lunedì 29 giugno 2015

Qualcuno non dimentica



Siamo in Val Prestinazz, nel Nord-Cimoso, o se preferite Basso Class, e questo è uno dei castelli più belli e più grandi di tutta la zona.
Il castello di Prez domina, dal XIII secolo, tutta la valle, e non fu mai espugnato da nessuna delle tante orde barbariche o dagli eserciti di sacri imperi che ciclicamente invasero il territorio. La sua fortuna è tutta racchiusa (forse) nella scelta del luogo dove sorge: un ampio terrapieno pianeggiante circondato da alte e quasi verticali pareti rocciose bagnate, 300 metri più in basso, dal torrente Lauro, o Spitz del Fern (letteralmente zampillo dell’Inferno).
Possiede un punto debole, rappresentato dall’originaria torre posta a difesa dell’unico accesso all’enorme piazza circondata dalle spesse mura di pietra. Sapendo che è il solo punto dal quale è possibile entrare, col passare dei secoli è stato rinforzato e la torre e divenuta un possente mastio, presidiato, nei momenti di pericolo, da guarnigioni di armati, aiutati, nel loro compito, da ogni genere di macchina da guerra.

I primi signori del luogo furono gli  Sloifers, antichi vassalli di un regno dimenticato dalla storia che nel XIV secolo superarono in potenza i loro stessi sovrani, ma che non ambirono mai ad estendere territorialmente il loro potere, creando in tal modo una sorta di stato sovrano non ufficializzato e lasciato in pace dai potenti vicini. Del resto a nessuno interessava la valle, stretta tra i monti, con una miniera di argento in grado di dare un certo benessere agli abitanti del Prestinazz ma non tanto ricca da suscitare le brame di qualcuno. Oltretutto la miniera era difesa dal castello di Prez, e quindi ancor meno appetibile.
Dopo gli Sloifers, il cui ultimo rappresentante morì nel 1521 senza lasciare alcun discendente, il castello e l’intera piccola valle divennero proprietà di una famiglia di antiche origini cimbre, gli Himmerlander, ed il primo tra loro a occupare le stanze nobili di Castel Prez fu il principe Caarl. Costui narrano fosse brutto, sgraziato, basso di statura e pure un po’ gobbo, ma in assoluto il miglior castellano mai residente tra quelle solide mura. Amava circondarsi di uomini in armi che lo accompagnavano in ogni sua visita fuori dal castello, ma, si capì ben presto, senza altro motivo se non quello di dimostrare la potenza della quale poteva disporre, e non a sua difesa, bensì a difesa di tutti coloro che vivevano entro i confini del suo piccolo territorio.
Un paio di episodi fecero capire a tutti di quale stoffa fosse in realtà Caarl.
Il primo avvenne quando, attorno al 1530, una banda di tagliagole capitò casualmente nella valle nel corso di una delle sue numerose razzie nelle valli vicine. Questi banditi bruciarono un paio povere case situate proprio sulla gola di accesso alla valle e ne misero in fuga gli abitanti. 
Caarl, appena informato, mandò i suoi uomini, ma i malviventi, che pare fossero ben armati, organizzati ed in buon numero (dicono almeno cinquanta), si barricarono tra le rovine degli edifici e non sentirono ragioni di arrendersi. Avrebbero potuto tener testa a lungo al piccolo esercito di Caarl, in quella zona, ma l’Himmerlander aveva altre idee. Il terzo giorno di assedio ai ruderi delle case bruciate, prima che qualcuno avesse ancora dato ordine di attaccare per primi, lui in persona uscì dal castello, scese a valle e si presentò sul posto. Qui fece fermare la sua scorta personale e, da solo, si avvicinò ai ruderi. Cosa successe dopo, esattamente, non è possibile saperlo. I fatti, a risentirli oggi, sembrano più leggendari che reali. Una fonte tra le più attendibili sostiene, senza dare troppi particolari, che Caarl andò da solo tra i banditi, vi rimase a lungo, sino quasi allo scendere della notte, e che alla fine lui ed il capo di quella banda uscirono assieme dalla rovine, seguiti da tutta la banda, e che il loro gruppo si fuse con quello degli uomini di Caarl, schierati attorno al posto.
Esattamente il giorno dopo coloro che prima avevano incendiato quelle case si misero a ricostruirle, aiutati dai loro proprietari, e in breve tempo, a parte certi alberi bruciati e l’orto distrutto e alcuni animali uccisi per cibarsene, quella zona ritornò ad essere com’era precedentemente. Ed i banditi entrarono a tutti gli effetti a far parte del piccolo esercito locale.

