cronache non nascondono questi casi. Aggiungo che un uomo, talvolta, può uccidere una donna ma
non perché è donna. E comunque è maggiore il numero di omicidi perpetrati da
uomini rispetto a quelli realizzati da donne.
Un femminicidio, per arrivare al punto, è l’uccisione di una
donna da parte dell’uomo per solo fatto, o per la motivazione prevalente, che è
una donna. A compierlo è chi si sente in qualche modo “autorizzato” dalla sua
condizione di maschio che deve dominare, che non può essere lasciato, che deve
ottenere comunque la realizzazione del proprio desiderio sessuale, che non è
disposto a cedere ad altri ciò che “possiede”.
Prevenirlo, oggi, è praticamente impossibile. La prevenzione
richiede tempi lunghi, vuole educazione lenta e costante, cerca piena ed uguale
dignità sul piano sociale, religioso, lavorativo, economico e politico. Per
prevenirlo occorrerebbe una famiglia che fa crescere i figli con modalità
nuove, altrimenti il ciclo non si interrompe. La scuola poi deve supplire alle
carenze delle famiglie, ma deve essere quella pubblica statale, non una
parificata confessionale, che, per il fatto stesso di essere confessionale, ha
un peccato originale da scontare. Dove non arrivano famiglia e scuola
dovrebbero fare la loro parte i mezzi di informazione, che però certamente non
lo fanno, anzi diseducano. Infine toccherebbe al livello politico imporre con la
legge quello che il buon senso sembra non capire. Ma anche qui ci si scontra
con posizioni tradizionali, quando non chiaramente omofobe, che rifiutano il
pieno riconoscimento di ciascuna persona in ogni sua espressione.
Quindi? Quindi sono pessimista, perché famiglia, scuola,
informazione e politica sono carenti, sotto questo aspetto. Ma credo pure che,
malgrado non sia alla portata attuale una soluzione radicale, sia però
possibile fare piccoli ed importanti passi in ognuno di questi settori.
Alternative non ne vedo.
A volte esco, al sole, perché pure a me piace guardarmi
attorno, vedere gente, sentire l’aria della primavera, osservare il passeggio
apparentemente molto impegnato di chi non ha nulla da fare oppure l’ansia evidente
di chi invece non trova mai il tempo di far tutto.
Io, da Topo, non capisco questo strano modo di vivere, e
da quando ho imparato a leggere lo capisco ancora meno.
Me se invece di vivere annoiandovi e senza nulla da fare
aiutaste invece chi non riesce a finire tutti i suoi lavori non sarebbe meglio?
Ognuno di voi vivrebbe meglio, intendo. Perché se poi la piantaste di
infastidirmi vivrei meglio pure io.
Da quando ho letto che la cultura non dà da mangiare, non
ricordo neppure dove, confesso di aver pensato di non aver mai capito niente.
Io, che sono cartofago e che con la cultura ci mangio eccome, sono entrato in
crisi, per qualche giorno. C’è voluta Topa, che a volte mi spiega le cose che
non capisco, per svelarmi il mistero. Lei non ha mai imparato a leggere, in
compenso sa ascoltare, e poi parla, parla con me, ovviamente, ma anche con le
altre, e sa molte più cose di me. Cose pratiche, utili, necessarie per tutte le
situazioni difficili, e anche quelle meno pratiche, come ad esempio come si chiamano
tutti quegli insetti che a me sembrano tutti uguali.
Io, come Topo di biblioteca, a volte preferisco stare
solo, tra i libri e le riviste, e mi isolo dal mondo, passando le giornate a
guardare le figure, ad annusare le carte di annate diverse, ad assaggiarne ogni
tanto qualche bordo un po’ consumato dal tempo. Non arrivo a tutti i volumi, ed
alcuni poi sono troppo pesanti per aprirli e sfogliarli. Mi arrabbio molto
quando trovo qualche libro rovinato, qualche tomo antico ed importante,
intendo. Io quelli non li mangio. Al massimo li annuso. Sanno di muffa buona,
di polvere e di legno di scaffale, oppure di cuoio, visto che alcuni hanno una
copertina molto importante.
