giovedì 30 aprile 2015

Chiesa a luci rosse





In Via Porta S. Pietro, a Ferrara, c’è una chiesa  un po’ particolare.

Dovrei però dire che lo era, una chiesa, e ormai non lo è più. Anzi, era una basilica, eretta attorno alla metà del X secolo, come testimonia una lapide marmorea posta da Ferrariæ Decus sui suoi muri esterni in mattoni rossi, cioè ben prima dell’erezione dell’attuale cattedrale, ed era legata alla cattedrale di Ferrara di quel tempo, cioè alla Basilica di San Giorgio fuori le mura.

Questa chiesa venne ricostruita nel secolo XV, quello della nascita della città rinascimentale e moderna voluta dagli Estensi (Ferrara è stata definita la prima città moderna d’Europa), ed in seguito, con l’arrivo di Napoleone, sconsacrata. Venne restaurata nel 1941, omai in epoca bellica, e in seguito divenne uno dei tanti cinema in città, il San Pietro. 



In quel cinema sono andato molte volte, prima che le cose mutassero radicalmente, sino a trasformare quel luogo in una sorta di spazio fuori dal tempo, sospeso tra un passato che non c’è più ed un presente che pochi accettano, almeno ufficialmente, ma che mantiene la forza di una tradizione.

Ora l’antica chiesa è diventata il cinema a luci rosse Mignon, e su quella sala è stato girato anche un documentario che riporta lo stesso nome del cinema: Mignon.
                                        
              
                                          

                                                                                                                                         Silvano C.©   


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sabato 25 aprile 2015

Quando Buffalo Bill venne a Ferrara

Il West in piazza d'Armi: cow-boys, cow-girls, cavalli, indiani e pistoleri nel primo mega show americano d'esportazione

I bambini non credono sempre agli adulti. Negli anni Cinquanta, una nonna raccontava al nipote, a letto con l'influenza: "Sai Claudio che tanti anni fa, ero una ragazza, è venuto Buffalo Bill a Ferrara, e ho visto il suo circo in Piazza d'Armi." Una bugia, sospettava il bambino; Buffalo Bill altro non era che un personaggio da fumetto.
Eppure, quella memoria avrebbe lasciato un segno sul futuro ricercatore di storia del circo. Da adulto, avrebbe scoperto che quell'eroe leggendario non solo era stato un uomo in carne ed ossa, ma aveva davvero calpestato le strade della nostra città.
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venerdì 24 aprile 2015

Ci guardano, mute...


Ci guardano, mute, sembrano osservarci e giudicarci, o forse sono solo indifferenti, nessuno lo sa.

Noi viviamo per un tempo breve, e per loro siamo meno che falene, ci è impossibile tentare di parlare la loro lingua, se mai ne hanno una, se mai comunicano, e forse lo fanno.

Eppure si muovono, come neppure riusciamo a realizzare con la nostra esperienza limitata. Nascono, vivono e muoiono.

Pare che alcune che sembrano vive in realtà siano morte tanto tempo fa, ma ancora stanno tra le altre, o sembrano stare, sarebbe più giusto dire, come se non volessero perdere la compagnia delle sorelle, che pur lontane per noi forse non lo sono per loro.

Non so cosa vogliano farci capire, ammesso che abbiano questa intenzione, le stelle.


                                                                                                         Silvano C.©   


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giovedì 23 aprile 2015

La vita è dolore


I racconti della fatica e del dolore sembravano favole belle con un lieto fine, perché chi li raccontava era in vita, ed aveva ottenuto qualche risultato con i propri sforzi.
Quelle narrazioni però non erano immagini lontane, momenti di lotte e riscatti, vicende che non ci sarebbero mai toccate.
La vera favola (o illusione) è la prospettiva del miglioramento lento e continuo, del progresso tecnologico e scientifico inarrestabile affiancato dal miglioramento delle condizioni di vita e delle conquiste continue sul piano dei diritti umani.
A questa occorre smettere di credere, come non si crede più alla fatina dei dentini o a babbo natale. 

La provincia di Ferrara ai primi del secolo scorso era povera, l’economia era legata all’agricoltura ed i grandi proprietari terrieri non amavano troppo legarsi a lavoratori ai quali garantire un rapporto regolare. Preferivano assumere al momento del bisogno e licenziare quando il lavoro non serviva. E questo significava miseria e fame, malattie e scarsissima educazione. Solo chi sapeva leggere e scrivere poteva votare, e non le donne. 

La prima guerra mondiale ha portato altra miseria e sacrifici, oltre alla morte, anche se la provincia non è stata toccata direttamente da quel primo conflitto.
Poi è arrivato il fascismo, che ha fatto presa facilmente, malgrado tutta l’area fosse a maggioranza socialista, grazie alla violenza organizzata degli squadristi ed alla convinzione tra strati sempre più larghi della popolazione che le amministrazioni precedenti non avessero saputo lavorare con onestà ed efficienza. In realtà l’arretratezza congenita dell’area non era colpa degli amministratori locali ma del predominio del latifondo e della difesa delle classi più fortunate, e il dissesto economico provocato dalla guerra aveva complicato ulteriormente la situazione. I singoli comuni non avevano alcuna possibilità di intervenire in modo incisivo. 

