lunedì 13 aprile 2015

L’indimenticabile mostra del ‘33, a Ferrara




(Estratti dalla pubblicazione della TLA editrice)




Un ringraziamento speciale a Silvana Onofri








Prima di tutto alcune note per descrivere l’ambiente di Ferrara in quegli anni, ben più importanti della mostra stessa.



Nonostante non abitasse più a Ferrara dal 1926, Balbo mantenne con la propria città un legame fortissimo, ritornando di frequente, anche se per brevi periodi. Molti ricordano che amava passeggiare per le vie del centro e fermarsi nei bar più rinomati per incontrare i propri amici e per avere contatti con le personalità più importanti della città. Tra la fine degli anni ‘20 e la metà degli anni ’30, Ferrara si presentava come una città nella quale si moltiplicavano le grandi manifestazioni ed i cortei di piazza che avevano il compito di celebrare le grandi ricorrenze fasciste.

Crebbero a dismisura le organizzazioni di regime “col dichiarato (e in larga parte realizzato) proposito di inquadrare tutta la popolazione e di controllare tutte le manifestazioni di vita collettiva”.



Questa politica fu condotta, genericamente a livello nazionale, ma in una provincia come quella ferrarese, “ebbe un ruolo maggiore che altrove, per la necessità di colmare il vuoto lasciato dalle organizzazioni socialiste e (per) la presenza di masse potenzialmente ostili di braccianti, per la relativa debolezza della borghesia e della chiesa cattolica ferraresi, portate ad appoggiarsi al fascismo assai più che nelle province in cui avevano radici più salde ed articolate, e per la ricchezza di iniziativa del gruppo dirigente che faceva capo a Balbo”.

Un altro elemento deve essere sottolineato se si vuole comprendere quale clima, dopo aver fatto ampio uso della violenza per arrivare ad imporsi, Balbo volesse creare nella città estense: Ferrara venne gratificata, durante il ventennio fascista, di un’amministrazione comunale onesta ed efficiente, guidata sapientemente prima dal sindaco Caretti, e quindi dal podestà Ravenna che “seppero conciliare le tradizioni di ‘buon governo’ dell’amministrazione liberale, la difesa degli interessi di classe e un’apertura alle esigenze propagandistiche a più livelli del regime fascista”.



Un accenno ai rapporti tra Balbo e Mussolini non può essere evitato se si vuole cercare di comprendere il clima nel quale la città estense visse la propria esistenza durante il ventennio.

E’ noto che Balbo fu, tra tutti i gerarchi del fascismo, l’unico ad essere temuto da Mussolini quale possibile antagonista nella guida del paese. Per il duce Balbo “era un gerarca autorevole, ma la sua indubbia superiorità rispetto alla media degli altri collaboratori di Mussolini non gli dava alcuna garanzia di conservare e accrescere la sua posizione, ma ne faceva semmai un concorrente potenziale per il dittatore, anche al di là delle sue intenzioni”.



Per tornare alla Ferrara degli anni del consenso non deve essere dimenticato che il fascismo cercò di sviluppare attivamente un altro settore della cultura locale, quello universitario. La Libera Università di Ferrara era piccola, ma quasi completamente asservita al fascismo. Veniva finanziata dalle banche e dagli enti locali, che ne esprimevano il consiglio di amministrazione del quale Balbo fu presidente; “i docenti del piccolo ateneo erano fascisti militanti o filofasci, a dimostrazione della perfetta integrazione tra cultura vecchia e nuova”.

Già nel 1928 il fascismo ferrarese aveva mostrato il proprio interesse per gli studi sindacali con l’inaugurazione, avvenuta il 12 novembre di quell’anno, alla presenza delle maggiori autorità locali e di Balbo, della laurea in Scienze

sociali e sindacali. A questa iniziativa fece seguito, nel 1935, l’istituzione di una scuola sindacale che era presentata “come l’ultimo atto necessario al completamento del percorso di studi sindacali”.

Ma il tentativo di creare un vero e proprio indirizzo di studi corporativi venne messo in atto nel 1936 con l’istituzione di una Scuola post-universitaria di Perfezionamento in discipline corporative, che doveva sostituire la Facoltà di Scienze sociali e sindacali, ma che finì per non ottenere il successo che si era previsto.