Leggo tutto quello che posso raggiungere e sfogliare, e
mangio solo i libri che nessuno tocca mai da tanti anni, quelli messi in
qualche angolo, che ogni tanto spariscono. Forse li buttano, non so perché.
Eppure sono ancora molto buoni.
Io sono felice di quello che faccio, mi piace proprio. Non
so a chi racconterò tutte le cose che ho imparato e sto ancora imparando. Devo
parlarne con Topa. Magari mi darà qualche idea, sono certo che lei ha quella
giusta. Devo anche raccontarle quello che ho scoperto oggi, e che mi ha fatto
arrabbiare. Chiamano topo di biblioteca chi legge da solo tutto il giorno e
rimane sempre chiuso senza vedere gli altri, si isola ed è preso in giro da chi
invece pensa di fare cose che giudica molto più importanti ed interessanti. È
una cosa brutta, detta in questo modo. Non mi piace.
È un destino triste quello di essere fraintesi dagli altri
e magari derisi, solo perché si ama leggere. A me piace pure uscire, mica resto
qui tutto il giorno. Ho già detto che mi piace stare al sole, a guardare la
gente, ma devo stare attento che non mi vedano, altrimenti finisce male. Puoi
benissimo immaginare che fine mi fanno fare se mi vedono. Ma ho i miei posti
sicuri, dove posso stare tranquillo. Una volta mi sono appisolato, su un ramo,
guardando quelli che passavano sotto di me, e quasi cadevo di sotto. Stavo
ricordando dei viaggi nei quartieri lontani, quando ero ancora un topino
piccolo. Che scoperte. Quante cose nuove. E che paure, quando capitavo dove non
dovevo mettere il muso.
Devo raccontarvi però, prima di tornare a leggere, che le
carte più buone non sono quelle tutte patinate o coloratissime. Sono belle da
vedere ma non da mangiare. Neppure i giornali e le riviste sono buoni. Fanno
cattivo odore ed hanno un cattivo sapore. Sono saporiti solo quelli stagionati.
Quelli dell’annata 1990 e quelli ancora più vecchi hanno guadagnato molto, se
conservati all’asciutto, e lasciano un retrogusto piacevole che rimane anche
dopo averli masticati e deglutiti. I migliori sono i libri degli anni 30 e 40,
con carta grossa, fatta di vera cellulosa, a volte anche con stracci, come
tanti anni prima. Quelli però sono solo per le occasioni speciali. Sono troppo
belli per mangiarli. Mi piace anche solo guardarli, o sfogliarli facendo molta
attenzione.
in una tiepida serata primaverile ecco che penso a te.
a te innamoramento adolescenziale.a te batticuore feroce. a te frase fatta sempre in agguato.
(continua a leggere)
Per il vocabolario Treccani è, in genere, il fatto e la
capacità di censurare sé stessi, sorvegliando e limitando l’espressione dei
proprî pensieri e sentimenti o, comunque, controllando il proprio linguaggio. È utile, ne abbiamo bisogno, limitiamo con questo la
nostra libertà, è controproducente e crea solo danni e frustrazione? Mica so
rispondere a tutte queste domande. O meglio. Io ho una risposta, ma non vale
sempre e non per tutti. Cioè ho una semplice opinione, e tale la reputo, anche
se la applico.
Sicuramente si può intendere come soluzione di comodo per
non esporsi, ne sono perfettamente consapevole e non rifiuto a priori tale
interpretazione, o ancora come disponibilità eccessiva al compromesso,
ammettendo di saper dare un limite certo al giusto ed allo sbagliato.
Personalmente ritengo invece prevalente un’altra
posizione, cioè il controllo della propria azione in funzione della posizione
che si occupa nella società e del contributo che si è disposti a dare. Sul
piano personale invece il non dare libero sfogo ad ogni cosa che può passare
per la mente, perché, nella mente, passa di tutto, compresi istinti omicidi.