Il secondo episodio riguardò il tentativo del vescovo, sotto la cui giurisdizione canonica rientrava allora la valle di Prestinazz, di catturare e portar via una donna del posto accusata di stregoneria. Caarl non la pensava allo stesso modo e fece entrare nel castello, a titolo precauzionale, lei e i suoi familiari.
Quando i legati del vescovo vennero con un carro che trasportava una grossa gabbia di ferro trovarono ad attenderli gli uomini del signore. Questi riempirono la gabbia vescovile di ogni ben di Dio, come formaggi, carne affumicata, botticelle di vino e distillati, frutta e verdura, ma non la donna (che pare si chiamasse Lucilla, o Lucella, non è sicuro), e la rimandarono al suo padrone. Nemmeno una settimana dopo il vescovo mandò di nuovo il carro gabbiato con un numero doppio di suoi emissari; aveva gradito le vettovaglie, ma non il rifiuto. Stavolta però Caarl fu meno cortese. La gabbia di ferro venne riempita con 12 dei legati vescovili, chiusa con un grosso lucchetto e la chiave gettata in un torrente. Gli altri uomini furono invitati a scortare i loro compagni in vescovado, con l’avviso di non tornare una terza volta con la medesima richiesta.
Il vescovo incassò con eleganza il rifiuto, evitò di rischiare di perdere uomini per una questione così poco importante, a conti fatti, e non fece più parola dell’episodio, tanto che nessun libro di storia locale o nazionale lo riporta.
In valle, negli anni successivi, arrivarono varie streghe o supposte tali, furono sempre ben accolte e si rivelarono molto utili a tutti i valligiani per le loro conoscenze su erbe e medicamenti naturali. 

Gli Himmerlander furono tutti come Caarl quanto ad atteggiamento di apertura nei confronti di chi era perseguitato o riguardo al mantenimento dell’ordine facendo il minor uso possibile della forza, che tuttavia non mancarono mai di mantenere, col pieno sostegno di tutto il popolo.
Nessuno però fu più brutto e sgraziato come era stato Caarl, anzi, i suoi discendenti, a giudicare dai dipinti che ne ritraggono le sembianze e che sono giunti sino a noi, furono di aspetto decisamente gradevole, sia gli uomini che le donne.

Di Caarl occorre aggiungere però che non si fece mai mancare occasione per godere della vita e della posizione che aveva. Le sue avventure con le donne, dalle più giovani alle più mature, sono leggendarie, come è leggendaria la fedeltà che mantenne a Svevia una volta sposato. Lei divenne sua moglie quando lui era nell’età di mezzo, dopo che si incontrarono per caso, quando nel castello di Prez furono ospiti lontani parenti della Baviera.
E dire che Svevia fu bellissima è farle torto.

Dimenticavo, quasi, un particolare sul castello, forse importante, per chi ci crede, che è legato ad un fatto narrato prima. Lucilla, o Lucella, che dicono fosse strega, vi fu ospite per alcuni mesi, con la sua famiglia, sino a quando la sua posizione fu definitivamente e implicitamente chiarita col vescovo.
Poi tornò a vivere nella sua casa nel piccolo borgo, a piedi del terrapieno sul quale c’è ancora oggi la fortificazione. 
Bene, pochi giorni dopo la sua morte, perché prima o poi la Signora chiama tutti, pare che lei sia tornata a salutare quell’uomo ormai anziano che tanti anni prima l’aveva salvata dal rogo.
Cosa si siano detti, al solito, non è noto, ma da quella notte, nella stanza dove dormiva Caarl con la sua bella Svevia, e dove poi hanno dormito i suoi discendenti, di tanto in tanto appare una luce, poco dopo la mezzanotte. Sembra avvenga anche ora, in questi stessi giorni, e chi di notte alza lo sguardo verso quella finestrella potrebbe, se è fortunato, scorgerla ancora. 

                                                                                                         Silvano C.©   


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domenica 28 giugno 2015

Il ragno


Aurelio stava per mettere in moto la sua vecchia 500 parcheggiata in via D’Ambrosio, quando vide un ragno calarsi dalla parte superiore del parabrezza, proprio davanti ai suoi occhi.

Ebbe un moto di insofferenza.

Era in ritardo, ma il suo amore per i ragni era troppo forte. Afferrò delicatamente l’animale e scese dalla macchina, dirigendosi verso l’aiuola più vicina, che era a circa cinquanta metri.

venerdì 26 giugno 2015

500 ml abbondanti



Premessa doverosa. Odio cordialmente (cioè con trasporto ed entusiasmo, ma sempre rispettando le buone maniere e l’educazione) ogni tipo di trasmissione televisiva che tratti di ricette e cucina, di gare tra aspiranti signori dei fornelli con la presenza di blasonati cuochi internazionali che pensano di essere paragonabili ad Aristotele o Kant per la profondità dei loro commenti su un brodetto di pesce o di una mantecatura (mantecachè?). Confesso poi di essere un artigiano della cucina, ultimamente un po’ pigro, e che amo preparare quello che poi metto in tavola ma, è questo è il vero punto dolente, sono insofferente alle ricette.

