martedì 31 marzo 2015

#Evasione e #CanoneRai


Eppure l’idea sarebbe anche semplice.
Sui social, dove gli idioti che si ritengon furbi mettono le loro foto o i loro filmati mentre commettono infrazioni stradali, vandalismi, aggressioni ed altre simili prodezze, molti non aspettano altro che inizi una trasmissione televisiva per riempire in particolare Twitter di hashtag (quelle parole precedute dal cancelletto # che raccolgono per temi tutti gli interventi) per dire la loro su quello che stanno vedendo in tv, commentando i vari Mentana, Crozza, Gabanelli, Zoro, Fazio, Giannini, Floris e via continuando.
A questo punto basterebbe fare un piccolo controllo incrociato e verificare quali tra costoro pagano o no il canone, che è una tassa dovuta per il possesso di un apparecchio adatto a ricevere trasmissioni televisive.
Sarebbe difficile farlo? Forse sì. I social che ci colonizzano hanno radici straniere e difendono prima di tutto i loro interessi e quindi la privacy dei loro utenti.
Il bello tuttavia è che molti sono in rete con nome, cognome e foto. Questi sono facilmente controllabili, no?
C’è di peggio tuttavia, come non pagare l’assicurazione stradale obbligatoria per i veicoli, la RCA. Anche in quel caso basterebbe fare un paio di controlli ed incrociare i dati per far uscire allo scoperto le migliaia di evasori e potenziali pirati stradali che, in caso di incidente, tenteranno di darsi alla fuga per non far scoprire di non essere in regola.
Vabbè. Buona giornata.


                                                                                                                               Silvano C.©

( La riproduzione è riservata ma non c'è nessun problema se si cita la fonte, grazie)

lunedì 30 marzo 2015

La cura


Nessun tavolo zoppica se messo nel punto giusto. [Ben Samuel Kochirowskjj]

- Mi racconti come è andato quest’ultimo mese. Come si sente adesso?
La dottoressa lo guarda con la consueta aria professionale e dimostra interesse per quanto lui riesce a fatica ad esprimere.
A volte ha persino l’impressione di star semplicemente discutendo con un’amica al bar.
Molto a lungo del resto ha pensato, e non di rado espresso, che piuttosto di raccontare i propri problemi ad uno strizzacervelli avrebbe preferito andare a trovare qualche amico. E quella psicoterapeuta gli era stata consigliata esattamente da un’amica, quindi la proposta in fondo non gli era dispiaciuta, e l’aveva accettata. 
- Mi sembra di non essere stato male, se devo essere sincero. Di notte dormo sempre pochissimo e in modo agitato, ma di giorno, quando riesco a distrarmi o pensare solo al lavoro, credo di poter anche sorridere, qualche volta.
 - Ha sempre quei sogni che le capitano di frequente? Mi piacerebbe che mi raccontasse di quelli, se le va.
Lui non ne è certo, non è certo quasi di nulla da quando Sofia lo ha mollato dopo appena tre anni di matrimonio. Si sono lasciati in modo doloroso, per lui, che si è sentito accusare di essere semplicemente un depravato, un inibito, un falso, e via continuando.  
 - Non so, credo di aver sognato ancora in un paio di occasioni la situazione nella quale io guardo, di notte, quello che succede in una stanza illuminata. Una volta credo di essermi appostato, volutamente, per spiare dentro. Un’altra invece stavo solo passando per caso per strada, e mi è capito di vedere la luce che si accendeva.
 - Continui.
 - Quello che vedo ogni notte mi sembra diverso. Spesso resto deluso. E mi sveglio con un senso di malessere che impiega un po’ di tempo a passare. Mi fa sentire sporco.
 - Mi spieghi questo particolare. Ancora non mi ha detto ciò che prova veramente, in relazione a quello che sogna.
Lui rimane silenzioso, riflette, non sa ancora se deve dire o non deve dire. Poi decide di iniziare poco a poco.
 - Se dovessi ricordare tutte queste situazioni mi verrebbe da pensare che in diversi casi io osservo la vita degli altri, volutamente, per trovare altrove cose che probabilmente mi mancano, ma non ne sono sicuro…
Si interrompe e la guarda, in attesa, ma lei stavolta non lo incoraggia. Aspetta solo che continui.
- Spesso vedo solo stanze vuote, o dove passa qualcuno di indistinto, preso da faccende che non so quali possano essere. Allora osservo i particolari, come il soffitto, i quadri, le luci, i mobili. Mi ritrovo spesso per strada, e io sono in basso, mentre le finestre che osservo sono al primo o al secondo piano, più in alto insomma. A volte vedo donne, che sfuggono alla mia vista tanto rapidamente quanto velocemente sono entrate…
- Continui.
- Solo una volta ne ho osservata una che si stava cambiando. L’ho vista seminuda, ma non se sono certo. Potrei anche aver sovrapposto immagini di sogno e fantasia. Non sono mai sicuro di quello che ho sognato veramente… (pausa)
- Lei si ricorda di prendere appunti, appena sveglio, come le ho chiesto?
- Sì, lo faccio, se ne ho il tempo. Diciamo che lo faccio molto spesso.
- Va bene, scusi, continui, mi parli di questa donna. L’ha vista una volta sola?
- Non sono stato chiaro. Una volta sola in questo periodo, intendevo. Ma è un sogno che mi capita di tanto in tanto, ne sono certo. È una cosa vecchia, credo, che mi trascino da tempo…
Lei lo guarda, dall’altro lato della scrivania. Ogni tanto prende nota di alcune cose con una scrittura fitta e minuta su foglietti piccoli piccoli. Basterebbe un soffio di vento per scompigliare le carte che tiene in apparente disordine sul piano. Lui si distrae a guardare piccoli oggetti, alcuni sono souvenir di viaggi che evidentemente lei ha fatto. Alle pareti, oltre ai diplomi ed i titoli accademici, molti disegni di bambini, ma nessuna foto personale, gli sembra, e neppure riproduzioni di opere d’arte. C’è solo un dipinto originale, una marina, eseguita con una discreta tecnica, lui un po’ ci capisce d’arte.

Una bambina si accorse di essere ammirata e ne provò una piacere mai provato prima. Non erano mamma e papà che la guardavano, ma un ragazzino, forse più grande di lei, forse della sua età. Era in spiaggia a giocare, vicino ai suoi, e in un momento diventò adulta, perdendo l’ingenuità.