Sul piano sociale il parlare senza vincoli e senza pensare
alle conseguenze delle proprie parole è tipico degli stadi giovanili. Se agito
in altri momenti della vita è impossibile non vedere sotto le parole “libere”
un disegno preciso, un tentativo di influenzare, senza la mediazione della
ragione, i più deboli. In questo caso autocensura coincide con autocontrollo,
ed è finalizzato a trasmettere messaggi non edulcorati, certo, ma neppure
negativi per partito preso. Ad esempio un personaggio molto seguito sui social
riversa su chi lo segue messaggi sempre critici, polemici, che vanno a scavare
negli errori e nella malafede del potere, in modo sistematico, raramente
costruttivo, cioè con soluzioni alternative praticabili. È nato per stare
all’opposizione, e questo è sicuramente accettabile. Tuttavia un giorno, tanto
tempo fa, ricordo di avergli fatto una domanda, più o meno in questi termini:
Tu continui a vedere nero ovunque, e anche andando indietro di giorni non vedo
nulla di vagamente ottimista tra le cose che scrivi. Possibile che stamattina,
ad esempio, non sia stata una bella mattina, o che con gli amici tu non sia
andato in pizzeria a passare una bella serata? Ovviamente non ho avuto
risposta.
Sul piano personale il discorso è un po’ diverso. Sino a
che punto siamo liberi? Un esempio educativo chiarificatore è il seguente. Un ragazzino delle elementari, con la madre, è in giro a
far compere. Incontrano un’amica della madre la quale, dopo i saluti di rito,
con mossa psicologica un po’ discutibile, chiede al ragazzino come va a scuola. - Sono fatti miei – risponde senza incertezze il
ragazzino. E puntuale arriva la sberla della madre. Chi ha sbagliato nell’episodio narrato? Tutti, chiaramente
tutti. È un esempio di comunicazioni errate.
Occorre frenare sempre quello che ci verrebbe automatico
rispondere, specialmente in caso di provocazioni. E mediare, saper valutare se
le nostre parole possono essere “cattive” inutilmente, quindi evitarle. Non si
possono seguire tutti i più elementari istinti in nome di una libertà
individuale massimo valore indiscutibile. Ci sono gli amici, i genitori ed i
figli, i compagni, i colleghi e chi si incontra ogni giorno che meritano
rispetto. Lo stesso che vorremmo noi, e non sempre otteniamo.
Nel rapporto a due, chiunque siano i due, è evidente poi che il freno è legato al
conoscersi, al rispettarsi, al desiderio di non ferirsi, e, allo stesso tempo,
al non snaturare la propria personalità. È un equilibrio, una conquista
continua, un avanzare ed un cedere terreno.
Esiste una validissima alternativa. Si chiama solitudine
col proprio enorme io.
L’immagine è di Ludwig
Richter, illustrazione per Robinson Crusoe, 1848
Tu pensala pure come vuoi, io ti racconterò solo di me.
Fingerò talvolta di pensare ad altro o ad altri, di incuriosirmi, di mostrarmi
disponibile. Non fidarti.
Se leggo a mia volta ciò che altri scrivono, grandissimi
scrittori o ignoti personaggi come il sottoscritto, non posso che continuare a
convincermi sempre più di questa idea. Ognuno scrive solo della propria vita,
della propria esperienza, dei propri interessi. E lo stesso vale per chi
racconta, invece di scrivere, assolutamente stessa situazione, anche se il
mezzo muta.
E molti cercano di imporsi, vorrebbero farsi leggere,
cercano di vendere le loro idee, le sentono importanti, e non capiscono come
sia possibile che altri noti nei campi più diversi possano avere un successo
indiscutibile di vendite con libri che valgono poco o nulla, superficiali e
ripetitivi, a volte scopiazzati, oppure, nella migliore delle ipotesi,
consolatori, frutto di una sapiente opera di adeguamento del loro lavoro al
gusto, spesso discutibile, del pubblico che legge.
Eppure anche questi (e anche tu, se sei uno di loro) non
possono che variare sul loro tema, e se non riescono a realizzare quanto
desiderano non hanno molte vie di scampo. Non possono mentire, in altre
parole.