Una delle cose che non ho mai accettato e mai accetterò - è un mio limite oggettivo – consiste nel comprare gli ingredienti per una certa preparazione in quantità precisa, misurata. E poi, come corollario di questa grave idiosincrasia, ecco il mio non saper gestire gli avanzi (ciò che non serve non posso aggiungerlo e se lo aggiungo mi rovina il risultato finale ed allora dove me lo metto?).
In altre parole certi piatti mi sono preclusi, so che non sono alla mia “portata”, ma, allo stesso tempo, mi diverto a volte a combinare ingredienti che altrimenti non andrebbero assieme, e questo per il semplice fatto che li ho in casa, in dispensa o nel frigorifero. Mi manca da morire un orto, ma non ho giardino o terreno libero da coltivare, quindi mi adatto con quello che compero.

Raramente quindi decido di seguire una ricetta. Malgrado questo possiedo moltissimi libri di cucina, a partire dal classico Pellegrino Artusi per arrivare al Talismano della felicità, ho testi dedicati ai primi, agli antipasti, ai dolci, un paio di enciclopedie tascabili della cucina, un bellissimo libro sulla cucina valdese che mi è stato regalato da un’amica conosciuta in rete o poi di persona. Per farla breve ho aperto uno di questi libri, del quale per pietà non cito il nome, e ho letto, mentre scorrevo una preparazione: “… ed ora aggiungere 500 ml abbondanti di…” e lì mi sono bloccato.
Ma come? Cosa significa dare una misura precisa e poi, accanto, mettere la parola abbondante? Vuol dire che posso metterne in più a piacere mio? Se è così perché non esprimerlo con quelle parole, oppure scrivere invece, e sarebbe meglio: “…ed ora aggiungere 500-550 ml di…”. Ecco. Ho spiegato, spero, perché odio seguire non solo certi programmi ma pure certe ricette, ed anche perché ammiro l’ordine e il rispetto delle regole ma, allo stesso tempo, ho una matrice anarchica, pur non approvando le posizioni anarchiche.

Confesso, in conclusione, una mia debolezza. Sono affascinato da parole come soufflè, stracotto, sformato, sorbetto, gratinato, focaccia… e mi fermo…


L’immagine è “Il mangiatore di fagioli”, di Carracci.
                                                                                                         Silvano C.©   


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mercoledì 24 giugno 2015

La stupidità di chi, per osservare il cielo, cadde in una buca



 
Leggendo di siffatto incidente, di un uomo che cadde in una buca per guardare le stelle, come non pensare alla sua stupidità? È la prima cosa che viene alla mente, anche perché da questo automatismo non esattamente logico derivano a migliaia gli espedienti scenici per far sorridere senza troppi sforzi un pubblico non incline a perdere tempo per pensare.

Sorridere di queste piccole cose può anche essere utile per allentare la tensione, non lo nego, e se capita poi che sia io ad inciampare in una buca non vista prima credo sia giusto che accetti di essere un po’ preso in giro. Ma qui divago, e torno indietro nel tempo, ad un attimo prima del bivio della scelta: ridere o non ridere?

Ora ripropongo la scena letta, ma la racconto in modo diverso, ovviamente senza cambiare i fatti, ma solo il modo di raccontarli. Ed ecco allora che un uomo, per guardare il cielo e scoprire un po’ il segreto custodito dalle stelle, per riflettere sul suo stesso significato, non si accorse della buca davanti a lui e vi cadde dentro.

A te ora scegliere come leggere il fatto di quell’uomo che cadde, perché, devo dirtelo, dalla tua scelta, derivano poi alcune conseguenze.



                                                                                                         Silvano C.©   


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a Laura Antonelli


L’humour non salva; l’humour non serve praticamente a niente. Uno può affrontare con humour tutti gli eventi della sua vita per anni, talvolta per anni e anni, in certi casi può adottare un atteggiamento umoristico fino alla fine; ciò non toglie che comunque la vita riesce a spezzargli il cuore. Quali che siano le caratteristiche di coraggio, di sangue freddo e di humour che uno può sviluppare durante la propria vita, si finisce sempre e comunque col cuore spezzato. E a quel punto si smette di ridere. Alla resa dei conti rimangono sempre e soltanto solitudine e silenzio. Alla resa dei conti non c’è altro che la morte“.
(Michel Houellebecq)
(continua qui se vuoi leggere quello che scrive Elena Bibolotti)

sabato 20 giugno 2015

#Brustlina 43 – Le ciliegie del contadino



Vedo un cartello con scritto: “Le ciliegie del contadino”, e non posso fare a meno di mettermi a ridere pensando che sicuramente devono essere migliori e più sane di quelle del meccanico o del dentista.

In fondo in libreria potrei trovare un invito a comprare il libro dello scrittore, o a gustare, in un locale, la pizza del pizzaiolo, e che differenza farebbe, usando la stessa logica?
A volte credo che qualcuno ci prenda decisamente per polli, ed il guaio è che non di rado ha ragione.