Lui si rende conto che la sua pausa è troppo prolungata, e, senza che lei intervenga a stimolarlo, continua.
- Sì, credo sia una cosa che mi viene dall’infanzia. Sin da piccolo mi piaceva osservare le persone, a volte anche di nascosto. E a volte qualcuno, quando se ne accorgeva, reagiva male. Credo sia uno dei motivi che ha messo definitivamente in crisi il rapporto con la mia ex moglie.
- Mi spieghi cosa intende dire. Non era mai arrivato prima a questo tipo di affermazioni, e mi sembra un punto importante.
- Mia moglie, ehm, la mia ex, non ha mai sopportato il fatto di mettersi in mostra, lo ha sempre trovato degradante. Mica cose folli, certo, ma a me la cosa sarebbe piaciuta. Quando le ho confessato la mia fantasia lei ha iniziato ad irrigidirsi. E ad allontanarsi.
- Ho capito, credo di aver capito. Ora le chiedo di riflettere su questo punto, sino al nostro prossimo incontro, se lei è d’accordo con me. Per ora abbiamo finto, ci vediamo il…

Un bambino che stava scavando una buca nella sabbia per trovare l’acqua, e che non poteva allontanarsi dall’ombrellone perché il troppo sole gli faceva male, senza amici con i quali giocare, osservava una bambina, non troppo lontana da lui. Non aveva il coraggio di parlarle. La osservava e gli interessava, molto.

- Buongiorno, si accomodi. Come sta?
- Bene grazie, e lei?
- Pure io, grazie. Mi racconti se ha fatto sogni diversi, in queste settimane. Vorrei iniziare con quelli.
- Nulla di nuovo, sempre i soliti, a parte uno particolarmente strano, che però mi ricordo solo in parte.
- Mi dica…
- Stavo mettendo in ordine le vecchie fotografie, nel sogno, e rivedevo come in un filmato in bianco e nero un vecchio appartamento dove credo di essere stato in vacanza, al mare. Non corrispondeva a quello reale però, ma a me sembrava fosse quello. Era la prima volta che andavo al mare. Non c’ero mai stato prima. E poi improvvisamente ero grande, non ero più piccolo. Le cose si sono confuse. Vedevo le donne, con i loro costumi, piccoli, che non nascondevano nulla. Ed io mi vergognavo. Ma le guardavo. E poi ero di nuovo piccolo, e allora guardavo le bambine, ma anche le donne grandi. E volevo che mia madre non se ne accorgesse. Mi ero fatto comprare un paio di occhiali da sole, e così potevo spiare senza che si notasse. Poi mia madre se ne accorgeva, e si tornava a casa. Poi succedeva anche altro, ma non lo ricordo.
- Va bene. Questo è interessante. Vedo che la sua fantasia è entrata anche nel sogno. Se ne è reso conto? Ha sognato anche la sua ex moglie per caso?
- No, non mi pare. A lei penso di giorno, lo faccio spesso, ma non ricordo di averla sognata.
- Mi racconti allora della sua fantasia, fuori dal sogno però, se ci ha pensato, e se mi vuole dire qualche cosa…

Una certa  forma di esibizionismo è in taluni connaturata, naturale, accettata. Oltre un certo limite tuttavia si arriva al comportamento patologico, alla devianza, sino alla parafilia. Il giudizio sociale condanna questo tipo di comportamento, che quindi deve essere evitato.

Dopo vari mesi di terapia la dottoressa, con una motivazione che a lui suona in qualche modo falsa, deve interrompere gli incontri. Spiega che deve frequentare un corso di aggiornamento di vari mesi, in Austria, e che sospende tutti i trattamenti in corso. Se vuole gli consiglierà alcuni colleghi che lo potranno seguire, in attesa che lei torni. Tuttavia è possibile che dopo lei si dedichi esclusivamente all’attività di consulente per il tribunale, smettendo del tutto di svolgere attività nel suo studio.

Trascorre più di un anno. Lui sta tentando di riprendere la vita precedente il matrimonio. Non avendo avuto figli non ci sono state complicazioni dovute a questo motivo. Ricomincia a vedere alcuni vecchi amici, recupera antiche amiche, fa nuove conoscenze, ma è sempre molto restio a iniziare un rapporto serio. Non è pronto e non ne prova molto desiderio. Non ha intenzione di fingere, oltretutto. Gli incontri occasionali, che non rifiuta, non gli offrono mai quello che non vuole più confessare a nessuna.
Poi, una sera, per caso, la incontra. Lei è vestita in modo abbastanza vistoso e sulle prima non la riconosce neppure. Gli sembra molto diversa dalla dottoressa che conosceva, e che gli ispirava al massimo amicizia. Questa donna ora gli fa pensare a ben altro, e di lui sa quasi tutto.
È lei la prima a sorridere vedendolo.


Tutti i fatti qui raccontati sono reali esattamente come lo sarebbero le descrizioni che potrei fare di una mia spedizione al Polo, o, preferisco, su una calda isola tropicale (dove non sono mai stato). Se hai dubbi in proposito nessuno è in grado di fugarli. Aggiungo solo che non so nulla di psichiatria e che mi piace immaginare storie. La citazione iniziale è frutto solo della mia fantasia. L’immagine usata è mia.


                                                                                                                               Silvano C.©

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domenica 29 marzo 2015

ma tu come sai ascoltare?


Quando si comunica si è almeno in due, uno manda il messaggio e l’altro lo riceve. In una comunicazione bidirezionale, come può essere un dialogo, un rapporto epistolare, una chat o qualunque altra modalità che preveda l’alternanza dei ruoli tra chi parla e chi ascolta si tende a confrontarsi sullo stesso piano. Questo almeno formalmente, permettendo ad entrambi sia di essere attivi sia di essere passivi.
Ovviamente non esiste necessariamente una posizione completamente passiva, cioè acritica, spugnosa, anzi, è sconsigliabile averla, perché chi ascolta, o riceve, dovrebbe rielaborare criticamente il messaggio ricevuto, ed analizzarlo, almeno per due motivi: prima di tutto per rendersi conto di averlo capito e subito dopo, ma ancora più importante, per condividerlo o rifiutarlo.

Quando dal rapporto diretto tra due o tra pochi interlocutori si passa alla comunicazione utilizzata da chi ne fa una professione, per motivi spesso politici (poiché non si ripeterà mai a sufficienza che ogni nostra azione è sempre ed anche politica nel senso più ampio del termine), le cose diventano più interessanti.

Secondo la teoria elaborata da Petty e Cacioppo esiste una modalità di ricezione del messaggio definita periferica ed una chiamata centrale.
Nel primo caso chi riceve il messaggio tende ad impegnare in questa operazione il minimo di risorse cognitive possibili (e probabilmente non ne possiede neppure tante, a ben riflettere), quindi si limita ad ascoltare ed a compiacersi di ritrovare ragionamenti comprensivi e facilmente spendibili e riproducibili.
Nel secondo caso invece il messaggio prima di essere accettato viene rielaborato e viene sottoposto ad un controllo più o meno approfondito utilizzando le proprie conoscenze e la propria preparazione.

Diventa quindi evidente, a questo punto, che la tendenza di chi vuol ottenere consenso sarà quella di calibrare la propria modalità di comunicazione in modo da raggiungere, nella migliore delle ipotesi, entrambe le tipologie di riceventi, perché nessuna delle due si può ignorare, in un’ottica corretta.

