giovedì 17 dicembre 2015

felicità

Credimi, dipingere è la mia vita, lo è adesso e lo è sempre stato. Credo di essere arrivato a dipingere la vita stessa, alla fine, e ci sono arrivato non per caso. Se avrai la pazienza di ascoltarmi lo capirai pure tu, e mi darai ragione.

Da piccolo dipingevo ogni cosa mi capitasse a tiro, e puntualmente mio padre, se io gli capitavo a tiro, mi spiegava che alcune cose, come ad esempio le pareti o le sue camicie bianche, non bisognava dipingerle. Me lo spiegava non a parole, e le sue lezioni mi sono rimaste impresse in modo indelebile, ovviamente. Ed ovviamente aveva ragione, dal suo punto di vista e da quello di mia madre, che in questo, malgrado mi sostenesse, non poteva difendermi.

A scuola non mi andava di perdere tempo con la matematica, la storia, la geografia e le letture noiose che ci assegnavano per educarci al bello ed alla riflessione. Mi annoiavo, perdevo gli anni, riempivo il quaderno dei temi con i disegni, consumavo tutti i pastelli colorati, i tubetti di tempera, i carboncini, gli inchiostri in quelle bottigliette piccole e che sembravano dei cubetti col tappo. Perché non c’era solo la china nera, ma anche quella gialla, rossa, verde, un verde brillante bellissimo, e poi altri colori che ora non ricordo più. Sono passati tanti anni.

Consumavo i miei colori, consumavo quelli dei miei malcapitati compagni di banco, e poi li rubavo a volte nei negozi di materiali artistici, o nelle cartolerie, o nei grandi magazzini. E non mi hanno mai pescato con le mani nel sacco. Una volta una commessa mi prese di mira, lo ricordo come se fosse ora, ma io me ne accorsi. Finsi di mettere in tasca di nascosto un pennarello indelebile blu cobalto, un bellissimo cobalto, e lei mi fece fermare da un addetto alla sorveglianza. Ne uscii pulito come un angioletto, con l’aria stupita ed ingenua di chi non capisce perché succede quello che gli succede. Però evitai per anni, poi, quel reparto del grande magazzino. Avevo osato troppo. E smisi di rubare; avevo capito cosa stavo rischiando.

Se ho venduto molti quadri? Macché, neppure uno. La stagione dei quadri è durata pochissimo, e l’ho esaurita prima dei venticinque anni. La mia prima tela mi aveva esaltato, lo confesso. La portai a far vedere ad un vicino di casa ed amico di famiglia oltre che pittore affermato ed inserito nel mondo dei galleristi. Le parole che mi disse furono affettuose, ma in sintesi mi demolì. Io non ero adatto a dipingere quadri. Ne dipinsi ugualmente alcuni altri, ma infine mi arresi.
Io, in effetti, potevo colorare oggetti in legno o piccole statue bianche che dopo sembravano personaggi vivi. Ridipinsi interi presepi in cartapesta, in terracotta e persino in plastica. Dipinsi centinaia di piccoli modellini di auto, navi, aerei, e casette e piccoli oggetti che per molti anni portai in giro per mercati.

Non guadagnavo molto, in quel momento particolare della mia vita, giusto quanto mi serviva per vivere, senza concedermi lussi o sprechi. Ma mi divertivo, credimi, mi divertivo. Avevo sempre amici interessanti attorno, e mai nessuno che mi cercasse per approfittare di me, visto che non avevo praticamente nulla, vivevo in due stanze in affitto, fredde in inverno e soffocanti in estate, e potevo offrire solo la mia compagnia. E pure le ragazze, in quegli anni, furono un regalo, ognuna di loro, nessuna esclusa. E le ricordo anche tutte, con affetto. Cosa credi, che non le abbia amate, a modo mio? Non sono state tante, quello no, ma non ero solo, mai. A volte restavano a dormire nel mio letto due amiche, che si amavano tra di loro e stavano assieme, ma che per me avevano un debole, entrambe, ed alla fine ci divertivamo. Nadia e Gianna, che non vedo da tanti anni. Stanno ancora assieme, ma ora vivono in un paesino olandese dal nome impossibile.

Una volta, per carnevale, un gruppo di ragazze stava per andare ad una festa e mi si avvicinò. Mi chiesero di dipingere loro il viso esattamente come se fosse quella maschera che stavo offrendo in vendita nel mio piccolo banchetto, al solito posto, dietro la piccola chiesa dell’Inviolata. Io non avevo colori adatti ma quelli li avevano loro, perché pensavano di dipingersi a vicenda.  Pare che poi per loro sia stato un successo, alla festa, dopo il mio lavoro sui loro visi, e una di loro, originaria di Baltimora e che sarebbe tornata negli States entro un paio di settimane, mi fece la classica offerta che capita una sola volta nella vita. Se fossi partito con lei sarei stato spesato di ogni cosa ed avrei lavorato in uno dei negozi della catena di suo padre, un centro di estetica che voleva offrire un servizio di trucco simile a quello che lei aveva provato direttamente su di sé.

