giovedì 31 dicembre 2015

Bonanno


Permetta che mi presenti, mi chiamo Bonanno, sono il ragionier Ermete Bonanno. Dovrei dire che ero ragioniere, ma cosa vuole, ancora mi chiamano così, ed io mi sono adeguato. Mai cognome venne più a proposito, vero? Ed è pure la sera giusta per raccontarle quello che mi capitò ormai più di due decadi orsono, quando ancora lavoravo come contabile per la premiata ditta di installatori termoidraulici F.E.I.R. (Ferrioli, Enci, Iazzetta e Romagnosi).
Era la sera del 31 dicembre 1991, e dovevo chiudere i conti per poi andare a casa e festeggiare l’arrivo del 1992 con la mia famiglia ed una coppia di amici, finalmente, dopo una giornata intera trascorsa in quel piccolo ufficio per trascrivere spese, entrate, registrare scontrini e mettere ordine nel caos che i quattro soci regolarmente riuscivano a creare. Erano ormai le otto di sera, e tra Dare ed Avere mi ritrovavo la differenza inaccettabile di 1000 Lire.  Era ormai la terza volta che rifacevo calcoli, e non riuscivo a venirne a capo. Passò in ufficio Emanuele, o meglio, il signor Iazzetta, e mi chiese come mai stavo ancora là. Quando gli spiegai il problema lui aprì il portafogli e mi diede una banconota da 1000 Lire dicendomi di metterla nella colonna giusta e di andare a casa. Sorrisi, ringraziai e non replicai. Sarebbe stato fiato sprecato, non avrebbe capito. Lo salutai e gli dissi (sapevo di mentire) che avrei comunque finito in pochi minuti, e gli augurai buon anno.

Quando lui uscì ed anche la sua auto, una grossa Audi, si fu allontanata dal cortile, finalmente tornò il silenzio, e potei concentrarmi nei miei conteggi, deciso a venirne a capo. Stavolta, in quasi 50 minuti, riuscii a trovare l’errore, lo corressi e cominciai a mettere in ordine le altre cose dell’ufficio, chiusi i libri contabili e tutta la documentazione nell’armadio metallico e mi sedetti qualche minuto, guardandomi attorno. Quello era l’ultimo ultimo dell’anno alla F.E.I.R, sarei andato in pensione nell’aprile ’92, e mi venne da ricordare i tanti anni trascorsi in quel posto, come se già fossi arrivato all’ultimo giorno.  Difficile controllare i bilanci nella mente quando scattano alla traditora, e ti obbligano a tirare le somme della partita doppia della vita. Si chiudeva un ciclo, lo sapevo. Mia figlia stava per sposarsi e si sarebbe trasferita in una città del Piemonte dove abitava il futuro marito e dove, assieme, avrebbero gestito un negozio all’ingrosso di giocattoli. Lo avevo visto quel negozio, una sola volta, e mi era sembrato bello e ben avviato. Ero felice perché sarebbe piaciuto pure a me un lavoro simile, tutto il giorno fra trenini e pistole giocattolo, bambole e costruzioni, modellini di auto e scatole di Lego. E poi giochi anche di grandi dimensioni, come automobiline a pedali ed elettriche, tende da indiani, tricicli e barche telecomandate. Ma non avrei più avuto vicino la mia Laura, e 350 e passa chilometri erano tanti per pensare di poterla vedere spesso. Quelle erano le ultime feste trascorse con lei.

Non riuscii a trattenere le lacrime, mi creda. Non è vero che gli uomini non piangono, è una vera stupidaggine, io iniziai a piangere e non fui capace di smettere. Mi costrinsi ad alzarmi, ad andare in bagno a lavarmi il viso e poi ad uscire e a chiudere tutto, dopo aver inserito l’allarme. Allora avevo una vecchia Uno a metano, rossa, con i tappettini che ancora facevano odore di nuovo dopo 9 anni che li avevo messi. Misteri degli accessori auto. Fuori, al freddo pungente, con una nebbia che stava scendendo e sembrava intenzionata a rimanere sino all’anno nuovo, mi ripresi. Salii in auto, accesi il motore con un po’ di fatica e uscii dal cortile del piccolo capannone. Di nuovo mi fermai, chiusi il cancello, e finalmente mi diressi verso casa. Mi stavano aspettando, allora non avevo il telefonino, e avevo avvisato che sarei arrivato un po’ in ritardo dal telefono dell’ufficio, ma questo ormai più di mezz’ora prima.

