venerdì 31 ottobre 2014

Funerale a New Orleans, forse…


Viene soccorso in stato confusionale in un parco pubblico, mentre i suoi cari lo cercano e non sanno dove si trova.

Non ha documenti addosso, e il 118, allertato, arriva con un’auto medica che non è abilitata al suo trasporto.         
      
Intervengono allora i vigili del fuoco, in quel momento più vicini e più attrezzati, che provvedono al primo intervento e poi lo spostano in una struttura più idonea a prestargli le necessarie cure.

Purtroppo tutti gli sforzi sono vani, e il poveretto muore, lontano dai suoi che solo in seguito, dopo lunghe ricerche e passaggio di informazioni fortuite vengono a conoscenza del decesso.

Dopo il funerale, celebrato senza il conforto dei suoi cari, ma, c’è da crederci, con tutte le cure del caso, i vigili del fuoco si ritrovano nella loro caserma e reagiscono al dolore della sua scomparsa organizzando un banchetto in sua memoria, mangiando, bevendo e ricordandolo, con mestizia, ad ogni boccone che tristemente mandano giù.

Solo dopo scoppia il caso, la famiglia ricostruisce i fatti ed interviene anche la Lega Anti Vivisezione che accusa i vigili del fuoco di aver mangiato il  maialino scomparso e che avevano soccorso in un giardino pubblico. Loro però, per correttezza di cronaca, sostengono che l’animaletto sia morto di morte naturale. 

(Liberamente ispirato ad una storia vera)

                                                                                     Silvano C.©


( La riproduzione è riservata ma non c'è nessun problema se si cita la fonte, grazie)

Caccia alla strega



«Dai Picchio, quest’anno ci dobbiamo divertire!»
«Piantala di chiamarmi Picchio, cazzo! Chiamami Fabio.»
Al Picchio non piace quel soprannome che i cosiddetti amici gli hanno affibbiato, ma con qualcuno di loro non si azzarda ad alzare la voce e chiedere di smetterla, sarebbe morto, lo sfotterebbero ancora di più, mentre così, se abbozza, lo sberleffo rimane ancora entro limiti tollerabili. Il paese ha questo di tragico, che a lui va sempre più stretto. Sei sempre quello che eri a 10 anni, o a 15, bisognerebbe fuggire. Lui ci ha provato, e poi ha dovuto tornare. Ma Luca no, per la miseria. Luca deve smetterla. Quello è anche più sfigato di lui, e non se lo deve permettere.
«Va bene, d’accordo, ok, obbedisco, sissignore!»
«Senti, piantala! Piuttosto hai qualche idea? Gli stronzi vanno tutti a Cesena, in tanta malora, e noi siamo qui come due perfetti idioti. Se non hai idee tanti saluti, vai alla festa delle zucche e dei bambini, il pomeriggio alle quattro, poi a casa subito dopo, che diventa tardi. Ma vacci da solo, e non rompermi le scatole.»
Luca abbassa un po’ la cresta, e rimane in silenzio.
«Con te non si può parlare. Me ne vado. Mi informo meglio di una cosa che ho saputo per la sera del 31, e poi, se ne ho voglia, te lo faccio sapere.»
Il Picchio lo saluta alzando una mano, senza grande entusiasmo e senza parlare.
Mentre l’altro si allontana lui è certissimo che non troverà nulla. Sa anche che in ogni caso è dal Picchio che tornerà, entro un giorno o due. Luca è appiedato, mentre lui ha l’auto del padre, se la vuole, quando gli serve. Non ne ha bisogno però per svolgere le poche ore da precario in piscina, come aiuto per manutenzione e pulizie, spesso in nero (e gli va pure bene).
La piscina è a seicento metri da casa, alla fine del mese guadagna meno di quattrocento euro, e se non potesse contare sull’aiuto dei suoi sarebbe alla fame. Ovviamente vive con i genitori, anche se ormai ha quasi trent’anni, e di donne, ovviamente, manco l’ombra. Quando annusano il tipo e la posizione economica si allontanano tutte, e tra quelle quattro case dove vive non c’è alcun segreto, per nessuno.
È per questo motivo che lo chiamano il Picchio, quello che non batte chiodo. Ma non se ne esce. La vita di merda non offre sbocchi e chi poteva o aveva le giuste conoscenze gli ha fottuto il posto in comune, o in banca, o in quel supermercato inaugurato pochi anni prima.
Con una maturità scientifica non ha titoli per far nulla. L’università l’ha frequentata, a Bologna, per poco più di un anno, poi ha trovato un posto in un magazzino della città emiliana ed ha smesso di studiare. Lavoro faticoso ma ben pagato, e ferie, e contributi, tutto in regola. Una fortuna insomma, che i suoi, malgrado la delusione dell’interruzione degli studi hanno accettato, almeno come soluzione temporanea. Poi i proprietari del magazzino hanno smesso di pagare alle date previste e sempre più in ritardo, infine hanno smesso del tutto. E così, dopo tre mesi di proteste e agitazioni che nessuno ha neppure preso in considerazione, i sette dipendenti, in ordine sparso, hanno piantato la baracca. Pure lui ha lasciato quell’ormai ex lavoro, con un credito di oltre tremila euro, ed è tornato, coda tra le gambe, a casa dei genitori, sfigato e depresso. Giada (che nome stupido, a ripensarci), una parmigiana trapiantata a Bologna, dalla voce profonda, col corpo da indossatrice e molto ammirata quando uscivano assieme, lo aveva già mollato preventivamente per mettersi con un altro. Istinto del topo sulla nave che affonda, nulla da dire. E così a Bologna non gli rimaneva nulla, nemmeno un rimpianto.