                                                                                          Silvano C.©


( La riproduzione è riservata ma non c'è nessun problema se si cita la fonte.  Grazie)

venerdì 19 giugno 2015

Il politico munge la mucca con aria divertita



Appena ho letto la frase, senza cercare altre informazioni, in modo superficiale, e quindi senza rifletterci molto, mi sono chiesto subito cosa avesse per essere divertita la mucca, tanto da meritare questa piccola nota su un giornale. Poi ho guardato meglio, ed ho visto la faccia divertita e sorridente del politico in questione, ma non il muso della mucca, ed ho concluso che non era lei a sorridere, ma lui.

Eppure, in fondo, come mai non potrebbe pure la mucca essere in qualche modo soddisfatta, per ragioni che ignoro, e sorridere anche lei, a modo suo? Da ragazzino ne frequentai, di mucche, perché in campagna ci vivevo, e non mi facevano neppure paura, malgrado le loro dimensioni, ben sapendo che bastava non dar loro fastidio per non avere nulla da temere.
Ad essere onesto però non ricordo mucche sorridenti, e neppure mucche arrabbiate, o almeno non mi pare di aver mai capito il loro umore dall’espressione.
Avevo allora la convinzione che ogni animale ed ogni uomo avessero un loro ruolo definito, naturale, immutabile, sancito da leggi non scritte, semplicemente da accettare, come si accetta di cadere da un muretto se si mette un piede in fallo.

La legge di gravità si fa rispettare, non è prevista l’inosservanza della legge, quindi neppure sanzioni; ed io confondevo quella con altre leggi, umane stavolta, dettate da convinzioni religiose, da motivazioni sociali e consuetudini, da ragioni di potere e controllo.

Ora, devo dire,  l’idea che una mucca possa ridere anche di noi e delle nostre leggi mi sembra persino logica. Lei in fondo accetta tranquillamente il suo destino, mentre noi, ogni giorno, ci chiediamo sino a che punto dobbiamo accettare  oppure no le strutture artificiali che ci siamo dati e che chiamiamo leggi. E cerchiamo spesso compromessi, equilibri, una via, insomma,  per recuperare almeno un po’ dell’ingenuità dei bambini che eravamo.


                                                                                                         Silvano C.©   

mercoledì 17 giugno 2015

che restò morto, ed ebbe torto!






Premessa doverosa, con riflessioni personali, anche se un po’ slegata dal seguito.
La legge umana con chi muore è dura: se muori hai torto, se rimani vivo, e sei il vincitore, allora hai ragione. Poi, per fortuna, e col tempo giusto, arriva un giudizio storico più attento alle motivazioni, alla realtà del periodo nel quale si sono svolti i fatti, alle persone ed alla loro complessità.
Si scopre spesso che non è mai tutto nero o tutto bianco, come vorrebbe anche la semplificazione politica di questi giorni che si nutre di immediatezza e slogan, raramente di riflessione.
Ma ora voglio raccontare di un luogo poco noto a Ferrara, poco noto agli stessi ferraresi; di un vicolo stretto tra case antiche, che non ha neppure l’onore di un nome su un marmo, come conviene ad ogni vicolo, fosse pure cieco.



A Ferrara esiste il Vicolo dei Duelli. 
È una strada privata, con due ingressi.  Il primo è in via Cortevecchia, dal cancello al n 63, di fianco alla Chiesa di Santo Stefano, ed il secondo si trova nella Piazzetta San Michele, in via del Turco.   Vi si entra, trovando il cancello aperto o facendoselo aprire, solo a piedi o con la bicicletta.   Pare che gli Estensi consentissero a lungo che a Ferrara si tenessero duelli, specificando pure il luogo in cui questi avrebbero dovuto tenersi. In alcuni casi poi, quando si trattava di nobili o personaggi di rilievo, essi stessi presenziavano allo svolgimento della sfida per non perdersi lo spettacolo.

Il vicolo senza nome nel corso dei secoli di nomi ne ebbe tanti: via Fortinpiedi, via del Mulino, via Potania e anche diversi altri.

Gerolamo Melchiorri  racconta di un duello che si svolse il 10 ottobre 1364, in quel vicolo, tra due contendenti, ma non dice il motivo che spinse Almerico da Meldola e Pietro da Fuligno, “che restò morto, ed ebbe torto!” a sfidarsi, ma solo che finì tragicamente per uno dei due, con le conseguenze di cui sopra. 



                                                                                                         Silvano C.©   

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domenica 14 giugno 2015

Nobili bastian contrari



 Essere bastian contrari è un ruolo a volte scomodo ma necessario, altre volte invece decisamente irritante, inutile e poco costruttivo. 
 A Ferrara c’è via Contrari, per chi è attirato da questo tipo di esperienze (il mio è un espediente introduttivo, nulla di più) e che, essendo tale via parallela alla centralissima via Mazzini, può essere percorsa in senso inverso a quello tenuto su via Mazzini, cioè all’incontrario, finendo per completare un anello.
È una via meno frequentata dai turisti, meno appariscente, con meno negozi, ma ha un suo fascino. Vi si trovano, facendo attenzione, muri senza finestre o finestre con inferriate, per lunghi tratti. Sono i punti che corrispondono alle antiche case degli ebrei, oppure alla sinagoga tedesca, che ha il suo ingresso su via Mazzini, un tempo arteria principale del ghetto.
Questi edifici non potevano avere accesso se non attraverso le porte del ghetto, quindi da via Contrari non era possibile entrarci o uscirne.
Per fortuna il tempo di quel del ghetto è finito, anche se nuovi ghetti sembrano sorgere ovunque, perché ci stiamo dimenticando la storia.