Viaggiai piano, le strade forse erano gelate, e mi guardai le case illuminate, le luci intermittenti e gli alberi di natale pieni di colori che, nella notte, adornavano i giardini di molte delle villette del quartiere. Quando arrivai a casa nostra diedi un piccolo colpo col clacson, per avvisare che ormai stavo per mettere l’auto nel garage e in pochi minuti sarei entrato dalla porta d’ingresso. Per fortuna riuscii a nascondere che avevo pianto, non era il caso di rovinare la serata, era la notte di capodanno, e bisognava essere allegri.

Come dice? Perché le ho raccontato queste cose senza importanza? Che vuole che le dica, signore? Lei forse ha ragione a giudicare senza valore questi piccoli fatti, eppure, mi creda, la nostra vita, quelle delle persone come me e come lei, è fatta di queste cose, di queste nostalgie, di questi dolori e anche di alcune gioie. Ora ho due nipotini, a casa, che mi aspettano, e quindi la saluto, augurandole buon anno. Anche lei ha un nipotino? Allora mi può capire, lo so, e mi perdoni se l’ho disturbata. A volte mi piace raccontare le cose, ma questo lo ha già capito, immagino. Buon anno, la saluto, e speriamo che sia veramente un buon anno.

                                                                                                        Silvano C.©   

(La riproduzione è riservata ma non c'è nessun problema se si cita la fonte, grazie)

mercoledì 30 dicembre 2015

#Brustlina 49 – i botti e la schizofrenia



Confesso che mi ci sono divertito moltissimo in passato con i botti di capodanno. Col tempo però ho capito che non sono la cosa migliore da fare per festeggiare l’anno nuovo, troppe controindicazioni. Prima di tutto il pericolo; ogni anno qualcuno si fa male sul serio. Subito dopo gli animali; loro con i botti non ci fanno festa, e ne hanno il terrore. Poi il fastidio che si procura a chi non li sopporta. Per continuare il pericolo di incendi, in questi giorni di siccità. Non ultimo il terrorismo. Mi sembra idiota far pensare ad attentati in certe situazioni o in località particolari.

Detto questo trovo schizofrenico permetterne la vendita sino a poche ore prima e poi vietarne l’uso con un’ordinanza del sindaco. Oppure spiegare tutti i pericoli che si corrono ma permettendo anche ai minori di acquistarli e di farli scoppiare come e dove capita. Se ogni grande magazzino, tabaccaio o bazar li vende qualche cosa non mi torna. Non sarebbe meglio, a livello nazionale, dare direttive obbligatorie per ogni singolo comune, ma a partire da adesso per il prossimo anno, ed impedire la preparazione e l’importazione di questi oggetti pericolosi in modo che nessun commerciante li acquisti o li metta in vendita a partire dal 2016?

Dimenticavo però che il nostro Paese vende sigarette, ma impone la scritta che sono pericolose per la salute. 
E scordavo pure che mette il gioco tra i comportamenti a rischio ma che lucra in modo indegno sul gioco di tanti malati che si rovinano o rovinano le loro famiglie, quando non regala guadagni enormi ai privati che sul gioco ci fanno vere e proprie fortune.
Quindi lamentiamoci pure dei botti, ma non cambierà nulla (spero di aver torto, ovviamente).

                                                                                          Silvano C.©
(La riproduzione è riservata ma non c'è nessun problema se si cita la fonte.  Grazie)

#Brustlina 48 – il calendario


Entro, guardo una fotocamera, mi informo sulle caratteristiche, mi riprometto di ritornare dopo averci pensato. Prima di uscire vedo che hanno un calendario piccolo, delle dimensioni perfette per quell’angolo, di lato alla scrivania. Lo chiedo e gentilmente me lo offrono.
Arrivato a casa lo appendo, tutto soddisfatto, sotto l’ultimo foglio rimasto di quest’anno. È veramente il calendario giusto al posto giusto.
Oggi mi telefonano. È per un impegno il sette gennaio. Come è mia abitudine lo segno sul calendario, e chiedo conferma: Va bene, allora è per mercoledì 7 gennaio alle 11.
Ottimo. E poi penso ad altro. Un paio di ore dopo guardo il calendario, e non capisco. Ma oggi è mercoledì 30 o martedì 30? A me sembra mercoledì. Come si spiega questa cosa? Ancora non capisco.
Poi guardo meglio. Gennaio 2015. Gennaio 2015? In che senso gennaio 2015?
Mi sono fatto regalare il calendario di quest’anno. E loro gentilmente me lo hanno lasciato prendere. Non è che potrei riviverlo, quest’anno, ed intanto aggiustare qualche cosa magari?