Ma non c’è da stupirsi. È la realtà che si appiattisce
sull’ovvio, sul facile, sul comprensibile senza fatica, su ciò che solletica
l’illusione di essere simili al famoso calciatore, alla presentatrice
televisiva, all’opinionista furbo.
Studiare è faticoso, approfondire un tema senza sbilanciarsi
in commenti idioti porta via tempo, fare una battuta spiritosa paga molto di
più, e crea più facilmente il consenso. Se si tocca il sesso in modo un po’
morboso ma elegante si spunta più facilmente. Io, ad esempio, tra tutti i post
che ho scritto per questo blog, vedo che uno in particolare, non
particolarmente riuscito, a mio giudizio, ma grazie ad un titolo fortunato e ad
una immagine evocativa da luci rosse, viene aperto, e forse letto, in modo
regolare.
Mica lo rinnego, sia chiaro. Io sono quello, e sono anche
altro, perché dovrei dire che non è così? Se dovessi vendere farei molta più
attenzione, avrei qualcuno a darmi consigli commerciali, a correggermi gli
errori macroscopici, ma per fortuna mia non è quello che devo fare.
Il desiderio di raccontare è quello che alla fine rimane. A
volte seguo a ruota libera i pensieri, come in questo caso. In altri momenti mi
perdo a cercare informazioni, a leggere libri, a recuperare notizie in rete, e
poi mi azzardo in una ricostruzione, oppure tento una cronaca relativamente
oggettiva.
Sono sempre io però. E se pure tu, che ora mi leggi, cedi al
desiderio di scrivere, sai che sei sempre tu, in mille modi diversi, certo, ma
sempre tu.
Sarà anche finzione, è chiaro, perché molto viene raccontato
volutamente camuffato da altro, o perché un blocco impedisce di arrivare sino
al fondo, che è oscuro, squallido, banale, o pauroso.
E le citazioni, i libri letti di altri, che posto occupano
nel nostro essere necessariamente noi stessi e nel variare ossessivamente lo
stesso tema? Ma è ovvio, non ti pare? Sono citazioni. Cioè si scelgono
quelle parti di un discorso altrui che corrispondono esattamente a quello che
noi intendiamo dire.
Come pensava il Zanferighi, scrivendo il suo purtroppo
raramente citato “La notte delle lucertole”, il cacciatore si nasconde per
occultarsi alla sua preda, e quella tenta di mimetizzarsi per sfuggire alla
fine che l’aspetta, prima o poi.
Ed in questo gioco mortale senza fine qualche cosa emerge di
tanto in tanto, e diviene visibile, fatalmente.
Ma è sempre una variazione, nulla di veramente nuovo.
Prima di tutto alcune note per descrivere l’ambiente di
Ferrara in quegli anni, ben più importanti della mostra stessa.
Nonostante non abitasse più a Ferrara dal 1926, Balbo
mantenne con la propria città un legame fortissimo, ritornando di frequente,
anche se per brevi periodi. Molti ricordano che amava passeggiare per le vie
del centro e fermarsi nei bar più rinomati per incontrare i propri amici e per
avere contatti con le personalità più importanti della città. Tra la fine degli
anni ‘20 e la metà degli anni ’30, Ferrara si presentava come una città nella
quale si moltiplicavano le grandi manifestazioni ed i cortei di piazza che
avevano il compito di celebrare le grandi ricorrenze fasciste.
Crebbero a dismisura le organizzazioni di regime “col
dichiarato (e in larga parte realizzato) proposito di inquadrare tutta la
popolazione e di controllare tutte le manifestazioni di vita collettiva”.
Questa politica fu condotta, genericamente a livello
nazionale, ma in una provincia come quella ferrarese, “ebbe un ruolo maggiore
che altrove, per la necessità di colmare il vuoto lasciato dalle organizzazioni
socialiste e (per) la presenza di masse potenzialmente ostili di braccianti,
per la relativa debolezza della borghesia e della chiesa cattolica ferraresi,
portate ad appoggiarsi al fascismo assai più che nelle province in cui avevano
radici più salde ed articolate, e per la ricchezza di iniziativa del gruppo
dirigente che faceva capo a Balbo”.