Il fascismo in seguito non ha fatto altro che allearsi con gli stessi grandi proprietari terrieri e, di fatto, la povertà, invece di diminuire, è aumentata.
La ricostruzione della città, in parte per darle un volto moderno e razionalista, ma anche per offrire lavoro alle migliaia di disoccupati, ha mutato di poco la vita di chi poteva contare solo sulle proprie braccia per mangiare e sfamare i figli. Poi è venuta la seconda guerra mondiale, ed i nostri bisnonni, nonni e genitori hanno pagato duramente quegli anni, senza uscire dalla miseria e, in più, con le tragedie della violenza, dell’occupazione tedesca e della guerra civile.
La prima metà del secolo scorso, insomma, non è stata un periodo da invidiare, o da preferire all’oggi. 

Poi sono arrivati gli anni 50 e 60, gli anni della ricostruzione e delle speranze. Si sono commessi  grossi errori ma, in quei tempi, nessuno sembrava rendersene conto. Ognuno poteva pensare di comprarsi una Vespa o una Lambretta, e subito dopo una piccola Fiat. Era finito, finalmente, il periodo delle Topolino solo per chi aveva soldi. E poi si poteva aspirare ad una casa col bagno, col riscaldamento. Andava bene pure in condominio, in periferia, dimenticando la vecchia e cadente casa in paese. 

E si è iniziato a vivere sopra i propri mezzi, con la sensazione di benessere diffuso e ormai stabilizzato, anche per i propri figli, che non avrebbero più dovuto soffrire come i loro genitori, ma avere comodità e possibilità di studiare, come i figli dei signori, per farsi una posizione e migliorare la propria situazione sociale. 
Una manciata di anni, prima delle avvisaglie del declino imminente, che ancora in pochi vedevano, ed erano presi per portatori di malaugurio.

Si era illusa una generazione che la vita fosse una favola, che il progresso fosse come un treno lanciato ad alta velocità, praticamente inarrestabile.
Invece, prima drammaticamente e poi tragicamente, si è capito che non tutti potevamo vivere da ricchi, che per ottenere qualche cosa occorreva adattarsi ai lavori più umili, oppure emigrare, o comunque spostarsi dal proprio luogo di origine.

Ora il consumismo e l'economia finaziaria hanno creato falsi bisogni, che devono essere soddisfatti a tutti i costi, ma alcuni lavori, ancora, in pochi sono disposti a svolgerli. Si delocalizza? Certo. Si licenzia e si riassume a minor stipendio e senza garanzie? Certo. Ma i nostri nonni, che razza di garanzie avevano, e come vivevano? Forse abbiamo scordato che, per chi nasce in certe condizioni, la vita era, è e sarà sempre dolore.

La foto mi ricorda che mio padre, quando si passava in questa parte della città, mi raccontava sempre che era stato lui a costruire quei palazzi, quando era muratore. Ed una volta, cadendo da un’impalcatura, a momenti è rimasto ucciso, al suolo.


                                                                                                         Silvano C.©   


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mercoledì 22 aprile 2015

Uno spazio per vivere


Cosa rimane dello spazio che si è scelto per vivere, se si è stati fortunati e si è potuto averlo, quello spazio?
Forse quello spazio è solo una costruzione mentale, possiede una dimensione ideale, non fisica. Sicuramente è anche così. Ci si adatta all’ambiente che ci accoglie, che si ruba, che si ottiene per un breve momento, che ci viene proposto, offerto, venduto anche.

E poi, quando noi non ci saremo più, quello spazio vuoto, vuoto di noi, che destino avrà? Io non trovo risposte convincenti, solo nuove domande, o riesco a formulare ipotesi sulla base di quello che ho visto, ma non su quello che non vedrò.
E non è detto che il passato si ripeta, esattamente con le modalità già osservate almeno.

Gli spazi urbani, a partire dalle piccole situazioni dei paesi per arrivare alle grandi realtà metropolitane sono quasi entità autonome, piccoli o grandi formicai nei quali il singolo individuo si perde, e lascia ben poco di suo. Rimangono i segni potenti di momenti storici particolari, a volte contrassegnati da enormi demolizioni e altrettanto importanti costruzioni o ricostruzioni. Capita che qualcuno imponga il suo nome ad una di queste trasformazioni, mentre in altri casi sia il risultato di un lavoro continuo e collettivo, meno personalizzato ma sempre invasivo.
Il tempo cioè impone la sua legge, il suo pensiero dominante anche se momentaneo, e l’individuo non può che assecondarlo. Non serve accettarlo o condividerlo, tanto sarà così ugualmente e ci si dovrà solo abitare, abituandosi.

Tutto cambia tuttavia quando si tratta di una singola casa, che può essere un appartamento o un edificio completo e più importante.
Queste mura si riempiono della presenza delle persone molto di più, perché vi hanno dormito e giocato, gioito e sofferto, hanno vissuto l’amore e l’odio, a volte la violenza, e la noia, o la tranquillità che allora non si percepiva come normalità, e sembrava destinata a durare, in modo indefinito.
Quelle persone hanno colorato le pareti, scelto mobili, messo quadri o stampe, usato calendari, accumulato documenti, fotografie, libri o musica, attrezzi, abiti. Hanno coltivato piccole o grandi piante, hanno cucinato ed impregnato le cose.