                                                                                          Silvano C.©
(La riproduzione è riservata ma non c'è nessun problema se si cita la fonte.  Grazie)

un nuovo medico

Informativa sulla privacy

Da alcuni anni nessuno accetta l’incarico, ed il motivo è evidente. L’isola è molto “isolata”, e per circa cinque mesi all’anno non è raggiungibile con alcuna nave. In casi di emergenza, e se il tempo lo permette, può arrivare un elicottero dopo un volo interminabile. Per il resto gli abitanti stabili, circa cinquecento, sparsi su una superficie enorme, se la cavano da soli, e vivono di quanto producono e conservano.
L’arrivo di Clemente è un avvenimento, quindi, perché un vero medico gli isolani non lo vedono dalla morte del vecchio Salas, che negli ultimi tempi si confondeva con le rocce che percorreva per raggiungere, sempre a piedi, i suoi assistiti. Clemente non si sa dove abbia esercitato prima, ma all’azienda sanitaria non è parso vero di trovare una persona disposta a trasferirsi in quella ex-condotta persa in mezzo al mare e gli ha assegnato l’incarico triennale senza troppe difficoltà. La sua laurea milanese, con specializzazione in medicina interna, è perfetta per il caso, e quindi ora eccolo lì.

All’arrivo, ad attenderlo sul molo, un piccolo comitato: la sindaca Dora David, il Giacomo Marchi, il sacrestano Custodito e la futura vicina di casa Debora (senz’acca) Stopicci. Clemente non si aspetta tutto questo. È imbarazzato ma non oppone resistenza quando il Giacomo gli prende senza complimenti l’unica valigia e si incammina verso il piccolo paese. Prima un brindisi, al nuovo e tanto atteso medico, nella casa di Dora. Un bicchiere pieno di un vino rosso sanguigno, forte ed asprigno. Partecipa anche il marito della sindaca, Gustav, che non ha ancora perso l’accento tedesco malgrado non si sia più mosso dall’isola da trent’anni. Poche parole, perché non si usa sprecare il fiato, e poi è la Stopicci che invita il dottore a seguirla. Lei ha le chiavi della casa e dello studio, e gli spiega che da un paio di giorni arieggia e pulisce, ma che l’odore di chiuso non se ne vuole andare da quelle poche stanze. E la casa è bella, piccola ma ben curata, bianca come tutte le altre, e a meno di cento metri da quella della famiglia di Debora (senz’acca). All’interno i mobili sono scuri, di legno solido, perfettamente lucidati. Nello studio medico poche cose, e un armadietto di medicinali tutti scaduti. Era stato avvisato della situazione, ma gli era anche stato assicurato che la settimana dopo il suo arrivo avrebbe avuto tutto quanto lui avesse richiesto. E così, dopo pochi saluti, viene lasciato solo in quelle stanze. Lui, finalmente, si guarda attorno, ed ha pure fame. Il vino gli ha fatto girare un po’ la testa, ma non gli ha annegato l’appetito, ed ora non sa come organizzarsi. In cucina trova un frigorifero, una cucina a gas ed una dispensa. Il frigorifero è vuoto ed il cavo di alimentazione non è neppure attaccato alla presa elettrica. La dispensa invece è piena di ogni cosa: formaggi, salumi, un grosso pezzo di pane, vino, e poi fichi, uva, pomodori, peperoni, cetrioli, olive in barattolo, e anche marmellata, di fichi.

Il suo primo giorno dopo l’arrivo lo trascorre compiendo un giro attorno, per presentarsi e capire come rendersi utile. La prima visita è in casa Stopicci. È la signora che controllerà la dispensa e farà in modo che nongli manchi nulla. La domenica è invitato a casa loro, per il pranzo del mezzogiorno, ma per il resto dei pasti si organizzerà da solo. Per la spesa non ci saranno problemi, troveranno un accordo. Clemente saluta, ringrazia e prosegue, dopo aver chiesto consigli su quale direzione sia meglio prendere. Cammina per ore, saluta e si presenta. A volte viene invitato in case piccole e povere, altre in ambienti più ricercati, ma sempre con cortesia e con l’invito a tornare, e non per una visita medica, ma per un pranzo o una cena. Rifiutare sarebbe una grave mancanza di rispetto. La giornata finisce quando lui cede, e torna sui suoi passi, sfinito, e con il solo desiderio di dormire.