Un altro elemento deve essere sottolineato se si vuole
comprendere quale clima, dopo aver fatto ampio uso della violenza per arrivare
ad imporsi, Balbo volesse creare nella città estense: Ferrara venne
gratificata, durante il ventennio fascista, di un’amministrazione comunale
onesta ed efficiente, guidata sapientemente prima dal sindaco Caretti, e quindi
dal podestà Ravenna che “seppero conciliare le tradizioni di ‘buon governo’
dell’amministrazione liberale, la difesa degli interessi di classe e
un’apertura alle esigenze propagandistiche a più livelli del regime fascista”.
Un accenno ai rapporti tra Balbo e Mussolini non può essere
evitato se si vuole cercare di comprendere il clima nel quale la città estense
visse la propria esistenza durante il ventennio.
E’ noto che Balbo fu, tra tutti i gerarchi del fascismo,
l’unico ad essere temuto da Mussolini quale possibile antagonista nella guida
del paese. Per il duce Balbo “era un gerarca autorevole, ma la sua indubbia
superiorità rispetto alla media degli altri collaboratori di Mussolini non gli
dava alcuna garanzia di conservare e accrescere la sua posizione, ma ne faceva
semmai un concorrente potenziale per il dittatore, anche al di là delle sue
intenzioni”.
Per tornare alla Ferrara degli anni del consenso non deve
essere dimenticato che il fascismo cercò di sviluppare attivamente un altro
settore della cultura locale, quello universitario. La Libera Università di
Ferrara era piccola, ma quasi completamente asservita al fascismo. Veniva
finanziata dalle banche e dagli enti locali, che ne esprimevano il consiglio di
amministrazione del quale Balbo fu presidente; “i docenti del piccolo ateneo
erano fascisti militanti o filofasci, a dimostrazione della perfetta
integrazione tra cultura vecchia e nuova”.
Già nel 1928 il fascismo ferrarese aveva mostrato il proprio
interesse per gli studi sindacali con l’inaugurazione, avvenuta il 12 novembre
di quell’anno, alla presenza delle maggiori autorità locali e di Balbo, della
laurea in Scienze
sociali e sindacali. A questa iniziativa fece seguito, nel
1935, l’istituzione di una scuola sindacale che era presentata “come l’ultimo
atto necessario al completamento del percorso di studi sindacali”.
Ma il tentativo di creare un vero e proprio indirizzo di
studi corporativi venne messo in atto nel 1936 con l’istituzione di una Scuola
post-universitaria di Perfezionamento in discipline corporative, che doveva
sostituire la Facoltà di Scienze sociali e sindacali, ma che finì per non
ottenere il successo che si era previsto.
Balbo e il suo gruppo, quindi, lavoravano per accrescere il
proprio prestigio e a Ferrara cominciava a respirarsi aria di grandi
avvenimenti e di manifestazioni di carattere culturale. La rivisitazione del
luminoso passato rinascimentale della città veniva sempre più spesso proposta,
ispirando gli eventi che attiravano sulla città estense l’attenzione degli
ambienti culturali italiani e stranieri. Si trattava di avvenimenti diversi che
“si inserivano nella strumentalizzazione del grande passato nazionale per la
gloria del regime, portando però a modello non una Roma imperiale e
pretenziosa, ma una Ferrara rinascimentale equilibrata e armoniosa”.
Una città impegnata nella riscoperta di un passato glorioso,
quello di una signoria, gli estensi, che governò in maniera dittatoriale una
popolazione agri- cola poverissima, afflitta da tasse esorbitanti, ma che, allo
stesso tempo, usò la cultura, l’arte e la scienza per affermare ed accrescere
il proprio prestigio tra le grandi famiglie di quel tempo.
