I racconti della fatica e del dolore sembravano favole belle con
un lieto fine, perché chi li raccontava era in vita, ed aveva ottenuto qualche
risultato con i propri sforzi.
Quelle narrazioni però non erano immagini lontane, momenti
di lotte e riscatti, vicende che non ci sarebbero mai toccate.
La vera favola (o illusione) è la prospettiva del miglioramento lento e
continuo, del progresso tecnologico e scientifico inarrestabile affiancato dal
miglioramento delle condizioni di vita e delle conquiste continue sul piano dei
diritti umani.
A questa occorre smettere di credere, come non si crede più
alla fatina dei dentini o a babbo natale.
La provincia di Ferrara ai primi del secolo scorso era
povera, l’economia era legata all’agricoltura ed i grandi proprietari terrieri
non amavano troppo legarsi a lavoratori ai quali garantire un rapporto
regolare. Preferivano assumere al momento del bisogno e licenziare quando il
lavoro non serviva. E questo significava miseria e fame, malattie e scarsissima
educazione. Solo chi sapeva leggere e scrivere poteva votare, e non le donne.
La prima guerra mondiale ha portato altra miseria e
sacrifici, oltre alla morte, anche se la provincia non è stata toccata
direttamente da quel primo conflitto.
Poi è arrivato il fascismo, che ha fatto presa facilmente,
malgrado tutta l’area fosse a maggioranza socialista, grazie alla violenza
organizzata degli squadristi ed alla convinzione tra strati sempre più larghi
della popolazione che le amministrazioni precedenti non avessero saputo lavorare
con onestà ed efficienza. In realtà l’arretratezza congenita dell’area non era
colpa degli amministratori locali ma del predominio del latifondo e della
difesa delle classi più fortunate, e il dissesto economico provocato dalla
guerra aveva complicato ulteriormente la situazione. I singoli comuni non
avevano alcuna possibilità di intervenire in modo incisivo.
Il fascismo in seguito non ha fatto altro che allearsi con gli
stessi grandi proprietari terrieri e, di fatto, la povertà, invece di
diminuire, è aumentata.
La ricostruzione della città, in parte per darle un volto
moderno e razionalista, ma anche per offrire lavoro alle migliaia di disoccupati,
ha mutato di poco la vita di chi poteva contare solo sulle proprie braccia per
mangiare e sfamare i figli. Poi è venuta la seconda guerra mondiale, ed i
nostri bisnonni, nonni e genitori hanno pagato duramente quegli anni, senza
uscire dalla miseria e, in più, con le tragedie della violenza,
dell’occupazione tedesca e della guerra civile.
La prima metà del secolo scorso, insomma, non è stata un
periodo da invidiare, o da preferire all’oggi.
Poi sono arrivati gli anni 50 e 60, gli anni della
ricostruzione e delle speranze. Si sono commessi grossi errori ma, in quei tempi, nessuno sembrava rendersene
conto. Ognuno poteva pensare di comprarsi una Vespa o una Lambretta, e subito
dopo una piccola Fiat. Era finito, finalmente, il periodo delle Topolino solo
per chi aveva soldi. E poi si poteva aspirare ad una casa col bagno, col
riscaldamento. Andava bene pure in condominio, in periferia, dimenticando la
vecchia e cadente casa in paese.
E si è iniziato a vivere sopra i propri mezzi, con la
sensazione di benessere diffuso e ormai stabilizzato, anche per i propri figli,
che non avrebbero più dovuto soffrire come i loro genitori, ma avere comodità e
possibilità di studiare, come i figli dei signori, per farsi una posizione e
migliorare la propria situazione sociale.
Una manciata di anni, prima delle avvisaglie del declino
imminente, che ancora in pochi vedevano, ed erano presi per portatori di
malaugurio.
Si era illusa una generazione che la vita fosse una favola,
che il progresso fosse come un treno lanciato ad alta velocità, praticamente
inarrestabile.
Invece, prima drammaticamente e poi tragicamente, si è capito che non tutti potevamo vivere da ricchi, che per ottenere
qualche cosa occorreva adattarsi ai lavori più umili, oppure emigrare, o
comunque spostarsi dal proprio luogo di origine.
Ora il consumismo e l'economia finaziaria hanno creato falsi bisogni, che devono essere
soddisfatti a tutti i costi, ma alcuni lavori, ancora, in pochi sono disposti a
svolgerli. Si delocalizza? Certo. Si licenzia e si riassume a minor stipendio e
senza garanzie? Certo. Ma i nostri nonni, che razza di garanzie avevano, e come
vivevano? Forse abbiamo scordato che, per chi nasce in certe condizioni, la
vita era, è e sarà sempre dolore.
La foto mi ricorda che mio
padre, quando si passava in questa parte della città, mi raccontava sempre che
era stato lui a costruire quei palazzi, quando era muratore. Ed una volta, cadendo
da un’impalcatura, a momenti è rimasto ucciso, al suolo.
Silvano C.©
( La riproduzione è riservata ma non c'è nessun problema se si cita la fonte, grazie)
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