Se chi parla pubblicamente tende ad usare soltanto stereotipi, allusioni che toccano nervi scoperti, metafore offensive e limitate, cioè, per dirla in altri termini, parla più che altro alla pancia e solo un po’ al cuore, probabilmente vuole usare semplicemente la modalità periferica, e tenta, spesso, di nascondere per i propri fini la vera motivazione del suo argomentare, che è quella di ingannare, di mantenere nell’ignoranza.

L’atteggiamento opposto è più complesso. Occorre sempre saper usare un linguaggio comprensibile, non scordare metafore e frasi fatte, cioè elementi facilmente individuabili e che aiutino il coinvolgimento, e serve anche arrivare non solo alla pancia ed al cuore, ma anche al cervello.
Chi ascolta in modo critico deve trovare conferme logiche nell’argomentare del comunicatore, perché altrimenti perderebbe completamente interesse nei suoi confronti, e sicuramente non si farebbe convincere né lo seguirebbe.

Ti lascio concludere, a questo punto, con le tue considerazioni personali riguardo alle trasmissioni televisive, alle personalità politiche ed al mondo della comunicazione via web. 
Secondo me il discorso così si fa divertente (o preoccupante).


                                                                                                                               Silvano C.©

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sabato 28 marzo 2015

L’assenza


Una casa è per i momenti felici, mai per il dolore. Se vi si vive anche nel dolore, situazione sicuramente abbastanza frequente, è ricordando i momenti felici ed i sogni che tra quelle mura sono stati.
Quando rimangono motivi, legami forti, speranze di realizzazioni future, magari anche non per noi stessi ma per chi ci seguirà, allora una casa merita di essere mantenuta, che sia una villa, per i fortunati, o che sia un semplice appartamento popolare.
Se invece le cose sono mutate, le persone se ne sono andate, il guscio protettivo si è trasformato in un guscio vuoto, perché mantenere intatto un filo ad unirci con quel luogo?
Porterà dolore reciderlo, è così, è innegabile, ma dolore ne porterebbe in ogni caso, anche a volerlo mantenere intatto.

Quando si investe in una casa, quando lo si fa non per una speculazione edilizia intendo, si investe in affetti, si mette una radice, si progetta una vita. Poi le cose naturalmente mutano, le persone se ne vanno, rimane il vuoto, l’assenza.
Pure uno spazio non proprio e semplicemente in affitto non di rado arriva ad assumere importanza simile, ma in quel caso, alla fine di tutto, si lascia con un carico emotivo minore, e sembra forse più lieve il distacco, si avverte che ogni cosa  ritorna naturalmente in circolo perché è giusto che sia così. Sono sempre le persone che mancano, alla fine, mai le cose.
Se a mancare sono queste è solo per la loro unione indissolubile con chi le ha vissute, usate, costruite o consumate.

E poi capita che sia una bella giornata di sole, che il vento si plachi, che la pioggia si allontani, e che la vita riprenda la sua rivincita.
In quel caso passano per un attimo nella memoria i pensieri tristi, ma non riescono ad aggrapparsi, anche se alcuni ci provano pure con le unghie, lasciando graffi. Ma poi scivolano via.  


                                                                                                                               Silvano C.©

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venerdì 27 marzo 2015

Il vero bugiardo



“Il vero bugiardo è colui che dice ciò che non è, sapendo perfettamente che le cose stanno in modo diverso da come le racconta” scrive Nichela Marzano nel suo ultimo “Non seguire il mondo come va”, citando Hannah Arendt.

Leggendo quelle pagine, che centellino, perché dopo poche righe mi partono ricordi ed immagini, idee e altre riflessioni che si accavallano, a volte in modo confuso, altre invece in maniera cosciente e netta, mi riesce impossibile non riflettere sul concetto di verità, e su come sia iniziato per me il lento ma inarrestabile processo di rifiuto di un certo tipo di televisione, che progredisce, giorno dopo giorno, come metastasi positiva che uccide le cellule malate invece di eliminare quelle sane.
Ho avuto un periodo di netto rifiuto dell’apparecchio televisivo, perché mi distraeva e perché avevo altro da fare, per mia fortuna.

In una fase intermedia mi sono procurato un vecchio portatile, allora in bianco e nero, ed ho iniziato a seguire Drive in, che in quel periodo mi piaceva, e non solo a me. Ad un certo momento ho iniziato ad avvertire qualche cosa di stonato, e me  ne sono allontanato. 
Non è stata una cosa razionale, tuttavia, non ancora, ma soltanto di pelle, come capita quando si rifiuta un alimento che semplicemente non piace.
Solo in anni successivi ho intuito la truffa del modello che nel frattempo aveva invaso quasi ogni palinsesto e modificato per sempre, in Italia, il modo di intendere la televisione e l’intrattenimento. 
Quando finalmente ci fu la famosa discesa in campo ogni cosa fu chiara, evidente, a chi avesse voluto capire. Io ancora la intuivo ma non del tutto coscientemente, pur rifiutando nettamente quel modo di fare politica.

Sono passati anni, da quel periodo, ed oggi evito accuratamente ogni trasmissione Mediaset, a prescindere, e non ne oscuro i canali solo perché non rifiuto completamente un’opportunità che potrebbe pure venirmi comoda, in qualche occasione. 
Anche la Rai e La7, per restare alle televisioni generaliste non a pagamento, non sono molto meglio, ma almeno ho l’impressione che offrano ancora spazi di approfondimento, e, cercando, si trovano momenti o trasmissioni non spazzatura.

Per tornare al concetto di verità, ho capito da anni che non esiste, che giustamente ognuno ha la propria, e che la Verità, quella con la V maiuscola, rimane confinata ad aspetti delle relazioni umane che non mi competono. Intendendo la fede come libertà personale, anche la Verità di qualcuno per me rientra tra la tante possibili verità, cioè una visione di parte.
In questa confusione logica e teorica, l’inserire la modalità del raccontare il falso in modo cosciente diventa distruttiva, destabilizzante, ed annulla i punti di riferimento. 

Ripetendo all’infinito che quella tal barretta di cioccolata non ingrassa, si finisce per cominciare a dubitare che possa essere vero, e poi a crederci.
Allo stesso modo negare le affermazioni o i discorsi altrui con ragionamenti che partono da premesse non dimostrate o errate ma poi condotti come se nulla fosse e con la faccia più innocente del mondo rende impossibile districarsi nelle scelte che pur dobbiamo fare.
Rimane soltanto il dubbio, come arma, ma non da spargere su tutto e per sempre, ma esclusivamente come premessa per approfondire, come stimolo per scoprire bufale nascoste, interessi mascherati da buone intenzioni, malafede resa evidente da discordanza tra discorsi e fatti, tra dichiarazioni di principio e stile di vita.

Per il resto ti invito a leggere il libro della Marzano, una filosofa prestata alla politica. Pure tu così partirai con le tue riflessioni, ne sono certo.