La nebbia la mattina inizia a farsi vedere, ma poco, e se ne va presto, spaventata dal sole. Lui va in piscina, poi rimane un po’ per nuotare, e rilassarsi, perché lo pagano poco ma almeno l’ingresso in vasca è gratuito, e pure la doccia dopo le 60 vasche da 25 metri che riesce a fare tre o quattro volte in settimana. La sera vede di nuovo Luca.
«Ciao Picchio: Argenta. Si va ad Argenta. Notte delle streghe e tante fighe che si vogliono divertire. C’è un locale che promette sballo per tutti…»
«Piantala, mi stai stufando. Smettila con ‘sto Picchio o ti arriva un pugno tra i denti. E spiegati meglio.»
«Va bene. Al Corallo Notturno ci sarà uno spettacolo con un complesso in costume, pare con una cantante notevole, Lady Gaga della bassa la chiamano. Dicono facesse spettacoli porno, poi si è stufata e si è scoperta una bella voce, oltre a due belle tette.»
«Ho capito, solite cose, e si pagherà un casino per entrare.»
«Sì, non pochissimo. Trenta a testa. Senza consumazione. Ma mi sono informato. Dove va quel complesso arrivano le donne come mosche. Pare che il basso sia una calamita per femmine. Una volta due del pubblico, in un posto di Verona, sono salite sul palco e se non interveniva la sicurezza se lo facevano davanti a tutti. E lui mica si è tirato indietro, pare.»
«Senti, Luca: ci penso. Ok? Non mi va di buttarmi come un disperato in imprese idiote come quelle che mi proponi ogni tanto. Ricordi la grande scopata garantita a Rimini di tre mesi fa? Tutto organizzato! E ci è costato un patrimonio per niente. O meglio: per far la figura dei morti di fame. Quando hanno visto la Skoda Fabia a metano dei miei le due avevano già deciso. Ci hanno concesso di pagar loro la cena in quel posto caro rabbioso, e poi tanti saluti. Ciao ciao.»
Il Picchio ed il socio fanno due passi, in paese, senza entrare da nessuna parte, soli come i due cani che li seguono, a debita distanza. Parlano di stupidaggini, poi si salutano. Ci penseranno.
Il 29 si decidono. Va bene. Vada per il Corallo Notturno e la notte con le streghe infoiate. Deve andare sempre tutto storto? Un po’ di culo ogni tanto no? Le probabilità sono a loro favore. Il Picchio dovrebbe sapere invece che la probabilità di un evento slegato dai precedenti non aumenta per quello che è o non è avvento prima. Lo ha pure studiato, ma ora lo ignora. Anche la sfiga di notte dovrebbe aver difficoltà a trovare sempre lui. Però il fatto che una coppia desideri un maschio ed abbia già tre femmine non vuol dire che il prossimo figlio sarà maschio. La probabilità che questo avvenga è sempre del 50%. Più o meno. Quindi logica e sfiga remano contro, ma si va lo stesso.