Balbo e il suo gruppo, quindi, lavoravano per accrescere il proprio prestigio e a Ferrara cominciava a respirarsi aria di grandi avvenimenti e di manifestazioni di carattere culturale. La rivisitazione del luminoso passato rinascimentale della città veniva sempre più spesso proposta, ispirando gli eventi che attiravano sulla città estense l’attenzione degli ambienti culturali italiani e stranieri. Si trattava di avvenimenti diversi che “si inserivano nella strumentalizzazione del grande passato nazionale per la gloria del regime, portando però a modello non una Roma imperiale e pretenziosa, ma una Ferrara rinascimentale equilibrata e armoniosa”.

Una città impegnata nella riscoperta di un passato glorioso, quello di una signoria, gli estensi, che governò in maniera dittatoriale una popolazione agri- cola poverissima, afflitta da tasse esorbitanti, ma che, allo stesso tempo, usò la cultura, l’arte e la scienza per affermare ed accrescere il proprio prestigio tra le grandi famiglie di quel tempo.

L’operazione tentata a Ferrara all’inizio degli anni trenta non poteva prescindere dalla presenza nella città estense di grandi personalità che si impegnarono personalmente nel difficile progetto: Angelo Facchini, Nives Comas Casati, Nello Quilici, Renzo Ravenna, Agnelli, Ravegnani, sono alcuni dei protagonisti di quel vivacissimo frangente della storia ferrarese.

A questo punto, in relazione alla presenza fondamentale di Renzo Ravenna e di altri ebrei all’interno della politica messa in atto da Balbo nella città estense, appare importante sottolineare il ruolo centrale che, all’interno di tale realtà ha sempre rivestito la Comunità israelitica. Abbiamo citato tra i nomi dei più importanti collaboratori di Balbo l’avvocato Renzo Ravenna, primo podestà della città estense, che mantenne questo incarico dal 1926, sino alla promulgazione delle leggi razziali nel 1938. Questa figura, prioritaria all’interno della politica di creazione del consenso attuata a Ferrara da Balbo, esemplifica, in qualche modo, il rapporto tra la città estense ed il gruppo ebraico locale. A Ferrara non esisteva un ‘problema’ ebraico; la comunità, che al momento delle leggi razziali contava circa 700 aderenti, “era una delle più anziane e meglio inserite di tutta Italia. Contava una maggioranza di media borghesia commerciale, una minoranza proletaria e un certo numero di agrari medi e grandi, tra i quali alcuni dei più ricchi proprietari della provincia”.

Gli ebrei in questa città erano inseriti a pieno titolo nel tessuto connettivo sia dal punto di vista economico, sia da quello sociale: “infatti furono in grande maggioranza fascisti ferventi”.

Non semplice, quindi, l’intento di descrivere quale fu l’impatto delle leggi razziali sulla popolazione ferrarese non ebraica da sempre abituata a convivere con questa componente perfettamente integrata della società. Balbo riconosceva il legame esistente tra il fascismo ferrarese e molti dei componenti della comunità; per questo motivo, pur essendo conscio dell’impossibilità di fermare Mussolini, nella riunione del gran Consiglio del 6 ottobre 1938, tentò di attenuare la portata della legislazione, ottenendo appoggio solo in De Bono e Federzoni.

La messa in opera delle leggi razziali produsse a Ferrara numerose vittime illustri, primo tra tutti il podestà Ravenna, che si dimise dall’incarico “per evitare ai fascisti ferraresi l’imbarazzo di allontanare dal palazzo comunale un personaggio tanto in vista e, soprattutto, intimo amico di Balbo. Balbo non ottenne di bloccare la legislazione antisemita; nonostante ciò egli “manifestò ripetutamente la sua amicizia verso Ravenna ed altri ebrei cacciati dalle loro cariche...Lo stesso atteggiamento tenne il fascismo ferrarese, che accettò l’antisemitismo senza crederci ed espulse dalla collettività alcune centinaia di persone che pure non sentiva diverse: una dimostrazione di meschinità politica e morale, a ben vedere non poi così sorprendente nel clima grigio e conformista della dittatura fascista e in una provincia che trovava del tutto nato naturale condannare alla più nera miseria la metà almeno dei suoi abitanti”. 



 

in questo clima nacque l’idea della mostra.



Corrado Padovani ricorda come «Nell’autunno del 1932, a Roma, Italo Balbo, discutendo con altri ferraresi della prossima celebrazione del IV centenario della morte di Ludovico Ariosto, colse l’idea di una mostra d’arte antica da tenersi a Ferrara e la fece sua. Col direttore generale delle Belle Arti, Arduino Colasanti, con Nello Quilici, direttore del “Corriere Padano” e con Renzo Ravenna, podestà di Ferrara, decise così di organizzare una esposizione dell’arte antica ferrarese»

Una volta specificato che l’idea della mostra risale in realtà all’inverno precedente e che direttore generale delle belle arti non era allora Colasanti ma Roberto Paribeni - che ha infatti avuto una parte importante negli eventi che portarono all’esposizione - è certo che l’idea dell’iniziativa nacque nella più ristretta cerchia dei collaboratori di Balbo.

