Da piccolo dipingevo ogni cosa mi capitasse a
tiro, e puntualmente mio padre, se io gli capitavo a tiro, mi spiegava che
alcune cose, come ad esempio le pareti o le sue camicie bianche, non bisognava
dipingerle. Me lo spiegava non a parole, e le sue lezioni mi sono rimaste
impresse in modo indelebile, ovviamente. Ed ovviamente aveva ragione, dal suo
punto di vista e da quello di mia madre, che in questo, malgrado mi sostenesse,
non poteva difendermi.
A scuola non mi andava di perdere tempo con la
matematica, la storia, la geografia e le letture noiose che ci assegnavano per
educarci al bello ed alla riflessione. Mi annoiavo, perdevo gli anni, riempivo
il quaderno dei temi con i disegni, consumavo tutti i pastelli colorati, i
tubetti di tempera, i carboncini, gli inchiostri in quelle bottigliette piccole
e che sembravano dei cubetti col tappo. Perché non c’era solo la china nera, ma
anche quella gialla, rossa, verde, un verde brillante bellissimo, e poi altri colori
che ora non ricordo più. Sono passati tanti anni.
Consumavo i miei colori, consumavo quelli dei
miei malcapitati compagni di banco, e poi li rubavo a volte nei negozi di materiali
artistici, o nelle cartolerie, o nei grandi magazzini. E non mi hanno mai
pescato con le mani nel sacco. Una volta una commessa mi prese di mira, lo
ricordo come se fosse ora, ma io me ne accorsi. Finsi di mettere in tasca di nascosto un
pennarello indelebile blu cobalto, un bellissimo cobalto, e lei mi fece fermare
da un addetto alla sorveglianza. Ne uscii pulito come un angioletto, con l’aria
stupita ed ingenua di chi non capisce perché succede quello che gli succede. Però
evitai per anni, poi, quel reparto del grande magazzino. Avevo osato troppo. E smisi
di rubare; avevo capito cosa stavo rischiando.
Se ho venduto molti quadri? Macché, neppure
uno. La stagione dei quadri è durata pochissimo, e l’ho esaurita prima dei
venticinque anni. La mia prima tela mi aveva esaltato, lo confesso. La portai a
far vedere ad un vicino di casa ed amico di famiglia oltre che pittore
affermato ed inserito nel mondo dei galleristi. Le parole che mi disse furono
affettuose, ma in sintesi mi demolì. Io non ero adatto a dipingere quadri. Ne dipinsi ugualmente alcuni altri, ma infine mi arresi.
Io, in effetti, potevo colorare oggetti in legno
o piccole statue bianche che dopo sembravano personaggi vivi. Ridipinsi interi
presepi in cartapesta, in terracotta e persino in plastica. Dipinsi centinaia
di piccoli modellini di auto, navi, aerei, e casette e piccoli oggetti che per molti
anni portai in giro per mercati.
Non guadagnavo molto, in quel momento
particolare della mia vita, giusto quanto mi serviva per vivere, senza
concedermi lussi o sprechi. Ma mi divertivo, credimi, mi divertivo. Avevo sempre
amici interessanti attorno, e mai nessuno che mi cercasse per approfittare di
me, visto che non avevo praticamente nulla, vivevo in due stanze in affitto,
fredde in inverno e soffocanti in estate, e potevo offrire solo la mia
compagnia. E pure le ragazze, in quegli anni, furono un regalo, ognuna di loro, nessuna
esclusa. E le ricordo anche tutte, con affetto. Cosa credi, che non le abbia
amate, a modo mio? Non sono state tante, quello no, ma non ero solo, mai. A volte
restavano a dormire nel mio letto due amiche, che si amavano tra di loro e
stavano assieme, ma che per me avevano un debole, entrambe, ed alla fine ci
divertivamo. Nadia e Gianna, che non vedo da tanti anni. Stanno ancora assieme,
ma ora vivono in un paesino olandese dal nome impossibile.
Una volta, per carnevale, un gruppo di ragazze stava
per andare ad una festa e mi si avvicinò. Mi chiesero di dipingere loro il viso esattamente
come se fosse quella maschera che stavo offrendo in vendita nel mio piccolo banchetto, al
solito posto, dietro la piccola chiesa dell’Inviolata. Io non avevo colori adatti ma
quelli li avevano loro, perché pensavano di dipingersi a vicenda. Pare che poi per loro sia stato un successo, alla
festa, dopo il mio lavoro sui loro visi, e una di loro, originaria di
Baltimora e che sarebbe tornata negli States entro un paio di settimane, mi
fece la classica offerta che capita una sola volta nella vita. Se fossi partito
con lei sarei stato spesato di ogni cosa ed avrei lavorato in uno dei negozi
della catena di suo padre, un centro di estetica che voleva offrire un
servizio di trucco simile a quello che lei aveva provato direttamente su di sé.
Non avevo passaporto, ma neppure legami che mi
trattenessero. Donna in compenso aveva agganci potenti, ed ebbi il passaporto,
col visto, esattamente in dieci giorni. Miracoli del dollaro. E sei giorni dopo
ero a Baltimora, tra statunitensi, senza conoscere una sola parola di inglese,
e senza alcun italiano nel giro di chilometri. Fui sistemato in un minuscolo appartamento
in un motel per viaggiatori, lontano dall'esercizio nel quale avrei dovuto mettere in
mostra le mie abilità, ma raggiungibile con una linea di autobus molto
efficiente. Sin dall’inizio ebbi successo, e anche se lavoravo poco venni pagato in
modo molto generoso. Poi capii che ero una specie di richiamo, la persona
strana chiamata apposta per divertire chi si poteva permettere
quel centro estetico costosissimo ed esclusivo. E mi sentii tradito.