Per tornare ai Contrari però (scusa le digressioni) occorre dire che tali erano di nome, ma non di fatto, essendo sempre vicini e favorevoli ai signori di Ferrara, gli Estensi, e che si costruirono un bellissimo palazzo in centro, in quella via che poi prese il nome dalla loro nobile e ricca famiglia.
Uno dei Contrari più importante fu Uguccione, che oltre ad avere incarichi a corte, a Ferrara, ebbe pure la rocca ed il feudo di Vignola. 
Un altro Contrari famoso fu Ercole, qualche tempo dopo, capitano dei cavalleggeri della guardia ducale ed amante molto gradito da Lucrezia d'Este, che pare non fosse contraria a questa situazione.

Non aggiungo molto, a questo punto, e se la curiosità ti spinge a farlo leggi la voce su Wikipedia, oppure l’interessante libro recentemente pubblicato a Ferrara e scritto da Francesco Scafuri che trovi nella bibliografia della voce enciclopedica.


(Alla fine il solo bastiano sono io, che nobile mai fui)

                                                                                                         Silvano C.©   

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venerdì 12 giugno 2015

il mio primo compleanno senza Feisbuk


lo so lo so, nessuno è mai dipendente da un social network.
ci vuole niente a chiudere.
e poi, certo, ci si sta per lavoro, è ovvio.
qualche anziano lo fa per stare in contatto con i nipotini, è ovvio… come non ci fossero skype o i telefoni.
la dipendenza da FB colpisce tutti, con maggiore o minore intensità secondo la volontà di ognuno, o la profondità della solitudine che lo avvince.
il web è pieno di articoli sull’argomento, e anche gli ospedali.

(...continua a leggere il post di Elena Bibolotti...)

Con la Regina non avresti scherzato


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Tu che hai rubato la corona alla Regina, moderno vandalo un po’ stupido, e che magari dopo ti sei pure disfatto dell’oggetto del tuo furto perché ti sei reso conto che non valeva la pena rischiare per una refurtiva di non grande valore, oltre che decisamente ingombrante, sono sicuro che non ti saresti azzardato a compiere il tuo gesto quattro secoli e mezzo prima.


Quelli erano tempi diversi, e il Duca Ercole II d’Este non avrebbe riso della tua bravata. Lui alla sua Regina ci teneva, e non poco.
Forse non come il padre, Alfonso I, che amava credo più le sue artiglierie delle leggiadre pulzelle, o comunque le teneva tra i suoi primari interessi, tanto da far talvolta arrabbiare, probabilmente, la sua legittima consorte, Lucrezia Borgia. 

Ercole II era però consapevole della bellezza (e della potenza) della Regina, la sua colubrina più famosa, in grado di polverizzare una casa ad oltre tredicimila piedi di distanza e quindi di difendersi benissimo da sola, oltre che le torri del Castello di San Michele ed il suo signore.

Lui, che possedeva segrete pure sotto il livello del fossato, avrebbe punito l’incauto in modo esemplare, e, forse, non avrebbe lasciato sola la bella Regina, fuori dal castello, a richiamar pellegrini con la sua presenza.



Una notte, nel periodo pasquale del 2010, in piazza Castello a Ferrara, qualcuno ha rubato la corona che adornava la colubrina donata alla cittadinanza dall'Unione Industriali di Ferrara per festeggiare i 400 anni del Castello Estese, nel 1985. Quella è solo una copia, è chiaro, ma è fedele all’originale, fusa da Annibale Borgognoni, uno dei massimi bombardieri dell’epoca, nel 1556, per il Duca Ercole II.


                                                                                                         Silvano C.©   

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giovedì 11 giugno 2015

Ferrara non è antisemita





Ercole I d’Este
Ferrara nacque fra il VII e l'VIII secolo e raggiunse solo attorno all’anno mille una dimensione ed una importanza tali da far immaginare quello che poi sarebbe divenuta. La prima presenza ebraica documentata negli archivi, e riportata in un’opera fondamentale sul tema che poi citerò, è della prima metà del XIII secolo. Quindi in città gli ebrei, ancora non in grande numero, vivevano, lavoravano e conducevano una vita sociale, integrati tra gli altri pur nella loro particolarità.