                                                                                                                               Silvano C.©

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giovedì 26 marzo 2015

Ignazio il calzolaio



Mi sembra di conoscerlo da sempre, Ignazio, figlio di Gaspare, che lavora nella sua piccola bottega all’angolo tra via del Tralcio e vicolo Leonida. Abita un po’ distante, e tutte le mattine, prima di arrivare ad aprire la serranda, si permette sempre due passi per guardarsi attorno, scambiare due parole con le persone che conosce ed osservare ogni cosa con curiosità ed interesse. Poi rimarrà chiuso per ore tra colle e mastici, chiodini e presse, martelli di ogni forma ed incudini sagomate. Il posto è abbastanza in penombra e, se si esclude una vecchia lampada che illumina il suo posto di lavoro, il resto dello spazio rimane seminascosto alla vista.
Entrando in quel piccolissimo laboratorio in una giornata di sole per un po’ occorre fare attenzione, aspettando che gli occhi si adattino alla scarsa luce per evitare di pestare le tante scarpe, le scatole di attrezzi e le due piccole panche sistemate ad occupare quasi tutto il pavimento.
Poi sono gli odori di cuoio, di gomma e di mastice mescolati che colpiscono, e rimangono addosso anche quando si torna in strada, affacciandosi sul vicolo.

È un mondo isolato dal resto, apparentemente, che segue regole sue, senza tempo, volutamente legato al dolce della cotognata e all’acido del vinello, quello ottenuto con una seconda torchiatura e da bere solo in casa, perché non si conserva molto a lungo.
Per alcuni anni Gaspare aveva pensato di chiudere la sua piccola bottega. Aveva sempre meno clienti, e tutti si compravano scarpe nuove senza neppure pensare a riparare quelle usate e con la suola che iniziava a staccarsi dalla tomaia o con buchi proprio al centro.
Molti suoi colleghi calzolai e ciabattini, arrivati avanti con gli anni, avevano abbandonato l’antica arte ed erano andati in pensione senza trovare nessuno che prendesse il loro posto. I più giovani, invece, non si erano adattati a vivere di nulla o quasi, con sempre più spese da sostenere, famiglie da mantenere e clienti spariti. Molti avevano abbandonato tutto, cercando con scarsa fortuna altre attività.  Pochi avevano invece accettato di entrare a far parte di qualche nuova catena, ed avevano cambiato insegna diventando, da un giorno all’altro, TACCO EXPRESS o LA VELOCE, ma ora lavoravano come dipendenti, e le loro botteghe erano diventate senz’anima, senza una storia.   

Poi è arrivata la crisi, quella seria, con tanti che hanno iniziato a perdere il lavoro, in ogni settore, e qualcuno, timidamente, ha ricominciato ad entrare da Ignazio, per farsi sistemare una paio di scarpe che meno di un anno prima aveva pagato non poco, in un negozio alla moda del centro o nell’ipermercato sorto in periferia.
Lui, che alcune volte arrivava in negozio semplicemente per trovare ad aspettarlo Guido e, più tardi, lo Zantino, e poi con loro discutere animatamente di governo e di ladri, di furbi e di onesti, oltre che di morti e di malattie, ora ha ricominciato a lavorare.
Praticamente è rimasto il solo in tutta la città, Ignazio, a possedere quelle forme in legno e quegli aghi diritti e ricurvi adatti a cucire il cuoio come si faceva una volta, i piedi di ferro e i morsetti, e quel suo banchetto basso.
Anche l’assessore al turismo, in vena di trovare nuovi punti della città da rivalutare, occasioni pure per giustificare il suo ruolo, su consiglio di un’amica è venuto a trovarlo. Da un mese la sua è diventata bottega storica, e in un depliant che il Comune sta preparando l’angolo tra via del Tralcio e vicolo Leonida, sulla piantina, riporta un piccolo numerino rosso. Nella legenda quel numerino spiega: Bottega tradizionale di calzolaio da tre generazioni.

Ora Ignazio il calzolaio, la mattina, si alza presto come ha sempre fatto, e, prima di arrivare ad aprire la serranda, si permette sempre due passi per guardarsi attorno, scambiare due parole e fare qualche battuta, se capita.
È allegro mentre passa vicino ad un prato dove vede spuntare le prime margherite della primavera, e ricorda quando, su un prato simile, tanti anni prima, ci faceva le capriole.  Così, mentre canticchia, arriva che già il Guido è lì ad aspettarlo.

                                                                                                                               Silvano C.©

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mercoledì 25 marzo 2015

Sono gay, e allora?


Informativa sulla privacy
Sono gay, lo sono e basta. 
All’inizio, da giovane, quando ho iniziato a capirlo, ho passato un periodo abbastanza lungo nel quale non mi accettavo, perché mi vergognavo. Ridevo delle battute idiote sui finocchi, mi sono anche atteggiato a bullo per un breve periodo, poi ho lasciato perdere.

Per mia fortuna, ad un certo punto, ho trovato una persona non gay che lo ha intuito, una donna per essere precisi. Lei mi ha convinto che sbagliavo a provare vergogna. 
E lo ha fatto in modo discreto, senza smascherarmi tra coloro che frequentavo, una sera mentre la stavo accompagnando a casa in auto dopo aver trascorso assieme a conoscenti comuni alcune ore piacevoli.
Ora lei, molti anni dopo, è la mia migliore amica e confidente, ed io semplicemente vivo molto meglio.

Non sono per nulla orgoglioso di essere gay, non ne ho alcun merito, ma neppure me ne faccio una colpa, sarebbe idiota. È così, semplicemente.
Non amo le manifestazioni pubbliche un po’ provocatorie a difesa dei diritti di gay e lesbiche, sono lontane dal mio carattere, ma riconosco che servono pure quelle per far capire alle teste dure che noi non facciamo male a nessuno. Anche andare in piazza è utile allo scopo, per costringere a riflettere. Come è importante spiegare, comunicare. Purtroppo alcune prese di posizione sono in parte controproducenti, hanno un rovescio della medaglia, nel senso che innescano una reazione perbenista che vorrebbe sì accettare i diversi ma a condizione che non rompano troppo, che restino defilati, che non mettano in crisi la famiglia tradizionale. Inoltre, cosa ancor più grave e pericolosa, aizzano le teste calde, le richiamano a branchi, tutte soddisfatte di avere un nemico ed uno scopo, un esempio di depravazione e di degrado dei sacri valori della società. Da che pulpito poi, viene spontaneo pensare, con molta rabbia, immancabile tristezza ed un po’ di ironia.