Non avevo passaporto, ma neppure legami che mi trattenessero. Donna in compenso aveva agganci potenti, ed ebbi il passaporto, col visto, esattamente in dieci giorni. Miracoli del dollaro. E sei giorni dopo ero a Baltimora, tra statunitensi, senza conoscere una sola parola di inglese, e senza alcun italiano nel giro di chilometri. Fui sistemato in un minuscolo appartamento in un motel per viaggiatori, lontano dall'esercizio nel quale avrei dovuto mettere in mostra le mie abilità, ma raggiungibile con una linea di autobus molto efficiente. Sin dall’inizio ebbi successo, e anche se lavoravo poco venni pagato in modo molto generoso. Poi capii che ero una specie di richiamo, la persona strana chiamata apposta per divertire chi si poteva permettere quel centro estetico costosissimo ed esclusivo. E mi sentii tradito.

Tradito ma sempre fortunato. Un regista capitò dove lavoravo, si informò, mi presentò ad un fotografo professionista, e di nuovo, nel giro di un mese, la mia vita prese un’altra direzione. Da un giorno all’altro iniziai a dipingere le modelle di quel fotografo, e nel centro estetico tornai soltanto per un paio di giorni a settimana. Ora non più solo i volti, o le mani. Le modelle posavano nude, ed io le dipingevo nude, su tutta la pelle del corpo. Divenni famoso, devi saperlo. Io potevo dipingere una modella e coprirla di colore sino a farla sembrare vestita, o far credere che indossasse un costume da bagno. In qualche caso le mie modelle uscirono persino in strada, o posarono per servizi ai bordi di piscine o sulle spiagge di Gibson Island, vestite solo del mio colore. Mi stai invidiando? Lo so, tutti lo fanno quando racconto questa cosa. Ma non credere che sia come pensi tu. Quelle donne bellissime e nude a volte non mi vedevano neppure, erano attente solo che non rovinassi la loro pelle, pensavano a come poi avrebbero posato, mi mostravano il loro corpo nudo come io lo mostro ad un gatto, o ad un cane. Non tutte, certo, Marion ad esempio era diversa. Marion chi è dici? Ma è mia moglie, l’hai vista prima, quando è venuta ad aprirti la porta.  

Vissi tra queste modelle per quasi due anni, e feci una vita folle, ai margini della moda, della fotografia, del mondo che conta. Al margine ma sempre in quella luce riflessa, con permessi di restare sul territorio USA che mi venivano puntualmente rinnovati grazie a questo o a quel personaggio importante. Tu dici la bellezza? Certo. Ho visto la bellezza di statue greche in carne ed ossa, sotto le mie mani. Alcune con me si sono anche tolte una voglia, e per me, lo ammetto, non è mai stato un sacrificio. Alcune cioè mi vedevano, non ero sempre trasparente. Quando ho conosciuto Marion però ho capito la differenza, e le altre sono diventate non dico trasparenti, ma diverse sì. Ed erano sempre bellissime, ovviamente, ma io le vedevo diverse.

E poi cosa è successo? Ecco questo non me lo spiego. Gli ultimi mesi in America, quando ormai stavo con Marion, bellissima, una vera dea, come è ancora adesso, e mentre stavamo meditando di ritirarci, lei stanca di posare, e con risparmi sufficienti per una nuova attività alla quale pensava da tempo, ed io pronto a darle una mano, iniziò questa cosa. Una modella, mentre le stavo colorando una spalla con una vernice d’oro, si lamentò del fatto che da qualche tempo quella spalla le faceva male. Quattro ore dopo, tornando da me per farsi struccare con i solventi adatti, mi disse che io le avevo curato il dolore, che non le dava più fastidio. La cosa non la presi in considerazione, è chiaro.
Meno di una settimana dopo un fotografo mi portò suo figlio da truccare per una festicciola tra amici, ed io gli colorai il viso. Il colore che usai, mi raccontò il giorno seguente il padre, gli aveva fatto sparire un fastidioso arrossamento sul collo che non gli passava da molto tempo.

E così continuò, con casi sempre nuovi e diversi, sino a quando fu chiaro che io, per qualche motivo inspiegabile, dipingendo la pelle delle persone, non solo modelle, facevo sparire macchie della pelle, fastidi, dolori, pensieri tristi, e risolvevo addirittura problemi più grossi, come i rapporti incrinati tra le persone o le difficoltà economiche. Iniziai a spaventarmi. Un sera mi dipinsi il viso di azzurro, o meglio, di blu cobalto, come quel colore che tanti anni prima mi aveva fatto capire che era meglio se smettevo di rubare. Rimasi col colore sul viso, per un po’, e poi lo tolsi, e mi misi a dormire.
Il giorno dopo, non chiedermi come, capii cose dovevo fare, e lo feci. Avevo ricevuto un dono, grazie al mio amore per i colori, e sapevo che non era solo per me. Convinsi Marion a sposarmi ed a seguirmi qui, dove vivo ormai da più di vent’anni. E da allora ogni tanto dipingo qualcuno, perché la voce si è sparsa, anche se io tento di mantenermi in disparte, di non farmi conoscere.

Io dipingo chi sta male, e in qualche modo lo aiuto. Dipingo la ragazza che viene presa in giro dalle compagne, e lei sboccia, diventa un’altra. Coloro la mano di una vecchia signora alla quale manca il compagno, morto da tempo, e lei sembra accettare meglio la sua condizione, ritrova la pace con sé stessa. Ogni tanto coloro il bellissimo collo di Marion, poi ci stendiamo assieme, e ci addormentiamo come facevamo i primi tempi, felici. Ecco, è così. Io posso dipingere la felicità.

                                                                                                        Silvano C.©   

(La riproduzione è riservata ma non c'è nessun problema se si cita la fonte, grazie)

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