Occorre aspettare il 1492 ed i grandi mutamenti epocali per vedere il signore di Ferrara,  Ercole I d’Este, accogliere in città gli esuli ebrei cacciati dalla cattolicissima Spagna, come testimonia una epigrafe posta in via Vittoria.

Epigrafe in via Vittoria
Ercole I aveva un sogno, come si direbbe oggi, e lo realizzò con la forza della quale ormai gli Estensi erano in grado di disporre, su molti piani. Fu lui a rendere Ferrara la prima città moderna d’Europa, che fu moderna, a mio parere, non solo dal punto di vista urbanistico, grazie al genio dell’architetto di corte Biagio Rossetti, ma anche per l’accoglienza e l’apertura verso le altre culture.
La Ferrara estense quindi non era antisemita.

Con la ripresa di possesso del ducato da parte dello Stato Pontificio, nel 1597, le cose mutarono, e già nel 1964 venne istituito il ghetto, una divisione tangibile tra cristiani ed ebrei, non più accettati, questi ultimi, al pari degli altri abitanti la città. Il potere non era più nelle mani ferraresi, ma di Roma.   Il ghetto venne riaperto durante la parentesi napoleonica, poi richiuso sino all’unità d’Italia.  Passarono quindi secoli di segregazione durante i quali gli ebrei riuscirono comunque a mantenere la loro fede, a produrre  cultura, ad esempio con personalità come Isacco Lampronti, sino ad arrivare alla prima guerra mondiale.

Gli ebrei ferraresi erano talmente integrati, in quel periodo, che molti di loro si dichiararono apertamente interventisti, e partirono per il fronte, spesso volontari. 
Venne poi il periodo del fascismo, al quale tanti ebrei
Italo Balbo
aderirono, sicuramente non immaginando quello che in seguito sarebbe avvenuto, in particolare, dalla seconda metà degli anni trenta, con la promulgazione delle leggi razziali e poi con la formazione della Repubblica di Salò, che portò a deportazioni ed inasprimento delle persecuzioni antisemite.

Giorgio Bassani criticò aspramente la borghesia ebraica per l’atteggiamento nei confronti della dittatura, ma qui occorre ricordare che il massimo esponente del fascismo ferrarese, Italo Balbo, sicuramente uomo con molte colpe e responsabilità, non fu un antisemita.
Uno dei suoi amici ferraresi più cari infatti fu un ebreo, Renzo Ravenna, fascista come lui, podestà della città per dodici anni. Questa “anomalia” ferrarese era talmente conosciuta che non pochi ebrei, in quel periodo, si trasferirono a Ferrara sperando nella protezione del gerarca locale, anche se nel frattempo questi aveva assunto il governatorato della Libia. Il fascismo ferrarese, cioè, non fu antisemita, se non, in modo evidente, a partire dal 1943.

Anche la cultura postbellica cittadina, dopo un necessario periodo di ripensamento riguardante i fatti del ventennio, non fu antisemita.
Il massimo studioso espresso da Ferrara nel novecento, il maestro Adriano Franceschini, autore di questo libro citato all’inizio, era amico di Paolo Ravenna, ebreo, figlio del podestà Renzo. Fu lo stesso Ravenna a curare l’edizione postuma del lavoro di Franceschini.


il MEIS, a Ferrara
La città stessa, nella sua amministrazione recente, non è antisemita, e da alcuni anni, a Ferrara, con la collaborazione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, del  CDEC (Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea), dell’UCEI (Unione delle Comunità Ebraiche Italiane), di Ferrara Fiere e Congressi, della Provincia di Ferrara, delle Comunità Ebraiche in Italia, della Comunità Ebraica di Ferrara, della Regione Emilia Romagna e dell’Università degli Studi di Ferrara favorisce la preparazione del Museo nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah (MEIS) e l’organizzazione, ogni anno, della Festa del Libro Ebraico in Italia



                                                                                                         Silvano C.©   

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mercoledì 10 giugno 2015

La scoperta

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Il bambino è curioso del mondo, degli altri, del proprio corpo che avverte unico.
Le stagioni passano, ed ognuna porta nuove conquiste, accresciuta coscienza. 
Queste possono diventare perdite spesso unite al dolore, mentre a volte viviamo momenti fondamentali di passaggio, legati alla gioia, alla crescita.
Rimane sempre, dovrebbe rimanere sempre, la spinta alla scoperta, la curiosità di vedere, di sapere, di fare.

Scoprire la propria ignoranza, in questo senso, è un regalo. La consapevolezza di avere una meta da raggiungere o una conoscenza da colmare. Ad esempio un autore mai letto, un film non ancora visto, una persona non ancora conosciuta, un gioco erotico sino ad un certo momento solo immaginato, o il Viaggio, la partenza solo per il gusto di partire.

Il sapore del fico, la pelle della propria gamba, che reagisce nel modo conosciuto ma anche nuovo, un dolore fisico mai provato, e poi superato.
E scoprire, scoprendo, che qualcuno prima di noi sapeva, aveva già scoperto a sua volta e aveva fatto dono agli altri del suo lavoro. Un lavoro non per gli altri, immagino, o non solo per gli altri, ma che ora lo è diventato.