La sera del 31 il Picchio si veste con il solo abito scuro che possiede, e, su suggerimento del socio, si porta in tasca  pure la maschera nera tipo Zorro, comprata per sembrare un personaggio delle tenebre. Abbigliamento simile indossa anche il Luca. Partono verso le nove, direzione Argenta. Durata prevista del viaggio, con la solita Skoda Fabia a metano, circa un’ora. Arrivo più o meno attorno all’orario di apertura, tanto per guardarsi attorno prima, o per viaggiare senza fretta. Di pagare multe con tutti gli autovelox piazzati ovunque non se ne parla.

Primo problema. Il padre ha usato l’auto il giorno prima e praticamente è senza metano. A benzina si spende un patrimonio. Serve una sosta al distributore. In zona ne esiste uno solo. C’è coda. Mezz’ora persa.

Secondo problema. Per una piena di un canale del cazzo un ponte non è agibile. Deviazione. 15 km in più ed altri 20 minuti sprecati a girare a vuoto nella campagna.

Terzo problema. Quando finalmente arrivano, il parcheggio del locale è pieno, ed attorno le auto sono parcheggiate quasi sul bordo dei fossi. Il primo e più vicino buco che trovano è oltre i confini delle terre conosciute. Per ritornare a piedi  verso il locale, decisamente molto animato pare, impiegano un tempo interminabile. Camminando sul ciglio della strada finiscono per sporcarsi le scarpe, che prima erano lucide, ed ora sembrano quelle di due contadini che hanno zappato sino ad un minuto prima.