Le cose, sempre le cose, quelle inutili cose che non valgono come le persone, ma che sono ciò che le persone fisicamente lasciano, oltre al ricordo ed all’assenza.

Sembra, vivendo altrove e vedendo un amico molto raramente, che lui rimanga inalterato. Un po’ come l’immagine interna che abbiamo di noi che non sempre corrisponde a quella che ci restituisce lo specchio. Ma anche per lui il tempo passa.
Allo stesso modo il gioco del bambino che chiude gli occhi e fissa l’immagine che ha appena visto, e la mantiene esattamente immobile.
Oppure, all’opposto, immagina che tutto sparisca, che nulla esista più.

Tutto questo è la lontananza, che non capisce sino in fondo il tempo che passa, che confonde l’assenza con una semplice distanza spaziale colmabile usando un mezzo diffuso come l’auto, o, ma questo è più immediato, il telefono. 
Il telefono è il più duro, perché obbliga a capire immediatamente. Ma ancora offre scappatoie logiche. Non sembra definitivo.

L’auto invece (o il treno, o l’aereo, il senso non cambia) permette di pensare nell’attesa. Ma poi, trovando il vuoto, le cose senza le persone, la realtà si impone, e la domanda iniziale riemerge.
Ora, questo spazio vuoto di loro, dove hanno vissuto, cosa diventerà?


Nella foto parte del chiostro dell'antico ospedale Sant'Anna, a Ferrara, costruito attorno al 1443 su un convento preesistente per volere degli Estensi. Tutta l'area, negli anni '30 del secolo scorso, subì una vera rivoluzione urbanistica, l'ospedale venne trasferito vicino alle mura, in corso Giovecca, e in quest'area sorsero il museo di storia naturale, il conservatorio Frescobaldi, il centro Boldini e le scuole elementari Alda Costa.
La piazzetta Sant'Anna nel sito del Comune di Ferrara
                                                                                                         Silvano C.©   


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se mi ami ti leggo


dovrebbe essere il contrario.
ho letto tutto degli scrittori che non mi hanno voluta. pochi. anzi uno solo. non che abbia cercato di farmeli tutti eh, si fa per dire… dai…
era ovvio volessi capire che cosa avesse di strano nella testa quel tizio: di solito, e lo dice anche Houellebecq, il maschio prende tutto ciò che gli si offre.


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domenica 19 aprile 2015

mettiamo quell'uomo in una vetrina del museo


È da un po’ che vorrei parlare ancora di uomini che uccidono donne, e di femminicidio.
Poi non ho trovato le parole giuste, ed ho lasciato perdere, continuando però a pensarci.
Il termine non mi piace, questo credo di averlo già scritto, e vorrei evitare di ripetermi anche sul resto. Tuttavia, poiché le tragedie non si fermano, e nuovi casi si aggiungono quasi giornalmente, io penso sempre a questa cosa. Non ne posso parlare ogni momento, ovviamente, ma ci penso.

Sono arrivato alle considerazioni che sintetizzo qui di seguito, più che altro per chiarire a me stesso, e capire se hanno una loro logica.

Alcuni passaggi sono necessari, prima di arrivare al punto.
Credo che il maschio, per sua natura, sia più violento, almeno sul piano fisico, della donna. Questo per motivi evolutivi, genetici, storici e sociali.
Penso che pure la donna possa essere violenta ed uccidere l’uomo, o i figli ed altri. Le cronache non nascondono questi casi.
Aggiungo che un uomo, talvolta, può uccidere una donna ma non perché è donna. E comunque è maggiore il numero di omicidi perpetrati da uomini rispetto a quelli realizzati da donne.

Un femminicidio, per arrivare al punto, è l’uccisione di una donna da parte dell’uomo per solo fatto, o per la motivazione prevalente, che è una donna. A compierlo è chi si sente in qualche modo “autorizzato” dalla sua condizione di maschio che deve dominare, che non può essere lasciato, che deve ottenere comunque la realizzazione del proprio desiderio sessuale, che non è disposto a cedere ad altri ciò che “possiede”.

Prevenirlo, oggi, è praticamente impossibile. La prevenzione richiede tempi lunghi, vuole educazione lenta e costante, cerca piena ed uguale dignità sul piano sociale, religioso, lavorativo, economico e politico. Per prevenirlo occorrerebbe una famiglia che fa crescere i figli con modalità nuove, altrimenti il ciclo non si interrompe. La scuola poi deve supplire alle carenze delle famiglie, ma deve essere quella pubblica statale, non una parificata confessionale, che, per il fatto stesso di essere confessionale, ha un peccato originale da scontare. Dove non arrivano famiglia e scuola dovrebbero fare la loro parte i mezzi di informazione, che però certamente non lo fanno, anzi diseducano. Infine toccherebbe al livello politico imporre con la legge quello che il buon senso sembra non capire. Ma anche qui ci si scontra con posizioni tradizionali, quando non chiaramente omofobe, che rifiutano il pieno riconoscimento di ciascuna persona in ogni sua espressione.

Quindi? Quindi sono pessimista, perché famiglia, scuola, informazione e politica sono carenti, sotto questo aspetto. Ma credo pure che, malgrado non sia alla portata attuale una soluzione radicale, sia però possibile fare piccoli ed importanti passi in ognuno di questi settori. Alternative non ne vedo.


