Era lì da ere geologiche, nato da lenti depositi a poca distanza da una foce sul fondo di un oceano ora
prosciugato, o, per meglio dire, migrato. Poi spostato solo dai capricci
tettonici, innalzato sopra la media delle terre emerse (troppa grazia…)
protetto da alcuni strati un po’ più giovani, ed ora finalmente libero, all’aria
fresca della notte, al sole del giorno, alle piogge estive ed alle nevi ed ai
ghiacci dell’inverno.
A dire il vero lui stava bene,
per fatti suoi, non era curioso del mondo, per nulla. Dormiva. Sentiva la pace
dentro di sé, dopo un inizio incerto, indeciso se diventare quello che era o se
disperdersi altrove. Non avrebbe voluto imparare a pensare, ma la disgrazia gli
era successa, in modo inspiegabile, e che disgrazia. Ma non era meglio essere
materia e basta, senza problemi, senza scelte, senza obblighi, senza dolori e
speranze, o sogni? I sogni lo stavano distruggendo, poco a poco.
Non erano le gelate notturne ed
il lento penetrare dell’acqua di giorno, non erano i pochi fulmini che si era
preso, come se avesse scelto lui di stare su quella parete, e non erano neppure
quei pazzi con corde e moschettoni che, ogni tanto, gli si arrampicavano sopra
per fermarsi pochi metri più in altro, ché non avevano le ali, e lì dovevano
fermarsi, per forza, quando non cadevano in basso. No. A distruggerlo erano i
sogni.
Ma chi aveva inventato i sogni, perché
quella maledizione, quei desideri camuffati da leggerezze, apparentemente
ingenui, alla sua portata e tali da renderlo insoddisfatto di ogni cosa? Senza sogni
lui sarebbe stato felice, senza sapere di esserlo, ovviamente, ma lo sarebbe
stato. Ora invece sapeva di essere infelice ed incompleto, temporaneo e
instabile, legato al tempo ed ai capricci del caso.
Dire che il suo umore stava
scurendosi è solo una parte della verità. Provava una crescente insofferenza
per tutto. Le nuvole gli facevano rabbia, libere di andare dove volevano
(ma non pensava al vento). La valle gli faceva invidia, calma, verde,
tranquilla, immersa nella pace (ma non sapeva nulla della valle). La pioggia e
la neve erano più fortunate; cadevano scendevano, penetravano, evaporavano (ma
perdevano la loro purezza, si sporcavano con la vita).
Era sempre più innervosito
quando, circa 400 metri sotto di lui, costruirono una strada facendo tremare la
sua montagna. Lo disturbarono a lungo, a volte anche di notte, quando di solito
il silenzio era più facile da avvertire, e gli sembrava di poter tornare alle
sue origini, protetto, dentro le altre rocce. Sempre più insofferente di tanta
agitazione tentò di fare qualche cosa, ma questo a lui non era permesso,
sembrava destinato ad altro, ma non sapeva ancora cosa.
Passarono decenni, e lui non poté
nulla, solo sentire un rumore crescente durante le giornate estive prodotto da
piccoli oggetti mobili che non riusciva a distinguere con precisione.
Poi, finalmente, ad un certo
momento, avvertì che le cose erano mutate, che ora aveva la possibilità di
realizzare la sua vendetta contro tutto. Ora era convinto che dipendeva solo da
lui la scelta del momento. E pensò a lungo, programmò con attenzione, affinò
tutti i sui sensi, e capì esattamente cosa fare e quando agire, senza incertezze.
Dario e Roberta, in moto, stavano
scendendo lungo quella strada piena di curve e tornanti, ammirando il paesaggio
dolomitico, felici di quella vacanza che si stava concludendo dopo aver
rinsaldato il loro legame. Quel viaggio sarebbe stato il primo di tanti, solo
il primo. All’improvviso una frana cadde a poca distanza davanti a loro, e solo
la fortuna permise a Dario di non farsi travolgere in pieno, ma la ruota
anteriore investì un grosso pezzo di roccia ed entrambi furono sbalzati a
terra. La moto proseguì la corsa, e precipitò verso il basso, mentre loro due se la
cavarono miracolosamente, distruggendo le tute da motociclista che
li protessero nella lunga scivolata sull’asfalto.
La polizia che intervenne per i
rilievi constatò che la loro velocità non era elevata, e solo grazie a quella
si erano salvati dalla frana. Un agente poi disse loro che erano stati
fortunati doppiamente, malgrado la perdita della moto. Oltre la curva l’asfalto
era coperto da una grossa macchia di olio che li avrebbe certamente fatti
scivolare senza possibilità di rallentare come avevano potuto fare con la
frana. Quindi la roccia, cadendo, li aveva salvati.
E lei, la roccia, prima di perdere il
senso di ogni cosa, aveva tentato di colpire chi la stava infastidendo da troppo
tempo, vendicandosi in una sola volta di tutto quello che ormai non sopportava
più.
Il destino tuttavia si era divertito con
lei, ma senza cattiveria. Le aveva tolto la coscienza, e prima l’aveva fatta sentire
per qualche secondo felice, permettendole di realizzare il suo desiderio più
profondo. Lei così era sparita, in frantumi, e questo era ciò che voleva.
E mentre lei otteneva questo aveva chiuso il cerchio di un disegno che le sfuggiva, e che forse non avrebbe mai potuto capire.
E mentre lei otteneva questo aveva chiuso il cerchio di un disegno che le sfuggiva, e che forse non avrebbe mai potuto capire.
Silvano C.©
(La riproduzione è riservata ma non c'è nessun problema se si cita la fonte, grazie)
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