Quarto problema. Quando finalmente, dopo aver pagato il pedaggio, entrano nella sala principale, annusano profumi scadenti e sudore umano, odore di sesso e di eccitazione generale. La musica, per fortuna, anche se assordante non è male. Ma sono tutti ragazzini. Quelli che non hanno il viso nascosto da maschere o costumi in tema Halloween  sono al massimo sui vent’anni. Lady Gaga si dimena e non è male, ma è l’unica donna attorno alla trentina nel Corallo.
Le streghe infoiate forse lo sono, ma non li vedono neppure. Per loro sono solo vecchi satiri allupati e ridicoli, al massimo da prendere per il culo per quell’aria con la lingua fuori da affamati che non sanno togliersi di dosso.
Il Picchio capisce che non è il posto adatto, né la sera giusta, anche se ancora non vuole ammetterlo. Guarda una gatta con una tuta aderente che la fascia come una seconda pelle ballare con una specie di vampiro. Quel corpo lo attira, non riesce a staccargli gli occhi di dosso, ma può solo guardarlo da lontano, a distanza di sicurezza, mentre a decine continuano a passargli davanti interrompendogli ripetutamente la visuale. Per fortuna non deve parlare col Luca. La musica è troppo forte, e non sarebbe possibile. Si incazza più con se stesso che col socio, e si deprime.
La notte è ufficialmente iniziata e le streghe, assieme ai loro maghi, ai vampiri ed ai licantropi, hanno deciso di farli cuocere nel pentolone del desiderio sempre più ottuso e fisico a fuoco lento, ignorando le loro urla di dolore. Passa quasi un’ora. Poi il Picchio si avvicina all’orecchio di Luca ed urla:
«Andiamocene!»
Non servono spiegazioni, anche il socio ha capito. Restare non vale la pena. Escono incazzati e senza parlare. Mezzanotte è passata da qualche minuto. Si dirigono verso l’auto, mentre il cielo stellato sopra di loro sembra prenderli in giro e ridere. Ride proprio, incredibile. Il Picchio alza lo sguardo e non capisce, poi si rende conto. A ridere sono tre ragazze, non il cielo. Sono giovani, è vero, ma queste li vedono. Stranamente ora i due amici sono tornati visibili, anche se la luce è poca. Una ha un vestitino corto corto, che sembra due taglie meno del necessario. Le altre due sembrano gemelle, con i capelli bianchi, sicuramente parrucche, e i visi pallidi, ornati da segni rossi…
«Scusate, avete la macchina voi due? Dareste un passaggio a strega Lumilla e alle sue due amiche morte viventi?»
«Come scusa? » fa il Picchio preso in contropiede e non poco stupito che tre ragazze come quelle gli rivolgano la parola.
«Se ci date un passaggio a Portomaggiore vi invitiamo alla festa dove stiamo andando. Qui è solo un mortorio. Voi venite dal Corallo?»
«Sì, siamo stati ad accompagnare una persona, ma ora abbiamo un impegno.» Il Picchio tenta una manovra difensiva, ma le ragazze non credono ad una parola. Luca tace, anzi, sorride con un’espressione ebete. Sono incastrati, quindi propone: «Ma se facciamo presto un passaggio ve lo diamo, ok?»
I due camminano davanti, seguiti dalle tre ragazze, e finalmente arrivano alla Skoda.
«Soccia, bella l’auto d’epoca, non sono mai stata su una Skioda!» fa la Lumilla mentre le altre due devono essere mute, e non solo, perché non parlano e non ridono.
Il Picchio ignora la battuta, sorride ed apre l’auto sbloccando le portiere.
«Dovete dirmi voi la strada più breve, non siamo pratici della zona.»
L’unica  dotata di parola, che si è piazzata in centro al sedile posteriore tra le due morte dallo sguardo perso nel vuoto, emette una risata sguaiata che lo fa pentire di averle fatte salire mentre il Luca, seduto al suo fianco (l’idiota poteva pure mettersi dietro, no?) sembra eccitato come un gatto in amore. Avrebbe voglia di buttargli un secchio di acqua gelata addosso. La ragazza divertita, dopo aver smesso di ridere, finalmente si esprime:
«Va bene. At port mi in cal post. Parti e vai sempre dritto, sino all’incrocio a due Km, poi prendi a destra.»
«Agli ordini, madame....»
Non ha voglia di parlare, solo di togliersele di torno. E parte seguendo le indicazioni.
«Non potresti andare un po’ più veloce? O la macchina perde i pezzi?»
«No, non perde i pezzi. Posso anche accelerare.» Il Picchio inizia a spazientirsi.
«Tu dimmi la strada più breve, al resto ci penso io. Tu hai la patente?»
«Io? La patente? Non ho ancora compiuto i 18, spero che tu non sia un pedofilo.»
La stronzetta sa parlare italiano allora, per essere una strega è istruita, pensa, ma intanto si è innervosito.
«Non mi interessano le ragazzine, e se anche fosse tu perché ti sei fidata a salire in macchina con noi due, pensi che visto che siete in tre noi abbiamo paura di voi? Potremmo essere due maniaci. Il mio amico sai quante ragazzine come te si potrebbe fare se volesse? Non fidarti anche se sembra tranquillo. C’è sempre la possibilità di svoltare in una strada tra i campi, no?»
Luca, sentendo quelle minacce non si rende conto che sono pronunciate solo per impaurire e far stare al suo posto la ragazzina. Si sfila dal viso il sorriso stupido e si fa di colpo serio. Anche la ragazzina diventa muta, e decisamente meno allegra di prima. Le altre due mute erano e mute restano. E non cambiano espressione.
Il viaggio prosegue così, senza altre battute o risate, sino al cartello stradale di Portomaggiore, e finalmente il Picchio chiede nuove indicazioni, con l’aria più tranquilla possibile.
«Bene, ci siamo tra un po’. Spiegami dove devo lasciarvi, gentile Lumilla, una volta arrivati. Io e il mio amico non veniamo alla vostra festa. Vi facciamo scendere al vostro sabba e ce ne andiamo.»
«E’ appena entrati in paese, a destra, in via Mulinelli...»
«Benissimo, spero che vi divertiate più di quanto ci siamo divertiti noi, carissime. A che numero o quale casa?.»
«Sembra un grosso cubo bianco, eccola, si vede già, ci sono le luci accese all’ingresso e pure le finestre sono illuminate...»
Il Picchio frena davanti all’ingresso. Le tre scendono tutte dal lato della casa, richiudono la portiera e si incamminano verso l’ingresso, senza un saluto né un ringraziamento.