                                                                                                         Silvano C.©   


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venerdì 17 aprile 2015

Il Topo di biblioteca


Che destino triste…
A volte esco, al sole, perché pure a me piace guardarmi attorno, vedere gente, sentire l’aria della primavera, osservare il passeggio apparentemente molto impegnato di chi non ha nulla da fare oppure l’ansia evidente di chi invece non trova mai il tempo di far tutto.
Io, da Topo, non capisco questo strano modo di vivere, e da quando ho imparato a leggere lo capisco ancora meno.
Me se invece di vivere annoiandovi e senza nulla da fare aiutaste invece chi non riesce a finire tutti i suoi lavori non sarebbe meglio? Ognuno di voi vivrebbe meglio, intendo. Perché se poi la piantaste di infastidirmi vivrei meglio pure io.

Da quando ho letto che la cultura non dà da mangiare, non ricordo neppure dove, confesso di aver pensato di non aver mai capito niente. Io, che sono cartofago e che con la cultura ci mangio eccome, sono entrato in crisi, per qualche giorno. C’è voluta Topa, che a volte mi spiega le cose che non capisco, per svelarmi il mistero. Lei non ha mai imparato a leggere, in compenso sa ascoltare, e poi parla, parla con me, ovviamente, ma anche con le altre, e sa molte più cose di me. Cose pratiche, utili, necessarie per tutte le situazioni difficili, e anche quelle meno pratiche, come ad esempio come si chiamano tutti quegli insetti che a me sembrano tutti uguali.

Io, come Topo di biblioteca, a volte preferisco stare solo, tra i libri e le riviste, e mi isolo dal mondo, passando le giornate a guardare le figure, ad annusare le carte di annate diverse, ad assaggiarne ogni tanto qualche bordo un po’ consumato dal tempo. Non arrivo a tutti i volumi, ed alcuni poi sono troppo pesanti per aprirli e sfogliarli. Mi arrabbio molto quando trovo qualche libro rovinato, qualche tomo antico ed importante, intendo. Io quelli non li mangio. Al massimo li annuso. Sanno di muffa buona, di polvere e di legno di scaffale, oppure di cuoio, visto che alcuni hanno una copertina molto importante.

Leggo tutto quello che posso raggiungere e sfogliare, e mangio solo i libri che nessuno tocca mai da tanti anni, quelli messi in qualche angolo, che ogni tanto spariscono. Forse li buttano, non so perché. Eppure sono ancora molto buoni.
Io sono felice di quello che faccio, mi piace proprio. Non so a chi racconterò tutte le cose che ho imparato e sto ancora imparando. Devo parlarne con Topa. Magari mi darà qualche idea, sono certo che lei ha quella giusta. Devo anche raccontarle quello che ho scoperto oggi, e che mi ha fatto arrabbiare. Chiamano topo di biblioteca chi legge da solo tutto il giorno e rimane sempre chiuso senza vedere gli altri, si isola ed è preso in giro da chi invece pensa di fare cose che giudica molto più importanti ed interessanti. È una cosa brutta, detta in questo modo. Non mi piace.

È un destino triste quello di essere fraintesi dagli altri e magari derisi, solo perché si ama leggere. A me piace pure uscire, mica resto qui tutto il giorno. Ho già detto che mi piace stare al sole, a guardare la gente, ma devo stare attento che non mi vedano, altrimenti finisce male. Puoi benissimo immaginare che fine mi fanno fare se mi vedono. Ma ho i miei posti sicuri, dove posso stare tranquillo. Una volta mi sono appisolato, su un ramo, guardando quelli che passavano sotto di me, e quasi cadevo di sotto. Stavo ricordando dei viaggi nei quartieri lontani, quando ero ancora un topino piccolo. Che scoperte. Quante cose nuove. E che paure, quando capitavo dove non dovevo mettere il muso.

Devo raccontarvi però, prima di tornare a leggere, che le carte più buone non sono quelle tutte patinate o coloratissime. Sono belle da vedere ma non da mangiare. Neppure i giornali e le riviste sono buoni. Fanno cattivo odore ed hanno un cattivo sapore. Sono saporiti solo quelli stagionati. Quelli dell’annata 1990 e quelli ancora più vecchi hanno guadagnato molto, se conservati all’asciutto, e lasciano un retrogusto piacevole che rimane anche dopo averli masticati e deglutiti. I migliori sono i libri degli anni 30 e 40, con carta grossa, fatta di vera cellulosa, a volte anche con stracci, come tanti anni prima. Quelli però sono solo per le occasioni speciali. Sono troppo belli per mangiarli. Mi piace anche solo guardarli, o sfogliarli facendo molta attenzione.



                                                                                                         Silvano C.©   


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primavera, amore e un buon libro.



in una tiepida serata primaverile ecco che penso a te.
a te innamoramento adolescenziale.a te batticuore feroce.
a te frase fatta sempre in agguato.
(continua a leggere)

giovedì 16 aprile 2015

Autocensura


Per il vocabolario Treccani è, in genere, il fatto e la capacità di censurare sé stessi, sorvegliando e limitando l’espressione dei proprî pensieri e sentimenti o, comunque, controllando il proprio linguaggio. È utile, ne abbiamo bisogno, limitiamo con questo la nostra libertà, è controproducente e crea solo danni e frustrazione? Mica so rispondere a tutte queste domande. O meglio. Io ho una risposta, ma non vale sempre e non per tutti. Cioè ho una semplice opinione, e tale la reputo, anche se la applico.