Forse è questa la bellezza, alla fine, lo scopo, momentaneo, totalizzante, assorbente. 
Il solo scopo, prima di iniziare a dimenticare perché occorre sempre avere un luogo da scoprire, magari esattamente lo stesso che ci sembra di conoscere da tanti, tantissimi anni.  


                                                                                                         Silvano C.©   

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sabato 6 giugno 2015

Quando sono stanco io lavo i pavimenti


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Quando torno a casa dopo un’assenza di giorni, e magari sono stanco morto, oppure quando sono innervosito, per mille motivi, a volte futili, altre molto seri, mi capita spesso di mettermi a lavare i pavimenti.
Prima aspiro lo sporco, e poi secchio, acqua, disinfettante e strofinaccio.
Mi stanco, facendolo, più di quanto ero prima, ma nello stesso tempo indirizzo verso oggetti inanimati la mia rabbia, mi sfogo, e l’esercizio fisico allenta un po’ la tensione.
Quando, tantissimi anni fa, tornavo da un viaggio in un vecchio appartamento dove vivevo ancora con i miei nonni, trovavo sempre i pavimenti tirati a specchio, lucidi, perfetti, ed era un piacere sottile quello che mi faceva ritrovare le stanze, le mie stanze.
Forse uno dei motivi è quello, ne sono certo, un ricordo di mia nonna insomma.
È possibile anche che in certi momenti poi non sopporti quello sporco che altrimenti, con un altro umore, neppure noterei.
Non ne conosco il vero motivo, questo è solo un fatto, assolutamente marginale. Ma non è marginale il piacere, poi, di camminare scalzi per casa e non ritrovarsi con i piedi neri. Ecco, ho detto tutto.
Anzi no. Ho appena finito di lavare i pavimenti.

                                                                                                         Silvano C.©   

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venerdì 5 giugno 2015

Le briciole della torta sono finite


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Il progresso non procede su un senso unico senza possibili inversioni a U.
Già  un senso unico stradale può essere percorso contromano, ed infatti ci sono sanzioni previste dal codice della strada per queste infrazioni.
Quando poi non bastano le semplici sanzioni, arrivano gli incidenti a spiegare quali conseguenze, a volte tragiche, comporta questo errore, casuale o voluto che sia.
Lo stesso avviene quando il progresso (del quale evito di dare una definizione precisa, pensandolo in senso lato e con un significato genericamente positivo) si interrompe, o addirittura fa passi indietro.
Dalle tante emergenze attuali sembra facile desumere che il processo in Italia si sia interrotto, con avvisaglie che risalgono a diversi decenni fa. Non eravamo razzisti, lo siamo diventati. Ci sentivamo un paese emergente ed ora stiamo impoverendo. I giovani che nascevano in condizioni socioeconomiche poco favorevoli potevano sperare di migliorare rispetto ai genitori, mentre ora probabilmente è l’opposto. Era in atto un processo di ridistribuzione del reddito, ora la ricchezza si concentra solo nelle mani di pochi, e sono sempre di meno.
Si pensava che si sarebbero superate le divisioni che avevano portato alla prima ed alla seconda guerra mondiale con un processo di integrazione europea, ed invece assistiamo ad un riesplodere di nazionalismi egoisti e populisti, mentre l’Europa finanziaria strozza l’ugualianza, l’equità e blocca le riforme sociali.

Non credo che questo sia stata colpa esclusiva dei governi italiani che si sono succeduti in questi trenta o quaranta ultimi anni, perché il mutamento del mondo ignora tranquillamente la nostra piccola penisola, e ben altre potenze militari ed economiche si sono affermate, mentre noi restavamo tra i nostri confini, la maggioranza di noi almeno.
La globalizzazione non la possiamo controllare noi. Lo spostamento di grandi capitali e la finanza del massimo profitto non sono gestibili in modo autonomo dall’Italia. Noi avremmo dovuto combattere evasione e corruzione, ed il non averlo fatto è la nostra colpa maggiore. Il comportamento miope, nostro e dei nostri governi, un po’ mafioso ed opportunista, attento agli interessi personali e familiari e poco incline a pagare le tasse, in una parola “furbo”, quello è tutto merito nostro.

Ci siamo dati leggi praticamente incomprensibili, studiate per permettere a chi ne ha i mezzi di non rispettarle e di lasciare sempre una via di fuga a chi delinque, oltre a non avere assolutamente alcuna certezza della pena. Ora ci lamentiamo del fatto che gli immigrati spacciano e rubano, e vengono lasciati liberi. Ma non credo che siano loro i responsabili di questo stato di cose. Se i delinquenti, italiani e stranieri, pagassero in modo giusto per quanto hanno commesso, il problema non si porrebbe, e permetterebbe di capire che gli stranieri semplicemente fanno quello che noi abbiamo sempre fatto. E che tra loro, come tra gli italiani, la maggioranza non commette reati.