«Stronze sino in fondo.» dice il Picchio al suo socio facendo partire l’auto.
Ritornano sulla statale in pochi minuti e poi prendono la direzione di casa.
«Come volevasi dimostrare, caro il mio Luca, abbiamo trascorso una serata di merda, ed ora ho pure sonno. Voglio un caffè.»
Luca tace, e solo dopo una decina di minuti indica con la mano un’insegna accesa, a poca distanza. È tardissimo, tutti i bar sono chiusi ormai, ma quella è una stazione di servizio self-service aperta tutta notte, ed ha un distributore automatico di bevande calde, vicino alla piccola costruzione del gestore ora sbarrata.
«Anche un caffè così mi va bene, tu scendi?»
«No, non mi va. Ti aspetto.»
Il Picchio si avvicina al distributore, poi ricorda che ha lasciato in auto nella tasca posteriore del suo sedile i documenti con gli spiccioli ed il portafogli. Quando sono scesi per andare al Corallo lui ha preso pochi soldi, ed il resto lo ha nascosto nella tasca come fa di solito. Da fuori non si nota, gli sembra una cosa sicura.
Torna indietro, apre la portiera posteriore e mette la mano per prendere il borsellino con gli spiccioli. Niente. Allunga la mano, ancora niente, e lo stesso dalla parte del passeggero.
«Ma porca di quella… Mi hanno preso i soldi ed i documenti le tre stronzette.»
«Sei sicuro?»
«Ma che cazzo dici? Certo che sono sicuro, torniamo indietro. Adesso, zozza miseria, ma che….»
Sale in auto, fa inversione e stavolta corre dimenticando la sua solita prudenza.
In meno di 10 minuti sono alla casa cubo, si fermano, e lui scende di corsa per attaccarsi al campanello della porta d’ingresso. Nessuno viene ad aprire, ma dentro c’è gente, si sente musica. Suona ancora, e finalmente si affaccia un uomo sulla cinquantina.
«Cerco tre ragazzine.» spiega, e le descrive, ma quello cade dalle nuvole. In casa ci sono solo suoi amici, per festeggiare un compleanno, e loro non hanno figli o figlie, e in ogni caso lì non ci sono quelle che sta descrivendo.

La notte di Halloween sarà ancora lunga, ma la strega e le due morte viventi sono sparite nelle tenebre. Cercarle si rivela presto inutile. Possono essere andate ovunque, e non è detto che abitino a Portomaggiore. Con un cellulare chiunque può essere stato chiamato e averle recuperate.

Quando finalmente, due ore dopo, arrivano al paese, Luca scende in fretta dall’auto, e promette che si farà vivo la mattina successiva.
Il Picchio, incazzato per essere sempre il solito fesso, porta la macchina in garage e facendo poco rumore entra in casa e va nella sua stanza.
Si mette sul letto vestito e pensa alla serata appena finita, poi, senza rendersene conto, si addormenta.
Il giorno dopo Ferrari Fabio riceve una telefonata dai vigili urbani di Portomaggiore. Hanno ritrovato i suoi documenti. No, soldi non ne abbiamo visti. Erano tanti? Accidenti, ci spiace, ma si consoli che per i documenti non deve fare denunce e duplicati.
La notte di Halloween però prepara al Picchio anche un altro regalo velenoso e postumo. 47 giorni dopo, poco prima di Natale, da San Bartolomeo in Bosco gli arriva una notifica giudiziaria per eccesso di velocità nella notte del 31 ottobre 2014. Un autovelox del comune ha rilevato l’infrazione.
Le streghe si vendicano, se tenti di cacciarle o anche solo di spaventarle. Anche con le streghe per finta non si scherza.