Sicuramente si può intendere come soluzione di comodo per non esporsi, ne sono perfettamente consapevole e non rifiuto a priori tale interpretazione, o ancora come disponibilità eccessiva al compromesso, ammettendo di saper dare un limite certo al giusto ed allo sbagliato.



Personalmente ritengo invece prevalente un’altra posizione, cioè il controllo della propria azione in funzione della posizione che si occupa nella società e del contributo che si è disposti a dare. Sul piano personale invece il non dare libero sfogo ad ogni cosa che può passare per la mente, perché, nella mente, passa di tutto, compresi istinti omicidi.



Sul piano sociale il parlare senza vincoli e senza pensare alle conseguenze delle proprie parole è tipico degli stadi giovanili. Se agito in altri momenti della vita è impossibile non vedere sotto le parole “libere” un disegno preciso, un tentativo di influenzare, senza la mediazione della ragione, i più deboli. In questo caso autocensura coincide con autocontrollo, ed è finalizzato a trasmettere messaggi non edulcorati, certo, ma neppure negativi per partito preso. Ad esempio un personaggio molto seguito sui social riversa su chi lo segue messaggi sempre critici, polemici, che vanno a scavare negli errori e nella malafede del potere, in modo sistematico, raramente costruttivo, cioè con soluzioni alternative praticabili. È nato per stare all’opposizione, e questo è sicuramente accettabile. Tuttavia un giorno, tanto tempo fa, ricordo di avergli fatto una domanda, più o meno in questi termini: Tu continui a vedere nero ovunque, e anche andando indietro di giorni non vedo nulla di vagamente ottimista tra le cose che scrivi. Possibile che stamattina, ad esempio, non sia stata una bella mattina, o che con gli amici tu non sia andato in pizzeria a passare una bella serata? Ovviamente non ho avuto risposta.



Sul piano personale il discorso è un po’ diverso. Sino a che punto siamo liberi? Un esempio educativo chiarificatore è il seguente.
Un ragazzino delle elementari, con la madre, è in giro a far compere. Incontrano un’amica della madre la quale, dopo i saluti di rito, con mossa psicologica un po’ discutibile, chiede al ragazzino come va a scuola.
- Sono fatti miei – risponde senza incertezze il ragazzino. E puntuale arriva la sberla della madre.
Chi ha sbagliato nell’episodio narrato? Tutti, chiaramente tutti. È un esempio di comunicazioni errate.

Occorre frenare sempre quello che ci verrebbe automatico rispondere, specialmente in caso di provocazioni. E mediare, saper valutare se le nostre parole possono essere “cattive” inutilmente, quindi evitarle. Non si possono seguire tutti i più elementari istinti in nome di una libertà individuale massimo valore indiscutibile. Ci sono gli amici, i genitori ed i figli, i compagni, i colleghi e chi si incontra ogni giorno che meritano rispetto. Lo stesso che vorremmo noi, e non sempre otteniamo.

Nel rapporto a due, chiunque siano i due, è evidente poi che il freno è legato al conoscersi, al rispettarsi, al desiderio di non ferirsi, e, allo stesso tempo, al non snaturare la propria personalità. È un equilibrio, una conquista continua, un avanzare ed un cedere terreno.



Esiste una validissima alternativa. 
Si chiama solitudine col proprio enorme io.

L’immagine è di Ludwig Richter, illustrazione per Robinson Crusoe, 1848

                                                                                                         Silvano C.©   


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mercoledì 15 aprile 2015

Variazioni sul tema

Informativa sulla privacy

Tu pensala pure come vuoi, io ti racconterò solo di me. Fingerò talvolta di pensare ad altro o ad altri, di incuriosirmi, di mostrarmi disponibile. Non fidarti.
Se leggo a mia volta ciò che altri scrivono, grandissimi scrittori o ignoti personaggi come il sottoscritto, non posso che continuare a convincermi sempre più di questa idea. Ognuno scrive solo della propria vita, della propria esperienza, dei propri interessi. E lo stesso vale per chi racconta, invece di scrivere, assolutamente stessa situazione, anche se il mezzo muta.

E molti cercano di imporsi, vorrebbero farsi leggere, cercano di vendere le loro idee, le sentono importanti, e non capiscono come sia possibile che altri noti nei campi più diversi possano avere un successo indiscutibile di vendite con libri che valgono poco o nulla, superficiali e ripetitivi, a volte scopiazzati, oppure, nella migliore delle ipotesi, consolatori, frutto di una sapiente opera di adeguamento del loro lavoro al gusto, spesso discutibile, del pubblico che legge.

Eppure anche questi (e anche tu, se sei uno di loro) non possono che variare sul loro tema, e se non riescono a realizzare quanto desiderano non hanno molte vie di scampo. Non possono mentire, in altre parole. 