La mattina dopo, come aveva avvisato tutti, apre il suo ambulatorio, e rimane in attesa di eventuali pazienti. Sino a mezzogiorno nessuno si fa vivo. Sta per andare in cucina, per mangiare pomodori e formaggio, quando arriva Oreste, che ha una vigna ad un paio di chilometri. Lo fa sedere e chiede il motivo della visita. Le mani. Oreste non riesce più a stringere i pugni di entrambe le mani. Il medico lo ascolta, lo fa parlare e raccontare, e quello non capisce bene cosa c’entrino tutte quelle domande strane. Quando se ne va Oreste è scettico, e pensa che dovrà tenersi il suo dolore alle mani a lungo perché quel medico non gli ha dato nessuna cura. 
Ed intanto Clemente può finalmente andare a pranzo.

I giorni successivi riceve altre visite, nel suo studio, Camilla ed il marito Gregorio, la giovane Lungina (che sarebbe stata Luigina, nelle intenzioni della madre, ma poi c'è stato un errore all'anagrafe), poi l’anziana Sofia e pure il marito della sindaca, Gustav. Li fa parlare tutti, e non prescrive medicine a nessuno. Ed ognuno di loro se ne va abbastanza deluso, come se lui avesse voluto prendersi gioco di loro. Nelle settimane che seguono però, poco a poco, Oreste riesce a stringere sempre meglio i pugni, e contemporaneamente anche i suoi rapporti da sempre tesi col figlio Simone si fanno più rilassati. Ha iniziato a parlare, con lui, ed ha capito ed accettato che lui possa desiderare andare via dall’isola, per cercare di costruirsi una vita altrove. 
Camilla e Gregorio ritornano a dormire assieme, dopo due anni che non lo facevano. Lui russa sempre, è vero, ma lei ora si mette tappi di cera nelle orecchie, e lui di notte la cerca. 
Lungina, la giovane Lungina, incapace di accettare sia la solitudine sia le attenzioni dell’unico giovane che si interessa a lei, con un’emicrania quasi costante, decide di cambiare vita. Lascia i campi della famiglia, con un certo disappunto dei suoi, e chiede di lavorare nella sola azienda conserviera dell’isola. È costretta a vestirsi curando di più il proprio aspetto, deve percorrere ogni giorno a piedi molti chilometri per andare al posto di lavoro e poi tornare a casa ma, pure a lei, lentamente i fastidi cessano, e l’emicrania diventa un ricordo, esattamente come l’unico ragazzo che la vedeva. Nella piccola azienda ha conosciuto meglio un altro coetaneo.
Gustav da un po’ perde l’appetito, e soffre di un dolore sempre più forte ai piedi. Quando si reca dal medico lo fa più per scrupolo, per dire di aver provato pure quella via, che non per speranza di trovare una vera soluzione. È profondamente insoddisfatto. Dora ormai lo annoia, anche se la trova un’ottima confidente. Fisicamente non gli dice più nulla. Non gli suscita nessun desiderio. Vorrebbe scappare da lei e dall’isola, ma non ne ha la forza né il coraggio. E poi dove andrebbe? È il caso più difficile che deve affrontare Clemente. Per quello non ha alcuna soluzione facile. Si limita a far parlare Gustav ed a prescrivergli ogni mattina, a digiuno, un bicchiere di acqua con disciolta un po’ di polvere sminuzzata di aspirina, ma pochissima, meno di un decimo di compressa.

Nei mesi che seguono, sull’isola nella quale nessuno soffre di gravi problemi di salute, tutti stanno meglio, in modo evidente. Il solo caso apparentemente concluso in modo negativo è quello di Gustav, che un giorno, senza avvisare né salutare nessuno, ha preso la nave ed è partito.
Dora all’inizio non la prende molto bene la cosa, poi riflette ed accetta la situazione, si adatta a malincuore e guarda avanti.
Ed intanto passa un anno. Dora riceve la comunicazione riservata che il medico spedito dall’azienda sanitaria in realtà non si è mai laureato, e che arriveranno un paio di carabinieri per scortarlo sulla terraferma. Quando questi arrivano nessuno lo trova né sa spiegare dove si sia nascosto. I militari dopo alcuni giorni se ne vanno via, e Clemente ricompare uscendo da dove è rimasto tutto il tempo, nella cucina di Debora (senz’acca).