                                                                                                          Silvano C.©


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giovedì 30 ottobre 2014

Il cane ubriaco


Una signora anziana mi precede. Al guinzaglio tiene un cane. Nulla di più normale, no? Poi vedo che il cane va a destra, accanto alla siepe che c’è in quel tratto. Poi si sposta a sinistra, sul bordo opposto del marciapiedi. E poi di nuovo a destra, e ancora sinistra, in modo sistematico.
Non si comporta come tutti i cani che tirano a volte il padrone, o si fermano per annusare e poi per marcare il territorio. Sembra ubriaco, sbanda da una parte all’altra.
Visto che sono curioso e ormai se mi capita rompo le scatole ed attacco discorso con chiunque se ne vedo un motivo anche minimo, chiedo alla signora il perché dello strano comportamento del suo animale.
Lei è molto gentile, e mi risponde. Si vede che altri le hanno già fatto la stessa domanda, lo si capisce.
-         Fa così sin da quando l’ho presa che era piccola, era di un cacciatore che la bastonava… -
Capisco tutto in un attimo. Quella bestia del cacciatore picchiava la piccola cucciola perché annusasse o battesse la zona di caccia, in cerca di prede alla quali lui avrebbe sportivamente sparato, e per far questo educava la cagnetta a suon di randellate. Ora, ormai adulta, lei continua istintivamente a battere il suo territorio per paura di prendere ancora botte da quella gentile signora che invece l’ha salvata della bestia. 
Io la saluto e proseguo, mentre lei ormai è arrivata al cancello di casa sua. 

Mi fa pensare all’educazione, tutto questo, a quanto si impara da piccoli e poi non si scorda mai più. 
E intanto mi fa pure immaginare a quanto sarebbe bello che quel cacciatore avesse ormai smesso di andare a caccia, e che prima di questo gli fosse pure occorso qualche piccolo incidente, non mortale né con conseguenze permanenti, ma molto doloroso, proprio durante una delle sue battute di caccia.

                                                                                     Silvano C.©


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L’inganno dell’eterna giovinezza


 Informativa sulla privacy
La tua vita non cambierà se ti laverai i capelli con quello shampoo, questo lo capisci benissimo da solo, ne sono consapevole, eppure te lo ripetono in modo ossessivo, perché tu “non ti sei mai arreso”, quindi sanno che un effetto quelle parole ripetute sfruttando il volto di persone belle, giovani e famose lo hanno.
La pubblicità è un governo ombra alla luce del sole, uno dei veri poteri forti, senza scomodare complotti o intese segrete tra pochi e grandi potenti in luoghi mitici.

Pure in rete quello che ti viene dato gratis in realtà lo paghi con la pubblicità che la tua semplice presenza rovescia su di te, che fa raccogliere dati sensibili sul tuo conto a vari livelli come le amicizie, le idee religiose e politiche, la salute e le inclinazioni sessuali, i gusti musicali ed alimentari, i vizi e le debolezze.

E poi qualcuno ha il coraggio di offendersi se si trova davanti, come interlocutore, una persona nascosta da un disegnetto ed un nome evidentemente falso, di fantasia. Grida alla scorrettezza del non essere in rete con nome, cognome, data di nascita, indirizzo, numero di telefono, foto della propria vita. Ma dove vivono queste persone che per principio ti rifiutano perché loro il nome e la foto l’hanno messa? Credono veramente che la correttezza sia farsi mettere in piazza? 

Non è preferibile, pur conservando un residuo di anonimato, comportarsi correttamente, con commettere reati, essere comunque sé stessi e tentare di fare quello che si ritiene giusto senza voler usare il proprio volto come brand per vendere qualche cosa ai polli che ci cascano?