La possibilità di commemorare il centenario ariosteo con una mostra d’arte ferrarese del Quattro e Cinquecento fu prospettata infatti per la prima volta da Renzo Ravenna alla riunione istitutiva del Comitato organizzatore delle celebrazioni, tenutasi nella residenza municipale il 1° marzo 1932.  



Si trattava di un progetto di cui rimaneva da verificare la realizzabilità, innanzitutto finanziaria, nato al di fuori dell’iniziativa del Comitato promotore dell’Ottava d’Oro e difatti non compreso nel programma delle manifestazioni presentato in quell’occasione.

All’aprirsi di un dibattito fra chi riteneva opportuno limitare i prestiti dall’estero e concentrare gli sforzi sui pittori meno rappresentati in Pinacoteca e chi invece pensava che, per destare interesse, la mostra dovesse raccogliere le opere ferraresi sparse nel mondo, Ravenna chiarì immediatamente di aver già parlato dell’argomento con Italo Balbo, «il Quale vuole che la mostra non abbia carattere paesano, ma assurga bensì ad interesse nazionale». Fu chiaro fin da principio che, se avesse avuto luogo, l’iniziativa sarebbe stata concepita in modo tale da diventare l’avvenimento principale delle celebrazioni. 
Per questo, mentre l’organizzazione delle altre manifestazioni venne delegata alle competenti sottocommissioni, quella della mostra fu sempre tenuta saldamente in mano dal podestà.

Invitato a riferire entro un mese sulle possibilità dell’esposizione, Arturo Giglioli, direttore onorario della pinacoteca, presenta la sua relazione il 2 aprile successivo.

Si tratta di una lista di settantun dipinti preceduta da una pagina giustificativa delle scelte fatte. Sia le note di commento alle opere più importanti che la breve sintesi storica introduttiva ricalcano, non solo le attribuzioni, ma anche i giudizi e la terminologia della Storia dell’arte italiana di Venturi. Secondo Giglioli la rappresentazione in mostra del secolo - o, meglio, dei due mezzi secoli - d’oro ferrarese doveva affidarsi esclusivamente alle opere dei grandi maestri: Tura, Cossa, de’ Roberti, Costa, Dosso e il Garofalo. La selezione dei dipinti è stata chiaramente effettuata sfogliando i volumi di Venturi e scegliendo fra le opere riprodotte quelle provenienti da collezioni italiane, preferibilmente pubbliche, a cominciare ovviamente dalle raccolte ferraresi, fra cui la Vendeghini, i cui dipinti non erano compresi nell’apparato illustrativo della Storia.

I prestiti dall’estero sono solo quattordici (non undici, come riportato nel testo), ma irrinunciabili per la riuscita dell’esposizione. Significativamente, dodici di essi riguardano i tre grandi del Quattrocento, solo due Lorenzo Costa; di Dosso Dossi si prevede unicamente la richiesta di opere da gallerie pubbliche italiane, mentre per il Garofalo si intende risolvere limitandosi ai dipinti in pinacoteca. La scelta è fatta in modo che il numero delle opere in mostra sia ripartito equamente fra i sei autori, con circa una dozzina di opere per ciascuno.

L’aspetto organizzativo ed economico è liquidato in sei-sette righe: l’allestimento è improntato al risparmio, con cavalletti e tramezze in legno, per una spesa di circa 8.000 lire

(contro le 130.000 che saranno preventivate da Barbantini).



 

 












 





Da ricordare che anche il Palio di San Giorgio non poteva mancare in quel 1933











Ferrara. Alla presenza di S.M. il Re si è chiusa la celebrazione del IV Centenario Ariostesco


Nelle celebrazioni ferraresi di Ludovico Ariosto l'Italia rivendica con rinnovato titolo le glorie spirituali del rinascimento che diedero luce e lezione al mondo.

                                                                                                         Silvano C.©                                                                                                                

( La riproduzione è riservata ma non c'è nessun problema se si cita la fonte, in questo caso le fonti originali, da me ricordate, grazie)


2 commenti:

  1. Il merito, in questo caso, è di Silvana Onofri, mia amica su Facebook e presente anche su twitter, https://twitter.com/silvanaonofri

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