Ma non c’è da stupirsi. È la realtà che si appiattisce sull’ovvio, sul facile, sul comprensibile senza fatica, su ciò che solletica l’illusione di essere simili al famoso calciatore, alla presentatrice televisiva, all’opinionista furbo.
Studiare è faticoso, approfondire un tema senza sbilanciarsi in commenti idioti porta via tempo, fare una battuta spiritosa paga molto di più, e crea più facilmente il consenso. Se si tocca il sesso in modo un po’ morboso ma elegante si spunta più facilmente. Io, ad esempio, tra tutti i post che ho scritto per questo blog, vedo che uno in particolare, non particolarmente riuscito, a mio giudizio, ma grazie ad un titolo fortunato e ad una immagine evocativa da luci rosse, viene aperto, e forse letto, in modo regolare.

Mica lo rinnego, sia chiaro. Io sono quello, e sono anche altro, perché dovrei dire che non è così? Se dovessi vendere farei molta più attenzione, avrei qualcuno a darmi consigli commerciali, a correggermi gli errori macroscopici, ma per fortuna mia non è quello che devo fare.

Il desiderio di raccontare è quello che alla fine rimane. A volte seguo a ruota libera i pensieri, come in questo caso. In altri momenti mi perdo a cercare informazioni, a leggere libri, a recuperare notizie in rete, e poi mi azzardo in una ricostruzione, oppure tento una cronaca relativamente oggettiva.

Sono sempre io però. E se pure tu, che ora mi leggi, cedi al desiderio di scrivere, sai che sei sempre tu, in mille modi diversi, certo, ma sempre tu.
Sarà anche finzione, è chiaro, perché molto viene raccontato volutamente camuffato da altro, o perché un blocco impedisce di arrivare sino al fondo, che è oscuro, squallido, banale, o pauroso. 

E le citazioni, i libri letti di altri, che posto occupano nel nostro essere necessariamente noi stessi e nel variare ossessivamente lo stesso tema? Ma è ovvio, non ti pare? Sono citazioni. Cioè si scelgono quelle parti di un discorso altrui che corrispondono esattamente a quello che noi intendiamo dire.

Come pensava il Zanferighi, scrivendo il suo purtroppo raramente citato “La notte delle lucertole”, il cacciatore si nasconde per occultarsi alla sua preda, e quella tenta di mimetizzarsi per sfuggire alla fine che l’aspetta, prima o poi.
Ed in questo gioco mortale senza fine qualche cosa emerge di tanto in tanto, e diviene visibile, fatalmente.
Ma è sempre una variazione, nulla di veramente nuovo.


L’immagine rappresenta una notte in Central Park
                                                                                                         Silvano C.©                                                                                                                


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lunedì 13 aprile 2015

L’indimenticabile mostra del ‘33, a Ferrara




(Estratti dalla pubblicazione della TLA editrice)




Un ringraziamento speciale a Silvana Onofri








Prima di tutto alcune note per descrivere l’ambiente di Ferrara in quegli anni, ben più importanti della mostra stessa.



Nonostante non abitasse più a Ferrara dal 1926, Balbo mantenne con la propria città un legame fortissimo, ritornando di frequente, anche se per brevi periodi. Molti ricordano che amava passeggiare per le vie del centro e fermarsi nei bar più rinomati per incontrare i propri amici e per avere contatti con le personalità più importanti della città. Tra la fine degli anni ‘20 e la metà degli anni ’30, Ferrara si presentava come una città nella quale si moltiplicavano le grandi manifestazioni ed i cortei di piazza che avevano il compito di celebrare le grandi ricorrenze fasciste.

Crebbero a dismisura le organizzazioni di regime “col dichiarato (e in larga parte realizzato) proposito di inquadrare tutta la popolazione e di controllare tutte le manifestazioni di vita collettiva”.



Questa politica fu condotta, genericamente a livello nazionale, ma in una provincia come quella ferrarese, “ebbe un ruolo maggiore che altrove, per la necessità di colmare il vuoto lasciato dalle organizzazioni socialiste e (per) la presenza di masse potenzialmente ostili di braccianti, per la relativa debolezza della borghesia e della chiesa cattolica ferraresi, portate ad appoggiarsi al fascismo assai più che nelle province in cui avevano radici più salde ed articolate, e per la ricchezza di iniziativa del gruppo dirigente che faceva capo a Balbo”.

Un altro elemento deve essere sottolineato se si vuole comprendere quale clima, dopo aver fatto ampio uso della violenza per arrivare ad imporsi, Balbo volesse creare nella città estense: Ferrara venne gratificata, durante il ventennio fascista, di un’amministrazione comunale onesta ed efficiente, guidata sapientemente prima dal sindaco Caretti, e quindi dal podestà Ravenna che “seppero conciliare le tradizioni di ‘buon governo’ dell’amministrazione liberale, la difesa degli interessi di classe e un’apertura alle esigenze propagandistiche a più livelli del regime fascista”.



Un accenno ai rapporti tra Balbo e Mussolini non può essere evitato se si vuole cercare di comprendere il clima nel quale la città estense visse la propria esistenza durante il ventennio.

E’ noto che Balbo fu, tra tutti i gerarchi del fascismo, l’unico ad essere temuto da Mussolini quale possibile antagonista nella guida del paese. Per il duce Balbo “era un gerarca autorevole, ma la sua indubbia superiorità rispetto alla media degli altri collaboratori di Mussolini non gli dava alcuna garanzia di conservare e accrescere la sua posizione, ma ne faceva semmai un concorrente potenziale per il dittatore, anche al di là delle sue intenzioni”.