Se un viso sorridente e di successo ottiene molto seguito in rete, io, confesso, ne diffido. Mi chiedo sempre. Cosa vuole vendermi? E la ricerca non di rado è brevissima. Vuole appiopparmi il suo libro, il suo corso on line, il suo blog, la sua idea politica, il suo metodo per dimagrire, la sua idea animalista, il suo telefono cellulare che se lo compri in realtà è peggio di un matrimonio consacrato, perché ti leghi per sempre con quella filosofia distorta e consumista.

E poi, se non lo hai ancora capito, pure tu diventerai vecchio, non resterai sempre giovane, la giovinezza eterna è un mito. 
Se vuoi essere giovane a sessant’anni hai problemi irrisolti da tanto tempo, credimi. 
Se indossi abiti da ragazza ventenne quando di anni ne hai almeno il doppio sei ridicola, e se fai l’atleta a cinquanta, uomo in forma, attento al colpo della strega. 
È Halloween, approfittane per portare un grosso peso su per le scale, e poi raccontami.

                                                                                          Silvano C.©


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mercoledì 29 ottobre 2014

#Brustlina 38 – Il mistero del cocomero e della zucca


Tra pochissimo Linus van Pelt, nell’orto dei cocomeri, aspetterà l’arrivo del Grande Cocomero. 
È tradizione, era già tradizione anche da noi, in alcune regioni d’Italia. 
Non è una moda importata e del tutto straniera quella di Halloween, semmai da noi ha avuto una nuova vita.
La cosa buffa, nota da tempo e che mi piace ricordare, è che in realtà solo noi italiani parliamo di Grande Cocomero, mentre nella versione originale di Charles Schulz si parla letteralmente di “Great Pumpkin”, cioè di Grande Zucca. 
Il colpevole della traduzione sbagliata pare essere stato Oreste del Buono, ed in seguito, dopo il successo e la diffusione della striscia, il nome, anche se errato, è entrato di diritto nel nostro immaginario collettivo (Agli indiani d’America è successo lo stesso; colpa di Colombo o dei suoi contemporanei che cercavano le Indie).
Del resto questo è periodo di zucche, non di cocomeri, e con le zucche si possono ottenere piatti prelibati, adatti a tutti, anche ai vegani.

                                                                      Silvano C.©


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martedì 28 ottobre 2014

Male



Non voglio citare nessuno direttamente ed esplicitamente, né fare riferimenti a teorie filosofiche oppure a correnti di pensiero di ispirazione atea o religiosa. Ed ancora non intendo copiare nessuna frase di qualche scrittore che ho letto o che non ho letto, perché con una brevissima ricerca potrei far sfoggio di tutto questo e non mi sembra il caso.

Probabilmente faccio male.


Il fatto è che intendo riflettere proprio sul male, ed ovviamente non posso dire nulla di innovativo o originale. Tutto è già stato scritto quindi non ho l’ansia di arrivare primo. L’occasione che mi ha fatto scattare il bisogno di organizzarmi il pensiero sul tema è la frase fatta che ho scritto in una veloce discussione in rete:
“Non tutto il male viene per nuocere”.
Si parlava di situazione politica, ma a me quella frase interessa anche in altre questioni, ed il concetto di male è generalizzabile praticamente ad ogni aspetto della nostra vita e di ogni vita, che sia umana o non umana. Forse si può anche estendere alla non vita, ma questo è al di là delle mie possibilità ed interessi attuali.

