Per il vocabolario Treccani è, in genere, il fatto e la
capacità di censurare sé stessi, sorvegliando e limitando l’espressione dei
proprî pensieri e sentimenti o, comunque, controllando il proprio linguaggio. È utile, ne abbiamo bisogno, limitiamo con questo la
nostra libertà, è controproducente e crea solo danni e frustrazione? Mica so
rispondere a tutte queste domande. O meglio. Io ho una risposta, ma non vale
sempre e non per tutti. Cioè ho una semplice opinione, e tale la reputo, anche
se la applico.
Sicuramente si può intendere come soluzione di comodo per
non esporsi, ne sono perfettamente consapevole e non rifiuto a priori tale
interpretazione, o ancora come disponibilità eccessiva al compromesso,
ammettendo di saper dare un limite certo al giusto ed allo sbagliato.
Personalmente ritengo invece prevalente un’altra
posizione, cioè il controllo della propria azione in funzione della posizione
che si occupa nella società e del contributo che si è disposti a dare. Sul
piano personale invece il non dare libero sfogo ad ogni cosa che può passare
per la mente, perché, nella mente, passa di tutto, compresi istinti omicidi.
Sul piano sociale il parlare senza vincoli e senza pensare
alle conseguenze delle proprie parole è tipico degli stadi giovanili. Se agito
in altri momenti della vita è impossibile non vedere sotto le parole “libere”
un disegno preciso, un tentativo di influenzare, senza la mediazione della
ragione, i più deboli. In questo caso autocensura coincide con autocontrollo,
ed è finalizzato a trasmettere messaggi non edulcorati, certo, ma neppure
negativi per partito preso. Ad esempio un personaggio molto seguito sui social
riversa su chi lo segue messaggi sempre critici, polemici, che vanno a scavare
negli errori e nella malafede del potere, in modo sistematico, raramente
costruttivo, cioè con soluzioni alternative praticabili. È nato per stare
all’opposizione, e questo è sicuramente accettabile. Tuttavia un giorno, tanto
tempo fa, ricordo di avergli fatto una domanda, più o meno in questi termini:
Tu continui a vedere nero ovunque, e anche andando indietro di giorni non vedo
nulla di vagamente ottimista tra le cose che scrivi. Possibile che stamattina,
ad esempio, non sia stata una bella mattina, o che con gli amici tu non sia
andato in pizzeria a passare una bella serata? Ovviamente non ho avuto
risposta.
Sul piano personale il discorso è un po’ diverso. Sino a
che punto siamo liberi? Un esempio educativo chiarificatore è il seguente.
Un ragazzino delle elementari, con la madre, è in giro a far compere. Incontrano un’amica della madre la quale, dopo i saluti di rito, con mossa psicologica un po’ discutibile, chiede al ragazzino come va a scuola.
- Sono fatti miei – risponde senza incertezze il ragazzino. E puntuale arriva la sberla della madre.
Chi ha sbagliato nell’episodio narrato? Tutti, chiaramente tutti. È un esempio di comunicazioni errate.
Un ragazzino delle elementari, con la madre, è in giro a far compere. Incontrano un’amica della madre la quale, dopo i saluti di rito, con mossa psicologica un po’ discutibile, chiede al ragazzino come va a scuola.
- Sono fatti miei – risponde senza incertezze il ragazzino. E puntuale arriva la sberla della madre.
Chi ha sbagliato nell’episodio narrato? Tutti, chiaramente tutti. È un esempio di comunicazioni errate.
Occorre frenare sempre quello che ci verrebbe automatico
rispondere, specialmente in caso di provocazioni. E mediare, saper valutare se
le nostre parole possono essere “cattive” inutilmente, quindi evitarle. Non si
possono seguire tutti i più elementari istinti in nome di una libertà
individuale massimo valore indiscutibile. Ci sono gli amici, i genitori ed i
figli, i compagni, i colleghi e chi si incontra ogni giorno che meritano
rispetto. Lo stesso che vorremmo noi, e non sempre otteniamo.
Nel rapporto a due, chiunque siano i due, è evidente poi che il freno è legato al
conoscersi, al rispettarsi, al desiderio di non ferirsi, e, allo stesso tempo,
al non snaturare la propria personalità. È un equilibrio, una conquista
continua, un avanzare ed un cedere terreno.
Esiste una validissima alternativa.
Si chiama solitudine col proprio enorme io.
Si chiama solitudine col proprio enorme io.
L’immagine è di Ludwig
Richter, illustrazione per Robinson Crusoe, 1848
Silvano C.©
( La riproduzione è riservata ma non c'è nessun problema se si cita la fonte, grazie)
Nessun commento:
Posta un commento
I commenti offensivi o spam saranno cancellati. Grazie della comprensione.