Per tornare alla Ferrara degli anni del consenso non deve essere dimenticato che il fascismo cercò di sviluppare attivamente un altro settore della cultura locale, quello universitario. La Libera Università di Ferrara era piccola, ma quasi completamente asservita al fascismo. Veniva finanziata dalle banche e dagli enti locali, che ne esprimevano il consiglio di amministrazione del quale Balbo fu presidente; “i docenti del piccolo ateneo erano fascisti militanti o filofasci, a dimostrazione della perfetta integrazione tra cultura vecchia e nuova”.

Già nel 1928 il fascismo ferrarese aveva mostrato il proprio interesse per gli studi sindacali con l’inaugurazione, avvenuta il 12 novembre di quell’anno, alla presenza delle maggiori autorità locali e di Balbo, della laurea in Scienze

sociali e sindacali. A questa iniziativa fece seguito, nel 1935, l’istituzione di una scuola sindacale che era presentata “come l’ultimo atto necessario al completamento del percorso di studi sindacali”.

Ma il tentativo di creare un vero e proprio indirizzo di studi corporativi venne messo in atto nel 1936 con l’istituzione di una Scuola post-universitaria di Perfezionamento in discipline corporative, che doveva sostituire la Facoltà di Scienze sociali e sindacali, ma che finì per non ottenere il successo che si era previsto.

Balbo e il suo gruppo, quindi, lavoravano per accrescere il proprio prestigio e a Ferrara cominciava a respirarsi aria di grandi avvenimenti e di manifestazioni di carattere culturale. La rivisitazione del luminoso passato rinascimentale della città veniva sempre più spesso proposta, ispirando gli eventi che attiravano sulla città estense l’attenzione degli ambienti culturali italiani e stranieri. Si trattava di avvenimenti diversi che “si inserivano nella strumentalizzazione del grande passato nazionale per la gloria del regime, portando però a modello non una Roma imperiale e pretenziosa, ma una Ferrara rinascimentale equilibrata e armoniosa”.

Una città impegnata nella riscoperta di un passato glorioso, quello di una signoria, gli estensi, che governò in maniera dittatoriale una popolazione agri- cola poverissima, afflitta da tasse esorbitanti, ma che, allo stesso tempo, usò la cultura, l’arte e la scienza per affermare ed accrescere il proprio prestigio tra le grandi famiglie di quel tempo.

L’operazione tentata a Ferrara all’inizio degli anni trenta non poteva prescindere dalla presenza nella città estense di grandi personalità che si impegnarono personalmente nel difficile progetto: Angelo Facchini, Nives Comas Casati, Nello Quilici, Renzo Ravenna, Agnelli, Ravegnani, sono alcuni dei protagonisti di quel vivacissimo frangente della storia ferrarese.

A questo punto, in relazione alla presenza fondamentale di Renzo Ravenna e di altri ebrei all’interno della politica messa in atto da Balbo nella città estense, appare importante sottolineare il ruolo centrale che, all’interno di tale realtà ha sempre rivestito la Comunità israelitica. Abbiamo citato tra i nomi dei più importanti collaboratori di Balbo l’avvocato Renzo Ravenna, primo podestà della città estense, che mantenne questo incarico dal 1926, sino alla promulgazione delle leggi razziali nel 1938. Questa figura, prioritaria all’interno della politica di creazione del consenso attuata a Ferrara da Balbo, esemplifica, in qualche modo, il rapporto tra la città estense ed il gruppo ebraico locale. A Ferrara non esisteva un ‘problema’ ebraico; la comunità, che al momento delle leggi razziali contava circa 700 aderenti, “era una delle più anziane e meglio inserite di tutta Italia. Contava una maggioranza di media borghesia commerciale, una minoranza proletaria e un certo numero di agrari medi e grandi, tra i quali alcuni dei più ricchi proprietari della provincia”.

Gli ebrei in questa città erano inseriti a pieno titolo nel tessuto connettivo sia dal punto di vista economico, sia da quello sociale: “infatti furono in grande maggioranza fascisti ferventi”.

Non semplice, quindi, l’intento di descrivere quale fu l’impatto delle leggi razziali sulla popolazione ferrarese non ebraica da sempre abituata a convivere con questa componente perfettamente integrata della società. Balbo riconosceva il legame esistente tra il fascismo ferrarese e molti dei componenti della comunità; per questo motivo, pur essendo conscio dell’impossibilità di fermare Mussolini, nella riunione del gran Consiglio del 6 ottobre 1938, tentò di attenuare la portata della legislazione, ottenendo appoggio solo in De Bono e Federzoni.

La messa in opera delle leggi razziali produsse a Ferrara numerose vittime illustri, primo tra tutti il podestà Ravenna, che si dimise dall’incarico “per evitare ai fascisti ferraresi l’imbarazzo di allontanare dal palazzo comunale un personaggio tanto in vista e, soprattutto, intimo amico di Balbo. Balbo non ottenne di bloccare la legislazione antisemita; nonostante ciò egli “manifestò ripetutamente la sua amicizia verso Ravenna ed altri ebrei cacciati dalle loro cariche...Lo stesso atteggiamento tenne il fascismo ferrarese, che accettò l’antisemitismo senza crederci ed espulse dalla collettività alcune centinaia di persone che pure non sentiva diverse: una dimostrazione di meschinità politica e morale, a ben vedere non poi così sorprendente nel clima grigio e conformista della dittatura fascista e in una provincia che trovava del tutto nato naturale condannare alla più nera miseria la metà almeno dei suoi abitanti”. 