Tradito ma sempre fortunato. Un regista capitò
dove lavoravo, si informò, mi presentò ad un fotografo professionista, e di
nuovo, nel giro di un mese, la mia vita prese un’altra direzione. Da un giorno
all’altro iniziai a dipingere le modelle di quel fotografo, e nel centro
estetico tornai soltanto per un paio di giorni a settimana. Ora non più solo i
volti, o le mani. Le modelle posavano nude, ed io le dipingevo nude, su tutta
la pelle del corpo. Divenni famoso, devi saperlo. Io potevo dipingere una
modella e coprirla di colore sino a farla sembrare vestita, o far credere che
indossasse un costume da bagno. In qualche caso le mie modelle uscirono persino
in strada, o posarono per servizi ai bordi di piscine o sulle spiagge di Gibson
Island, vestite solo del mio colore. Mi stai invidiando? Lo so, tutti lo fanno
quando racconto questa cosa. Ma non credere che sia come pensi tu. Quelle donne
bellissime e nude a volte non mi vedevano neppure, erano attente solo che non
rovinassi la loro pelle, pensavano a come poi avrebbero posato, mi mostravano
il loro corpo nudo come io lo mostro ad un gatto, o ad un cane. Non tutte,
certo, Marion ad esempio era diversa. Marion chi è dici? Ma è mia moglie, l’hai
vista prima, quando è venuta ad aprirti la porta.
Vissi tra queste modelle per quasi due anni, e
feci una vita folle, ai margini della moda, della fotografia, del mondo che
conta. Al margine ma sempre in quella luce riflessa, con permessi di restare
sul territorio USA che mi venivano puntualmente rinnovati grazie a questo o a
quel personaggio importante. Tu dici la bellezza? Certo. Ho visto la bellezza
di statue greche in carne ed ossa, sotto le mie mani. Alcune con me si sono
anche tolte una voglia, e per me, lo ammetto, non è mai stato un sacrificio. Alcune
cioè mi vedevano, non ero sempre trasparente. Quando ho conosciuto Marion però
ho capito la differenza, e le altre sono diventate non dico trasparenti, ma
diverse sì. Ed erano sempre bellissime, ovviamente, ma io le vedevo diverse.
E poi cosa è successo? Ecco questo non me lo
spiego. Gli ultimi mesi in America, quando ormai stavo con Marion, bellissima,
una vera dea, come è ancora adesso, e mentre stavamo meditando di ritirarci,
lei stanca di posare, e con risparmi sufficienti per una nuova attività alla
quale pensava da tempo, ed io pronto a darle una mano, iniziò questa cosa. Una modella,
mentre le stavo colorando una spalla con una vernice d’oro, si lamentò del
fatto che da qualche tempo quella spalla le faceva male. Quattro ore dopo,
tornando da me per farsi struccare con i solventi adatti, mi disse che io le
avevo curato il dolore, che non le dava più fastidio. La cosa non la presi in
considerazione, è chiaro.
Meno di una settimana dopo un fotografo mi
portò suo figlio da truccare per una festicciola tra amici, ed io gli colorai
il viso. Il colore che usai, mi raccontò il giorno seguente il padre, gli aveva
fatto sparire un fastidioso arrossamento sul collo che non gli passava da molto
tempo.
E così continuò, con casi sempre nuovi e
diversi, sino a quando fu chiaro che io, per qualche motivo inspiegabile, dipingendo
la pelle delle persone, non solo modelle, facevo sparire macchie della pelle,
fastidi, dolori, pensieri tristi, e risolvevo addirittura problemi più grossi,
come i rapporti incrinati tra le persone o le difficoltà economiche. Iniziai a spaventarmi. Un sera mi
dipinsi il viso di azzurro, o meglio, di blu cobalto, come quel colore che
tanti anni prima mi aveva fatto capire che era meglio se smettevo di rubare. Rimasi
col colore sul viso, per un po’, e poi lo tolsi, e mi misi a dormire.
Il giorno dopo, non chiedermi come, capii cose
dovevo fare, e lo feci. Avevo ricevuto un dono, grazie al mio amore per i colori, e sapevo che non era solo per me. Convinsi Marion a sposarmi ed a seguirmi qui, dove vivo
ormai da più di vent’anni. E da allora ogni tanto dipingo qualcuno, perché la
voce si è sparsa, anche se io tento di mantenermi in disparte, di non farmi
conoscere.
Io dipingo chi sta male, e in qualche modo lo
aiuto. Dipingo la ragazza che viene presa in giro dalle compagne, e lei
sboccia, diventa un’altra. Coloro la mano di una vecchia signora alla quale
manca il compagno, morto da tempo, e lei sembra accettare meglio la sua
condizione, ritrova la pace con sé stessa. Ogni tanto coloro il bellissimo
collo di Marion, poi ci stendiamo assieme, e ci addormentiamo come facevamo i
primi tempi, felici. Ecco, è così. Io posso dipingere la felicità.
Silvano C.©
(La riproduzione è riservata ma non c'è nessun problema se si cita la fonte, grazie)
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