L’operazione tentata a Ferrara all’inizio degli anni
trenta non poteva prescindere dalla presenza nella città estense di grandi
personalità che si impegnarono personalmente nel difficile progetto: Angelo Facchini,
Nives Comas Casati, Nello Quilici, Renzo Ravenna, Agnelli, Ravegnani, sono
alcuni dei protagonisti di quel vivacissimo frangente della storia ferrarese.
A questo punto, in relazione alla presenza fondamentale di
Renzo Ravenna e di altri ebrei all’interno della politica messa in atto da
Balbo nella città estense, appare importante sottolineare il ruolo centrale
che, all’interno di tale realtà ha sempre rivestito la Comunità israelitica.
Abbiamo citato tra i nomi dei più importanti collaboratori di Balbo l’avvocato
Renzo Ravenna, primo podestà della città estense, che mantenne questo incarico
dal 1926, sino alla promulgazione delle leggi razziali nel 1938. Questa figura,
prioritaria all’interno della politica di creazione del consenso attuata a
Ferrara da Balbo, esemplifica, in qualche modo, il rapporto tra la città
estense ed il gruppo ebraico locale. A Ferrara non esisteva un ‘problema’
ebraico; la comunità, che al momento delle leggi razziali contava circa 700
aderenti, “era una delle più anziane e meglio inserite di tutta Italia. Contava
una maggioranza di media borghesia commerciale, una minoranza proletaria e un
certo numero di agrari medi e grandi, tra i quali alcuni dei più ricchi
proprietari della provincia”.
Gli ebrei in questa città erano inseriti a pieno titolo nel
tessuto connettivo sia dal punto di vista economico, sia da quello sociale:
“infatti furono in grande maggioranza fascisti ferventi”.
Non semplice, quindi, l’intento di descrivere quale fu
l’impatto delle leggi razziali sulla popolazione ferrarese non ebraica da
sempre abituata a convivere con questa componente perfettamente integrata della
società. Balbo riconosceva il legame esistente tra il fascismo ferrarese e
molti dei componenti della comunità; per questo motivo, pur essendo conscio
dell’impossibilità di fermare Mussolini, nella riunione del gran Consiglio del
6 ottobre 1938, tentò di attenuare la portata della legislazione, ottenendo
appoggio solo in De Bono e Federzoni.
La messa in opera delle leggi razziali produsse a Ferrara
numerose vittime illustri, primo tra tutti il podestà Ravenna, che si dimise
dall’incarico “per evitare ai fascisti ferraresi l’imbarazzo di allontanare
dal palazzo comunale un personaggio tanto in vista e, soprattutto, intimo amico
di Balbo. Balbo non ottenne di bloccare la legislazione antisemita; nonostante
ciò egli “manifestò ripetutamente la sua amicizia verso Ravenna ed altri ebrei
cacciati dalle loro cariche...Lo stesso atteggiamento tenne il fascismo
ferrarese, che accettò l’antisemitismo senza crederci ed espulse dalla
collettività alcune centinaia di persone che pure non sentiva diverse: una
dimostrazione di meschinità politica e morale, a ben vedere non poi così
sorprendente nel clima grigio e conformista della dittatura fascista e in una provincia
che trovava del tutto nato naturale condannare alla più nera miseria la metà
almeno dei suoi abitanti”.
in questo clima nacque l’idea della mostra.
Corrado Padovani ricorda come «Nell’autunno del 1932, a
Roma, Italo Balbo, discutendo con altri ferraresi della prossima
celebrazione del IV centenario della morte di Ludovico Ariosto, colse l’idea di
una mostra d’arte antica da tenersi a Ferrara e la fece sua. Col direttore
generale delle Belle Arti, Arduino Colasanti, con Nello Quilici, direttore del
“Corriere Padano” e con Renzo Ravenna, podestà di Ferrara, decise così di
organizzare una esposizione dell’arte antica ferrarese»
Una volta specificato che l’idea della mostra risale in
realtà all’inverno precedente e che direttore generale delle belle arti non era
allora Colasanti ma Roberto Paribeni - che ha infatti avuto una parte
importante negli eventi che portarono all’esposizione - è certo che l’idea
dell’iniziativa nacque nella più ristretta cerchia dei collaboratori di Balbo.