Il problema, in ogni caso, è solo economico. Quando, mangiando la grande torta, una parte toccava a tutti, nessuno si lamentava veramente, e se succedeva era possibile concedere un po’ di quanto richiesto. Ora che questo è finito, che le risorse per i ceti più deboli si sono dirottate altrove (delocalizzate, esportate, investite in modo diverso…), si è scatenata la lotta tra poveri. E allora l’extracomunitario che svolge i lavori che noi non vorremmo più è diventato un rivale, un ladro di risorse, un approfittatore, perché è più povero dei nostri poveri, e compete con loro, mentre questi si sentono abbandonati, si arrabbiano, e diventano razzisti e populisti.
Il nemico individuato nell’extracomunitario è molto più comodo di quello trovato nel vicino elegante che evade le tasse, nel politico che sistema i figli e la moglie, nell’idraulico o nel meccanico che lavorano in nero, nel semplificatore dei concetti trasformati in slogan che ottiene consensi solo soffiando sul malcontento.

Dimenticavo poi un fatto essenziale. Che per me è sottinteso, ma che conviene ribadire. L’Italia è un paese di destra, al massimo di centro-destra. Le sporadiche emersioni della sinistra sono dovute a errori clamorosi delle destre, che a volte litigano troppo tra loro, persino più della masochista sinistra estrema, felice quando finalmente fa perdere un candidato della sinistra moderata. Altro fatto, indimostrabile ma basilare come un assioma matematico, è questo: chi dice di non essere né di destra né di sinistra è invariabilmente di destra.

                                                                                                         Silvano C.©   


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giovedì 4 giugno 2015

il lido di Rovereto

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Da pochi giorni Rovereto ha un suo lido, dove il torrente Leno incontra il fiume Adige. Lascio che a parlare siano le immagini che ho raccolto il 3 giugno 2015, verso le 18.















                                                                                                                                     Silvano C.©   

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La mia buona scuola


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Molte cose vanno mutate, forse, nella scuola, e non è vero che il progetto governativo sia sbagliato, o tutto sbagliato, questo lo riconosco.
Tuttavia la cosa che sulle prime mi destabilizza è come puntualmente ogni esecutivo modifichi la scuola e le sue regole con una propria riforma, spesso vanificando il lavoro appena iniziato in osservanza della riforma precedente.

Non mi piace poi che sia dato sempre più spazio alle scuole pubbliche parificate, che un tempo, in modo meno ipocrita, venivano definite private. La mutazione nel nome del resto ha un motivo: rendere inapplicabile l’art. 33 della Costituzione, che è (sarebbe?) chiarissimo, sotto questo aspetto: “Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato.” Ragionando in questo modo le uniche scuole private in Italia restano le scuole guida (e poche altre sfortunate), e non credo che i Costituenti la pensassero così. Ad esempio mi facevo oggi una domanda apparentemente provocatoria: “Quando è stata l’ultima volta che è caduto un soffitto in una scuola parificata?” (non serve rispondere, ovviamente, è quasi una questione retorica).

Il potere enorme attribuito ai Dirigenti, fatta salva la loro correttezza sino a prova contraria, rischia poi di creare piccoli feudi nel nostro paese che tradizionalmente è nepotista, e di traghettare sempre di più la scuola verso la sponda delle aziende, e non degli enti pubblici destinati alla formazione dei cittadini ed alla cultura.

Non mi piace poi il giudizio sull’insegnante da parte di alunni e genitori, oltre che, giustamente, da parte del Dirigente e degli organi della struttura scolastica, primi tra tutti gli Ispettori.

Affidare tale giudizio agli alunni ed alle famiglie quando a sua volta l’insegnante lavora con la classe è pericoloso, potrebbe arrivare ad una forma di controllo ai limiti del ricatto. Il lavoro dell’insegnante è anche un’opera di semina, di preparazione alla vita, e quindi il giudizio dovrebbe essere richiesto a quegli stessi alunni ed ai loro genitori solo qualche anno dopo, quando si fosse finalmente capito il senso dell’azione del maestro o del professore. L’emotività deve essere allontanata in un sistema valutativo serio.

La mia buona scuola infine vorrebbe vedere riconosciuto il lavoro di tanti giovani insegnanti non ancora di ruolo ma in servizio da molti anni, che si sono sottoposti a corsi di preparazione seri, difficili e selettivi, e che vengono dimenticati nel recente piano di assunzioni.

Altre cose potrei aggiungere, ma mi fermo. Rischierei di annoiare. Non eviterò tuttavia di rispondere alle critiche o alle domande che mi verranno esposte qui in eventuali commenti, che sono sempre graditi, purché non offesivi, anche se in disaccordo con le mie idee.

                                                                                                         Silvano C.©   

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(Questo ultimo aggiornamento è del 4 giugno 2015, il precedente, che trovi QUI, è del 2 giugno) 

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