 

in questo clima nacque l’idea della mostra.



Corrado Padovani ricorda come «Nell’autunno del 1932, a Roma, Italo Balbo, discutendo con altri ferraresi della prossima celebrazione del IV centenario della morte di Ludovico Ariosto, colse l’idea di una mostra d’arte antica da tenersi a Ferrara e la fece sua. Col direttore generale delle Belle Arti, Arduino Colasanti, con Nello Quilici, direttore del “Corriere Padano” e con Renzo Ravenna, podestà di Ferrara, decise così di organizzare una esposizione dell’arte antica ferrarese»

Una volta specificato che l’idea della mostra risale in realtà all’inverno precedente e che direttore generale delle belle arti non era allora Colasanti ma Roberto Paribeni - che ha infatti avuto una parte importante negli eventi che portarono all’esposizione - è certo che l’idea dell’iniziativa nacque nella più ristretta cerchia dei collaboratori di Balbo.

La possibilità di commemorare il centenario ariosteo con una mostra d’arte ferrarese del Quattro e Cinquecento fu prospettata infatti per la prima volta da Renzo Ravenna alla riunione istitutiva del Comitato organizzatore delle celebrazioni, tenutasi nella residenza municipale il 1° marzo 1932.  



Si trattava di un progetto di cui rimaneva da verificare la realizzabilità, innanzitutto finanziaria, nato al di fuori dell’iniziativa del Comitato promotore dell’Ottava d’Oro e difatti non compreso nel programma delle manifestazioni presentato in quell’occasione.

All’aprirsi di un dibattito fra chi riteneva opportuno limitare i prestiti dall’estero e concentrare gli sforzi sui pittori meno rappresentati in Pinacoteca e chi invece pensava che, per destare interesse, la mostra dovesse raccogliere le opere ferraresi sparse nel mondo, Ravenna chiarì immediatamente di aver già parlato dell’argomento con Italo Balbo, «il Quale vuole che la mostra non abbia carattere paesano, ma assurga bensì ad interesse nazionale». Fu chiaro fin da principio che, se avesse avuto luogo, l’iniziativa sarebbe stata concepita in modo tale da diventare l’avvenimento principale delle celebrazioni. 
Per questo, mentre l’organizzazione delle altre manifestazioni venne delegata alle competenti sottocommissioni, quella della mostra fu sempre tenuta saldamente in mano dal podestà.

Invitato a riferire entro un mese sulle possibilità dell’esposizione, Arturo Giglioli, direttore onorario della pinacoteca, presenta la sua relazione il 2 aprile successivo.

Si tratta di una lista di settantun dipinti preceduta da una pagina giustificativa delle scelte fatte. Sia le note di commento alle opere più importanti che la breve sintesi storica introduttiva ricalcano, non solo le attribuzioni, ma anche i giudizi e la terminologia della Storia dell’arte italiana di Venturi. Secondo Giglioli la rappresentazione in mostra del secolo - o, meglio, dei due mezzi secoli - d’oro ferrarese doveva affidarsi esclusivamente alle opere dei grandi maestri: Tura, Cossa, de’ Roberti, Costa, Dosso e il Garofalo. La selezione dei dipinti è stata chiaramente effettuata sfogliando i volumi di Venturi e scegliendo fra le opere riprodotte quelle provenienti da collezioni italiane, preferibilmente pubbliche, a cominciare ovviamente dalle raccolte ferraresi, fra cui la Vendeghini, i cui dipinti non erano compresi nell’apparato illustrativo della Storia.

I prestiti dall’estero sono solo quattordici (non undici, come riportato nel testo), ma irrinunciabili per la riuscita dell’esposizione. Significativamente, dodici di essi riguardano i tre grandi del Quattrocento, solo due Lorenzo Costa; di Dosso Dossi si prevede unicamente la richiesta di opere da gallerie pubbliche italiane, mentre per il Garofalo si intende risolvere limitandosi ai dipinti in pinacoteca. La scelta è fatta in modo che il numero delle opere in mostra sia ripartito equamente fra i sei autori, con circa una dozzina di opere per ciascuno.

L’aspetto organizzativo ed economico è liquidato in sei-sette righe: l’allestimento è improntato al risparmio, con cavalletti e tramezze in legno, per una spesa di circa 8.000 lire

(contro le 130.000 che saranno preventivate da Barbantini).



 

 












 





Da ricordare che anche il Palio di San Giorgio non poteva mancare in quel 1933











Ferrara. Alla presenza di S.M. il Re si è chiusa la celebrazione del IV Centenario Ariostesco


Nelle celebrazioni ferraresi di Ludovico Ariosto l'Italia rivendica con rinnovato titolo le glorie spirituali del rinascimento che diedero luce e lezione al mondo.

                                                                                                         Silvano C.©                                                                                                                

( La riproduzione è riservata ma non c'è nessun problema se si cita la fonte, in questo caso le fonti originali, da me ricordate, grazie)


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