In fondo è successo lo stesso anche con le donne sin da quando in Inghilterra, oltre un secolo fa, cominciarono le lotte per ottenere il diritto di voto, per poi arrivare in tempi più recenti ai movimenti femministi degli anni ‘60 e ’70. Alcune donne hanno esagerato, è probabile, ma come far capire altrimenti l’urgenza di essere riconosciute nei loro diritti inviolabili dopo millenni di cultura maschile?
Ora alcuni accettano che io possa stare col mio compagno, ma non che mi azzardi a chiedere che la nostra unione venga riconosciuta ufficialmente. Questo mai. 
È un po’ quanto è avvenuto con Peppino Englaro, per fare un altro esempio. Una corrente di pensiero sostiene infatti che sarebbe stato molto meglio se lui avesse evitato di sollevare il clamore mediatico sul caso della figlia Eluana, come invece ha fatto, e semplicemente si fosse accordato con un medico compiacente, risolvendo in modo discreto e silenzioso la questione. 

Eppure, mi viene da chiedermi ancora, perché devo essere odiato per quello che sono? Io evito di infastidire chi non vuole essere importunato, permetto a tutti di vivere la vita che vorrebbero, non ho nulla contro altre modalità di rapporti e di unioni, non mi permetto di giudicare chi tradisce o divorzia, va con prostitute o si prostituisce, si sposa in chiesa o semplicemente fa quello che vuole. Non accetto la violenza o l’abuso sui minori, ma tutti i rapporti tra adulti consapevoli e consenzienti mi stanno bene. Perché allora io non ho gli stessi diritti di altri, se pure io pago le tasse, faccio il mio dovere di cittadino e rispetto le istituzioni? Perché le istituzioni non rispettano me? In cosa saremmo immorali o sbagliati io ed il mio compagno se volessimo adottare un bambino, visto che ne abbiamo i mezzi, e gli offriremmo una vita sicuramente migliore?
Io e lui abbiamo dovuto andare da un notaio per regolare alcuni aspetti pratici e burocratici del nostro rapporto, mentre una legislazione più attenta ci avrebbe evitato queste altrove inutili e comunque costose precauzioni.
Sono gay, e allora?

Per chi ne sentisse il bisogno l’immagine ritrae una tradizionale e felice famiglia formata da mamma felice, papà felice e bambini felici. Anche la torta pare sia felice.             

                                                                                                                               Silvano C.©

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#Brustlina 42 – Dignità


Ero un precario, vivevo in affitto in un appartamento ammobiliato, mi guadagnavo da vivere lontano da dove ero nato, e non navigavo certamente nell’oro.  Dovevo fare attenzione a come spendevo, insomma, e nella scala sociale sicuramente non stavo molto in alto. Tuttavia non mi lamentavo più di tanto, perchè stavo poco a poco conquistando l'indipendenza.
Un giorno, con la mia 127, percorrendo una stretta stradina tra due muretti a secco, ho incrociato un uomo su un piccolo furgone Ape. Potevamo passare entrambi? Era meglio fermarsi? Ad un certo punto, visto che secondo me non potevamo farlo, io ho frenato e mi sono bloccato. Lui invece, pian piano, ha continuato sino a strisciarmi un po’ la carrozzeria.
Siamo scesi, a questo punto. Abbiamo guardato i danni. Io pochi. Lui nessuno. Ho chiesto cosa intendeva fare. Ha iniziato letteralmente a piangere, lamentandosi della sua sfortuna, a spiegare di quanto era sfortunato, di quanti problemi aveva, che questa cosa in più proprio non ci voleva, che era rovinato, e via continuando. Mentre io tentavo di fargli capire che era stato lui ad investirmi, quando io ero già fermo, questi sembrava un penitente a digiuno da mesi, autoflagellante e preso a calci dalla vita, e non smetteva di riempirmi del suo dolore, della sua impossibilità a dichiarare l’incidente o di pagarmi almeno parte del danno.
Per farla breve mi ha fatto pietà, non lo reggevo più, l’ho salutato e ognuno per la propria strada.

Giorni dopo ho scoperto che il povero disgraziato, perseguitato dalla sfortuna, viveva in una grande e bella casa di proprietà a poca distanza, che si vestiva quasi da barbone ma che di soldi ne aveva molti più di me, che magari possedevo in quel momento solo vestiti leggermente migliori ed un’auto con molti chilometri al suo attivo. 
Io non sono mai riuscito a far soldi, o ad evitare di spenderli, alla sua maniera. Così è la vita.

                                                                                             Silvano C.©

( La riproduzione è riservata ma non c'è nessun problema se si cita la fonte, grazie)

martedì 24 marzo 2015

Non abbiamo bisogno di alcuna istruzione


We don't need no education.
We don't need no thought control.
No dark sarcasm in the classroom.
Teachers, leave the kids alone.
Hey, Teachers, leave the kids alone!
All in all it's just a, another brick in the wall.
All in all you're just a, another brick in the wall.
We don't need no education.
We don't need no thought control.
No dark sarcasm in the classroom.
Teachers, leave those kids alone.
Hey, Teachers, leave those kids alone!
All in all it's just a, another brick in the wall.
All in all it's just a. another brick in the wall.
All in all you're just another brick in the wall.

(Another Brick in the Wall  - Pink Floyd)

Non abbiamo bisogno di alcuna istruzione, forse…

A me piace pensare che insegnare non sia una missione, come qualcuno vuol far credere, ma un mestiere, una professione come tante altre, importante, certo, ma pure tante altre lo sono, e alcune sicuramente di più.
Se la pensi diversamente lascia perdere la lettura, perché tutto quello che scriverò da ora in poi discende da questa premessa.
Ovviamente prima ti spiego perché non si può definire missione l’insegnare, e poi proseguirò.
Io diffido dei missionari, per principio. Non ci credo proprio, per essere chiaro. Nella mia ottica non ne abbiamo bisogno alcuno. Abbiamo sicuramente bisogno di persone serie, di gente impegnata, anche di volontariato, ma prima, sicuramente, di donne e uomini che svolgano sino in fondo il loro dovere. Ho visto troppi pensionati baby definirsi volontari per non pensare molto male di chi smette di lavorare e poi, pagato da noi, fa volontariato. Ma preferisco evitare questa punta polemica, che rischia di depistare dal tema principale.
Il missionario è legato alla trasmissione di una fede religiosa (basta leggere un qualsiasi dizionario, in proposito) ed è esattamente questo che un buon insegnante deve evitare, trasmettendo invece una visione laica e tollerante della vita, non di parte. In tal senso pure chi fa volontariato e insegna catechismo non si può definire a pieno titolo volontario, ma più onestamente un operatore religioso, perché vincola la propria azione ad una visione di parte, non laica. Il vero volontario è laico, non chiude le porte a nessuno. Chi fa scelte diverse opera per mantenere un vantaggio alla propria cultura ed alla propria fede, di conseguenza ne riceve un compenso, seppure indiretto.
Poiché un insegnante deve essere laico, come spiegato, se si spaccia come missionario comincia a diventare pericoloso, perché trasmette valori non di completa tolleranza ed apertura interreligiosa e multiculturale.
In quest’ottica, per diretta conseguenza, nessuna scuola confessionale per me è una vera scuola, ma solo emanazione di una certa cultura, di una parte della cultura.
La sola Scuola degna di questo nome è la Scuola Pubblica Statale. Le scuole paritarie, a gestione privata ed a controllo religioso nella maggioranza dei casi, sono altro. Chi ha studiato in queste scuole dovrebbe essere escluso dalle cariche pubbliche statali, dai ministeri agli assessorati, perché si è macchiato di un peccato originale imperdonabile. Se ha scelto un’istruzione parificata invece di quella statale, per motivi assolutamente leciti dal suo punto di vista, con quale diritto, dopo, pretende di imporre la propria visione sulla scuola statale? Non cito i casi specifici, ma immagino tu ti renda conto che ci vuole molto poco per trovarne a centinaia.