La possibilità di commemorare il centenario ariosteo con una
mostra d’arte ferrarese del Quattro e Cinquecento fu prospettata infatti
per la prima volta da Renzo Ravenna alla riunione istitutiva del Comitato
organizzatore delle celebrazioni, tenutasi nella residenza municipale il 1°
marzo 1932.
Si trattava di un progetto di cui rimaneva da verificare la
realizzabilità, innanzitutto finanziaria, nato al di fuori dell’iniziativa del
Comitato promotore dell’Ottava d’Oro e difatti non compreso nel programma delle
manifestazioni presentato in quell’occasione.
All’aprirsi di un dibattito fra chi riteneva opportuno
limitare i prestiti dall’estero e concentrare gli sforzi sui pittori meno
rappresentati in Pinacoteca e chi invece pensava che, per destare interesse, la
mostra dovesse raccogliere le opere ferraresi sparse nel mondo, Ravenna
chiarì immediatamente di aver già parlato dell’argomento con Italo Balbo, «il
Quale vuole che la mostra non abbia carattere paesano, ma assurga bensì
ad interesse nazionale». Fu chiaro fin da principio che, se avesse avuto luogo,
l’iniziativa sarebbe stata concepita in modo tale da diventare l’avvenimento
principale delle celebrazioni.
Per questo, mentre l’organizzazione delle altre
manifestazioni venne delegata alle competenti sottocommissioni, quella della
mostra fu sempre tenuta saldamente in mano dal podestà.
Invitato a riferire entro un mese sulle possibilità dell’esposizione, Arturo Giglioli, direttore onorario della pinacoteca,
presenta la sua relazione il 2 aprile successivo.
Si tratta di una lista di settantun dipinti preceduta da una
pagina giustificativa delle scelte fatte. Sia le note di commento alle opere più
importanti che la breve sintesi storica introduttiva ricalcano, non
solo le attribuzioni, ma anche i giudizi e la terminologia della Storia
dell’arte italiana di Venturi. Secondo Giglioli la rappresentazione in mostra del
secolo - o, meglio, dei due mezzi secoli - d’oro ferrarese doveva affidarsi esclusivamente
alle opere dei grandi maestri: Tura, Cossa, de’ Roberti, Costa, Dosso e il
Garofalo. La selezione dei dipinti è stata chiaramente effettuata sfogliando i
volumi di Venturi e scegliendo fra le opere riprodotte quelle provenienti da
collezioni italiane, preferibilmente pubbliche, a cominciare ovviamente dalle
raccolte ferraresi, fra cui la Vendeghini, i cui dipinti non erano compresi
nell’apparato illustrativo della Storia.
I prestiti dall’estero sono solo quattordici (non undici,
come riportato nel testo), ma irrinunciabili per la riuscita dell’esposizione.
Significativamente, dodici di essi riguardano i tre grandi del Quattrocento,
solo due Lorenzo Costa; di Dosso Dossi si prevede unicamente la richiesta di
opere da gallerie pubbliche italiane, mentre per il Garofalo si intende
risolvere limitandosi ai dipinti in pinacoteca. La scelta è fatta in modo che
il numero delle opere in mostra sia ripartito equamente fra i sei autori, con
circa una dozzina di opere per ciascuno.
L’aspetto organizzativo ed economico è liquidato in
sei-sette righe: l’allestimento è improntato al risparmio, con cavalletti e
tramezze in legno, per una spesa di circa 8.000 lire
(contro le 130.000 che saranno preventivate da Barbantini).
Da ricordare che
anche il Palio di San Giorgio non poteva mancare in quel 1933
Ferrara.
Alla presenza di S.M. il Re si è chiusa la celebrazione del IV Centenario
Ariostesco
Nelle celebrazioni ferraresi di Ludovico Ariosto l'Italia rivendica con rinnovato titolo le glorie spirituali del rinascimento che diedero luce e lezione al mondo.