                                                                                                        Silvano C.©   

(La riproduzione è riservata ma non c'è nessun problema se si cita la fonte, grazie)

lunedì 28 dicembre 2015

sotto il livello del mare

Informativa sulla privacy
 
Basta così poco per rompere un equilibrio, per far pendere il piatto della bilancia da un lato o dall’altro. Gli strumenti più sensibili, un tempo quelli di orafi e farmacisti, oggi quelli elettronici digitali, quasi alla portata di tutti, sanno registrare mutamenti minimi, e far così spostare la decisione finale anche all’ultimo secondo. Questione di riflessi, di modo di pensare svelto, di decisionismo, tanto caro ad alcuni.
Il fatto è che la bilancia non ha troppi parametri da valutare per poter dare il suo responso, e che ha a che fare con semplici misure quantitative. Nei rapporti umani stabilire il punto esatto nel quale un equilibrio si rompe è quantomeno illusorio, o soggettivo. A volte se ad essere coinvolte sono solo due persone capita pure che uno dei due abbia raggiunto quel punto, e l’altro ancora no. Che complicazione i sentimenti, che illusione i sogni, che perdita di tempo i progetti di vita quando tutti sappiamo che basta un nulla per mandare al naufragio la nave più grande e potente. Il re Gustavo II Adolfo di Svezia ne ebbe la prova, ma non so che lezione seppe trarne, e come curò il suo orgoglio ferito.  
Poi però la spinta a provare di nuovo è dietro l’angolo, nascosta, che aspetta tempi migliori, lascia affondare un sogno ma ne ha tanti altri pronti, a soffia poco a poco da sotto, muove verso l’alto il piatto che vuole rendere meno importante, più leggero. Bara, ovviamente, e ci inganna, ma lo fa da maestra, e ancora una volta la spunta. Quello che prima era impossibile improvvisamente appare meno lontano, rientra tra le alternative, è una nuova via che si potrebbe tentare.

Mi ha sempre affascinato il mare in tempesta, osservato da riva, al sicuro. Non ho mai navigato sopra un oceano arrabbiato, quindi ho osservato il mare solo da dietro la porta, anche se mi ci sono immerso ed ho nuotato, al largo, sopra profondità che non potevo vedere. Un oceano in tempesta deve essere incredibile per un terricolo, spaventoso, adatto solo a chi ha vero coraggio. Eppure, sotto la sua superficie, sotto il livello della sua massa coinvolta nel moto ondoso è calmo, tranquillo, indifferente a quanto avviene in alto. Sotto la vita continua in una notte perenne, perché neppure la luce del sole scende oltre un certo limite, e per orientarsi servono altri sensi, che noi non abbiamo.

Mi lascio andare, in verticale, dopo aver svuotato i polmoni ed essermi così appesantito. Tanto non devo respirare, non mi serve per un po’. Se avessi le branchie sarebbe diverso, ma non le ho, quindi mi devo accontentare di una breve immersione. Scendo e osservo attorno a me, mentre i suoni diventano più lontani, filtrati dall’acqua, ma ugualmente percepibili. Arrivo quasi subito sul fondo, sono pochi metri, e guardo verso l’alto. La superficie di separazione sembra argento, o meglio, mercurio, e devo aspettare per vederla un po’ più tranquilla. Resto seduto, e sono leggero, incuriosito, parte temporanea di un mondo che non mi appartiene ma che mi accoglie. Non penso a quello che vivrò dopo un anno, dopo dieci, o dopo tutti quelli che sono passati, e l’assenza di tempo, assieme alla perdita della gravità e dei soliti punti di riferimento rimane come in una fotografia, che poi, tanto tempo dopo, sfogliando il mio album dei ricordi, ritroverò. Allora la bilancia aveva una lancetta che indicava chiaramente una direzione, eppure non ne avevo coscienza, e pensavo che ogni cosa sarebbe stata possibile, anche che il Vasa avrebbe potuto navigare sicuro e che io sarei diventato…

                                                                                                        Silvano C.©   

(La riproduzione è riservata ma non c'è nessun problema se si cita la fonte, grazie)

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