Un buon insegnante dovrebbe avere un orario chiaro, definito, e svolgere tutto il proprio lavoro entro questo orario, esattamente tutto il proprio lavoro intendo, e poi essere libero, come qualsiasi altro lavoratore, oppure dovrebbe ricevere un compenso per le ore di straordinario. Eppure questo non si è mai voluto fare, e nelle funzioni obbligatorie del docente è prevista ad esempio la correzione dei compiti che è semplicemente definita come dovuta, senza un impegno orario chiaro. Il buon insegnante dovrebbe entrare a scuola al mattino, svolgervi tutte le attività previste (incontri e riunioni come previsti dalle norme, aggiornamento professionale, compilazione di verbali e registri, preparazione delle lezioni, incontro con genitori ed alunni oltre le lezioni, preparazione delle verifiche per tutti e personalizzate, lezioni integrative, programmazione con i colleghi per attività interdisciplinari,  preparazione di uscite ed attività extra-scolastiche e così via) e dopo le sei, setto o otto ore previste, andare a casa e non aver più nulla da fare. Si ovvierebbe in tal modo alla facile e superficiale obiezione che chi non fa l’insegnante spesso rispolvera: l’insegnante lavora solo quattro ore al giorno. Come se l’insegnate lavorasse solo quando è in classe.

A chi accusa gli insegnanti di avere la vita facile, al confronto di altre professioni, e di essere in una situazione di privilegio, io dico: Bene, allora fallo tu l’insegnante. Chi te lo vieta?
Io ricordo che la preparazione dell’insegnante è sempre più lunga e costellata di ostacoli, di tappe obbligatorie. Tutti possono intraprenderla. Basta volerlo. Partendo dall’Esame di Stato alla fine delle scuole secondarie superiori si passa obbligatoriamente alla Laurea, e subito dopo ad un corso formativo post laurea per ottenere l’Abilitazione all’insegnamento. Spesso tali corsi prevedono Tirocini Formativi obbligatori. Poi ci possono essere Percorsi Abilitanti Speciali, riservati a chi ha già un’esperienza come insegnante di alcuni anni. Si viene così inseriti in graduatorie di terza, seconda e prima fascia. Col cambio dei governi, nel corso degli anni, si sono create troppe tipologie di aspiranti insegnanti, alcune di queste sottoposte a selezioni anche molto serie, ed ora si parla di Concorsi, che ovviamente riporterebbero al punto di partenza chi studia ed insegna da anni come precario. 
Ultimamente entrano di ruolo insegnanti che lavorano ormai da dieci o quindici anni, se non di più. Una vita da precari, prima di arrivare ad essere insegnanti a tutti gli effetti. Quindi, ribadisco. Se sostieni che gli insegnanti sono privilegiati, accomodati.

Si parla in questi giorni anche delle vacanze. Sono troppe nella scuola. Così pare. Va bene, accetto questa critica. Salvando tuttavia gli studenti, che vorrei evitare di inserire nella questione. (perché il numero dei giorni di lezione è già previsto per legge, e ci sono in molti casi pure corsi estivi, talvolta anche all’estero, con insegnanti che accompagnano e si assumono tutte le responsabilità del caso) 
Io sfido chiunque a fare riunioni efficienti nei mesi di luglio ed agosto, in certe regioni, in locali che spesso sono veri forni e non uffici dotati di aria condizionata. Ma nulla vieta di allungare l’attività degli insegnanti, trovando un loro utilizzo serio che non sia solo di facciata e formale. Attendo di vedere come evolverà la questione.

Per il resto ritengo che insegnare rimanga una cosa bellissima, anche se difficile, e che sia possibile instaurare anche un buon rapporto con i ragazzi (ma non sempre, occorre specificarlo, perché alunni ed insegnanti sono esseri umani, con pregi e difetti). È un lavoro che permette creatività, sperimentazione, entusiasmo. Al posto di missione metterei entusiasmo. Il piacere di fare, non il dovere. Un buon lavoro, svolto perché piace, perché offre stimoli, perché i ragazzi non saranno mai numeri, e che si deve poter lasciare quando finisce la spinta positiva, quando si avverte la stanchezza. Dopo si possono solo far danni.

Alcuni insegnanti non sanno insegnare, non ne hanno voglia, sono stanchi e demotivati. Occorre trovare una soluzione per questi. Una diversa occupazione, che tuttavia permetta loro di passare le esperienze accumulate. Le mele marce andrebbero eliminate, anche con provvedimenti disciplinari, ma io eviterei l’accumulo di funzioni assegnato ai Dirigenti, come se fossero imprenditori che devono curare l’efficienza di una fabbrica.
Troppo potere al Capo di Istituto espone al rischio molto forte di una deriva clientelare o poco trasparente, mentre un controllo assegnato alla Provincia, alla Regione o allo Stato, come è avvenuto sino ad ora, ha mitigato il fenomeno.

Che altro dire? Non lo so. Mi riservo di rispondere a chi avrà la cortesia di commentare queste mie righe, in modo da integrare i temi esposti secondo la sensibilità e gli interessi di ognuno.



                                                                       Silvano C.©

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lunedì 23 marzo 2015

Il piano



È una superficie, idealmente senza curvature, estesa all’infinito nelle due sole direzioni dello spazio che le competono. Si può immaginare di vivere esclusivamente su un piano, che diviene così tutto l’universo possibile e conoscibile, come ha fatto in un suo libro famoso Edwin Abbot Abbot, e si può, come in Flatlandia, (la “Terrapiatta”), essere una figura geometrica classica, tanto più nobile ed elevata socialmente quanto più numerosi sono i suoi lati. Una superficie simile non esiste, in natura, è solo un’astrazione logica. Tale immagine tuttavia si è rivelata utile per edificarvi una solida costruzione di pensiero che poi è diventata realizzazione pratica, con muri, fortezze, palazzi, templi e piramidi. Si sa che non esiste, ma fingendo, o credendo, che esista l’umanità ha fatto progressi straordinari. Abbastanza singolare no?

Sedendosi ad un tavolino di un piano bar, dopo aver bevuto un brandy italiano, ascoltando il pianista suonare una ballata triste, è facile lasciarsi andare a pensieri inclinati, e seguire fantasie slegate dai fatti. Una coppia di amici, o anche di amanti, sentendosi complice grazie alla chimica emotiva e alcolica, probabilmente ascolterà irrazionalmente  le note musicali, le assocerà in modo permanente alle parole ed alle sensazioni di quel momento e le metterà in un luogo protetto della memoria, pronte a ritornare fuori mesi, anni o decenni dopo, al semplice richiamo di uno stimolo chiave. E quello che riemergerà dal passato scorrerà, lieve o grave, a restituire un tassello di verità. Mi auguro sia una verità condivisa, quando avverrà, altrimenti sarà solo dolore.
 
Serve sempre un piano, una via studiata e discussa, quando è possibile, prima di una decisione importante. A volte è il progetto stesso che presuppone la decisione, che la vuole per realizzarsi. Eppure tanti piani finiscono in nulla, e si riducono a ben meno di due dimensioni, non ne conservano nessuna. In certi casi viene da pensare che converrebbe andarci piano con la programmazione, anche se si ritiene in certi ambienti assolutamente necessaria. L’imponderabile, per definizione, arriva esclusivamente per rompere i piani, e far crollare progetti, e talvolta ponti.
Che tristezza quando si arriva a queste situazioni, che dovrebbero essere preventivate, ma che si finge di ignorare per non essere accusati di fatalismo o di scarsa efficienza.

E poi ci sono i piani alti, i piani nobili, i pianterreni, e una scala, non musicale, li unisce e li confonde. Quando si è seduti e non si osserva fuori dalla finestra non si ha la percezione dell’altezza. Questo forse ci salva. Ci fa immaginare di poter essere altrove, come io faccio ora. Allora il piano non rimane a suonare da solo, ma si unisce ad una batteria, ad un contrabbasso, ad una tromba, non quella delle scale ovviamente, anche se scivola verso il basso.

Il piano è unire, non dividere. Il motivo è resistere e suonare, o almeno canticchiare, e se si è stonati ascoltarla, la musica. Che altro?

 L'immagine usata ritrae il ponte di Mostar
                                                                                             Silvano C.©

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Non voglio uguaglianza


Non voglio l’uguaglianza, e sarei un illuso se pensassi che un giorno tutti gli uomini avranno le stesse identiche opportunità pur nascendo da genitori diversi per posizione sociale ed economica.
Non la voglio, certo, ma desidero continuare a pensare che sia un sogno da non uccidere, da non umiliare e deridere.

Nei primi anni secondo dopoguerra l’Italia era diversa da quella di oggi. Il boom economico, a costo di enormi sacrifici (ed anche di errori di programmazione che stiamo pagando ancora oggi) permetteva a tutti di vedere realizzabile un miglioramento tangibile in pochi anni, a breve e a medio termine.
La cosa che mi è sempre rimasta dentro di quel periodo era la grande disponibilità dei ricchi di sentirsi ancora vicini e solidali con i meno fortunati, senza per questo rinunciare ai loro vantaggi ed alla loro condizione.
Per ricchi intendo il ceto medio-alto, cioè coloro che potevano permettersi l’auto, la bella casa con servizi all’interno, un parco o un grande giardino. Questi accoglievano ed aiutavano anche i meno fortunati. Ad esempio facevano prestiti sull’onore, senza avere garanzie se non l’onestà delle persone beneficiate. Oppure non nascondevano la loro condizione, che non era mai esageratamente lontana da quella degli altri, gli operai ed i proletari (si chiamavano così, ricordate?).
Nella vita sociale era normale accettare sia chi aveva di più sia chi di meno, anche perché chi possedeva di più non aveva solitamente motivo di vergognarsene, essendo chiara l’origine del suo benessere, e sicuramente non ne faceva uno sfoggio insensibile e cafone.
In altre parole chi faticava per comprarsi un paio di scarpe nuove non odiava chi ne possedeva qualche paio in più, ma semplicemente aspirava ad arrivare ad una condizione migliore, e ne vedeva le possibilità. C’erano diversità politiche, è chiaro, e anche lotte dure e manifestazioni, eppure anche il rispetto, entro certi limiti.
La differenza essenziale comunque era la distanza non così marcata come quella oggi, sempre più evidente, tra gli uni e gli altri.

Adesso, o meglio, circa 30 anni fa, le cose hanno iniziato a mutare, ad incattivirsi. La difesa dei propri privilegi è diventata una ragione di vita, prima ancora dell'espressione delle proprie idee o dei propri ideali di condivisione e redistribuzione. Se notissimi personaggi di sinistra (politici di professione e sindacalisti) ancora oggi impegnati attivamente in molti casi, non disdegnano la seconda o la terza pensione, non intendono restituire benefici e trattamenti di favore ad altri negati, ricevono molto più di quanto hanno mai dato alla società, qualche cosa non funziona più.
E chi ha raggiunto il benessere senza entrare nella vita pubblica ora è meno disponibile a spartirlo, seppure in parte, con chi ha bisogno ancora dell’essenziale. La differenza tra strati sociali si è allargata in modo ormai inaccettabile, e qualcuno accusa il sindacato (che ha oggettivamente le sue colpe) solo per depistare dalla volontà sempre meno nascosta di costruire una cittadella per chi ha mezzi e potere, lasciando fuori dalle mura tutti gli altri, anche il ceto medio destinato, se le cose non mutano corso, a sparire.

Io ci vedo grande miopia, in tutto questo, e stupidità intellettuale. Alla lunga non basta dare culo e calcio agli sfigati per farli sentire appagati, occorre fornire anche pane, lavoro e casa. E poi non bisogna chiamarli sfigati e poco furbi, come se solo chi non paga le tasse e frega lo Stato (cioè tutti noi) meritasse rispetto. E non è neppure il caso di farli incazzare raccontando solo, da nuovi e demagogici guru, di quanto sono puri ed onesti alcuni e sporchi e venduti gli altri.
Magari fosse vero che qualcuno ci può salvare. Il guaio è che possiamo farlo solo individualmente, partendo da noi stessi, non credendo alle parole ma ricercando la via dopo aver tentato di capire, informandoci, senza esprimere solo critiche, ed evitando, ad esempio, chi in questo ambiente chiamato web, fa la pecora al seguito o l’agitatore di professione, il diffusore di malcontento solo per canalizzare consenso o il passaparola di bufale interessate.


                                                                                             Silvano C.©

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domenica 22 marzo 2015

La magnolia


Ripercorro i soliti luoghi, quelli che conosco da tanti anni, che ho visto in altre stagioni.
L’occasione è una festa, ma è solo una scusa, lo so bene.
Volevo vedere quanto è mutato, quanto sono cambiato, cosa rende quei posti ancora miei, e ciò che è sparito.
Vedere ciò che è sparito è uno strano esercizio, che richiama varie figure retoriche, credo. E’ possibile sicuramente farlo ad ogni età, ma col passare degli anni assume un significato sempre più preciso.

Ecco allora che si nota la città che muta, lentamente, rispetto al nostro ricordo. Quella nuova vetrina, quella saracinesca abbassata, quell’angolo dove stava un albero, quel cancello che non c’era. E questa è la superficie, l’evidenza.

Poi, improvvisi, i volti di persone, gli episodi, le vicende umane. I muri parlano, ecco il motivo di questa espressione. Un angolo ricorda una vicenda triste di abbandono, di separazione. Una coppia distrutta da una tragedia familiare che ora continua a vivere, ma uno separato dall’altra. E l’associazione con un’altra vicenda,  di un lutto ingiusto e della vita che continua, per chi resta.
Questa faccenda di luoghi che aprono porte direttamente sul passato ancora non mi è chiaro se è un fatto di spazio o di tempo. Di entrambi, direi. Ma mentre lo spazio lo percorro ancora in tutte le direzioni ed in ogni verso, il tempo no. Col tempo il verso è unico, ed è solo la memoria che lo trasforma in una dimensione in più.

Quando ero venuto alla stessa festa, perché amo certe tradizioni, poi, rientrando a casa non vi avevo più trovati. Mi era caduto addosso il senso di vuoto mescolato a quello di colpa, e, da impulsivo, sono partito quasi istantaneamente, facendo un viaggio non brevissimo per potervi rivedere. Ora non posso più farlo. Se partissi in questo momento al mio arrivo non troverei nessuno.

In realtà oggi vivo esclusivamente l’oggi, il resto è fantasia, a volte allegra, altre volte dolorosa. È bello poter raccontare però, e in questo modo recuperare le stesse emozioni, e anche se prevedo problemi o difficoltà, poter programmare ancora, perché ancora trovo la forza, e vedo prove, se non proprio battaglie.

Accettando che si aprano finestre nel tempo tutto si complica, e molto si spiega. Le radici appaiono evidenti, e anche i nuovi tralci, le gemme che stanno aprendosi con nuove foglie, in alcuni casi anche con i fiori, prima delle foglie, perché per ogni ordine naturale la natura prevede eccezioni. La magnolia, che questo lo ha capito molto bene, fa esplodere i suoi fiori e ignora i miei pensieri. Lei segue il flusso, io vorrei fermarlo. Ma ha ragione lei.

                                                                                             Silvano C.©

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sabato 21 marzo 2015

RACCONTI LUNGHI: Tacco 12 da Aldebaran


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“Quindi dobbiamo intervenire?”
L' assistente lo guardava con aria molto preoccupata, lo schermo animato dalle forme dell'ultimo artista di grido, che a dire il vero era piuttosto bravo, rimandava forme e colori di grande bellezza e per il suo popolo la bellezza era un valore primario.

Non si ricordava il nome però, ma in questo momento aveva ben altro per la testa, la situazione era piuttosto grave, un' intervento diretto in questa fase era davvero un fatto eccezionale.

“Non ci sono alternative, questi da soli non capiscono, non possiamo fare altro, è arrivato l'ok definitivo dal consiglio”?

“Eccolo Signore, lo proietto sullo schermo?”

“Non serve”.

“Sono preoccupato Signore è una cosa mai accaduta”

“Per questo hanno mandato me, Cassio, quello delle missioni impossibili...”

“In effetti le sue soluzioni sono sempre piuttosto ardite..”

“Di pure ai limiti della legalità o direttamente folli, ma funzionano,  per questo mi danno solo i casi peggiori e mi perdonano i miei metodi creativi..”

“In effetti lei ha diversi nemici nel consiglio..”
“Lo so e se sbaglio questa, dovrò tornare ai miei studi di antropologia, non che la cosa mi dispiaccia, a dire il vero...”

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Se tu sei la morte, io sarò la vita



Non ti posso perdonare di avermi uccisa, non tanto per me, perché si deve pur morire, quanto per mia figlia, ancora una bambina, e per mio padre e mia madre, che mai avrebbero immaginato di dover vedere senza vita la loro unica figlia.

Tu sei la morte ottusa e violenta, quella sbagliata, quella ottenebrata dal suo mondo, solo dal suo mondo, quella che ignora i mondi altrui, perché sono tanti. Ti avevo amato, in un tempo ormai finito, poi ho smesso di farlo, non potevo continuare. All’inizio non ci volevo credere, lo confesso, non avrei mai immaginato che potessi essere distruzione e odio, violenza ed egoismo.

Tu rappresenti la volontà di sottomettere, la paura di perdere il potere, la difesa di superstizioni spacciate per fede religiosa, l’orgoglio deviato e la negazione degli altri. Non sai accettare e quindi godere quel poco che la vita può regalare, malgrado le fatiche o le rinunce che tutti devono prevedere. Non meriti la vita, quella che ti resta, tu che mi hai dato la morte.

Potrei mutarmi in angelo vendicatore, sappilo, ora potrei, in modi che neppure puoi immaginare con la tua mente limitata, la stessa che un tempo, sbagliando, ho vista smarrita e ragionevole, bisognosa solo di aiuto. Mi hai ingannata, e sono stata stupida, forse, a crederti, e poi a non voler vedere. Ora ti vedo come sei, anche se è ormai tardi.

Tu sei il male che cammina, e il pentirti non credo ti salverà. Non mi spetta l’ultimo giudizio, per fortuna, per tua fortuna. Saresti condannato per sempre, perché tu sei la morte sbagliata che non si deve accettare passivamente, tu non sei la morte che porta pace e riposo, che lenisce, che perdona. Ed io non ti potrei certo perdonare.

Io ora sono scomparsa per mia figlia, che spero ritrovi tra qualche anno la sua via, quella che le avrei indicata, che speravo per lei. Saprà superare questa inutile prova, e trasformarla in forza, in comprensione e impegno. Sarà un donna libera, e liberi saranno i suoi figli.

Per i miei genitori la consolazione di avere mia figlia da far crescere sarà motivo di vita, di resistenza, sarà uno scopo. Questo già mi consola, è già un regalo, nella tragedia che ci hai fatto subire, a mie spese ed a spese loro. Ma non deve consolare te, tu non lo meriti.

Se tu sei la morte, e ora che infine ti ho riconosciuta, non posso che piegarmi, visto che le mie mani non hanno saputo difendermi e sono rimaste sporche del mio stesso sangue. Tu sei la morte ed io sarò la vita, anche se la mia è finita. Neppure ora potrei dire se credo, e forse neppure esisto più. Ma sono vita in chi mi ha amata, in chi ho amato, in chi mi ricorderà, e che io forse ricorderò.

Se ora ci sono, ci sarò. Non cerco vendetta, non mi interessa. Io cerco vita, quella che voglio per gli altri, perché sia più bella di ora e porti sorrisi, e che aggiunga speranze quando le riserve sono quasi finite.
Tu hai scelto di essere la morte. Io sarò la vita.    

                                                                                           Silvano C.©

( La riproduzione è riservata ma non c'è nessun problema se si cita la fonte, grazie)

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