Il male è unito al bene, si esaltano a vicenda, si combattono ma non sanno escludersi in modo completo l’un l’altro. Sembra quasi che la natura del bene si alimenti con quella del suo opposto, e viceversa.
Limitandomi alla mia esperienza so che ho compiuto azioni difficilmente classificabili, o, per dirla in altro modo, complesse. Definirle positive o negative mi riesce difficile.
Mi viene facile invece dire il meglio di me, nascondendo il peggio. È buona educazione controllare le pulsioni al ferire gli altri, nascondere le bassezze, dimenticarle in fretta per evidenziare o ricordare solo ciò che appare edificante; e non nego che lo ritenga pure giusto, perché devo tendere a migliorarmi, se proprio non sono ancora come vorrei.
Ma come una moneta – e come tanti penso - ho un diritto ed un rovescio.
La complessità della quale parlavo prima è esattamente questo, la difficoltà di capire prima di tutto e di separare nettamente poi queste due entità che, a complicare il ragionamento, variano da individuo a individuo.

Se io rubo un oggetto mentre nessuno mi vede, poi faccio due passi, inizio a vergognarmi di quanto ho fatto perché so a chi apparteneva quella cosa, sento che posso riparare in qualche modo rinunciando a quanto ho sottratto ed avevo iniziato a pensare come mio, quindi ritorno e, non visto, restituisco quanto prima avevo portato via, come posso classificare la sequenza delle mie azioni? Il bene che trionfa sul male? Non ne sono molto convinto. Se un’auto mi avesse travolto prima di terminare la  sequenza appena descritta cosa sarebbe successo?

Penso sempre di più che le categorie di giudizio siano personali e destinate a mutare, che sia giusto non compiere cattive azioni se sono percepite come tali, ma poi non devo neppure giustificare le atrocità commesse in buona fede o per fanatismo. Io non devo odiare, ma posso odiare chi odia? Mi viene naturale dire di sì, perché sono poco propenso al perdono gratuito, cioè concesso senza che vi sia un’ammissione di responsabilità, che però parte dalla consapevolezza.   
Che complicazione! Quello che a certi sembra o nero o bianco, ha mille diverse sfumature, ed obbliga a pensarci almeno un po’, per evitare cantonate micidiali.
Su alcuni temi è bene avere un’opinione, ma è altrettanto bene non ritenerla indiscutibile a priori.
Quindi è giusto darsi da fare per ottenere un certo risultato anche se magari, in seguito, capiremo che abbiamo sbagliato clamorosamente la valutazione iniziale.

Dopo gli anni dei buoni e dei cattivi segnati alla classica lavagna finalmente capiamo che chi decide a volte scrive per sue simpatie o antipatie, che il cattivo ti ha appena offerto un pezzetto di merenda, che il buono fa lo stronzo trattandoti dall’alto in basso, che i cattivi a volte sono pure più simpatici, perché sanno fare un casino mostruoso che gli altri neppure si sognano, e magari non fanno male a nessuno, forse solo a sé stessi. È poi passa il tempo, e quei nomi si dimenticano, cambiano i valori, è ben altro che adesso tu stai cercando. Tu, esattamente tu, ora quei buoni e cattivi li confondi.

Per tornare alla frase che mi ha fatto partire con questa enorme confusione mica è detto che “non tutto il male venga per nuocere”, ma è possibile che sia così. È un’opzione che possiede una sua dignità logica, confutabile ma ugualmente possibile. 
Se io mi salvo dopo un incidente stradale e questo produce, in seguito, una mia guida più prudente, il male ha generato il bene. Se con quell’incidente muoio, il male ha posto fine alla mia vita, ma io non farò più male ad altri. 
E se…
E se invece…
E se tu pensassi come ritieni giusto per te, non sarebbe meglio per tutti? Usa la tua testa, e cerca di capire. 
Separare lo zucchero dalla limatura di ferro è facile. Basta buttare tutto in un bicchier d’acqua.
Separare il bene dal male invece non è facile come berlo, quel bicchier d’acqua.

                                                                                                                            Silvano C.©


( La riproduzione è riservata ma non c'è nessun problema se si cita la fonte, grazie)

domenica 26 ottobre 2014

“ma il treno dei desideri nei miei pensieri all'incontrario va.”


ma il treno dei desideri
nei miei pensieri all'incontrario va
.”
(da Azzurro, di Paolo Conte e Vito Pallavicini)

Passeggio e la notte arriva prima, un’ora prima. È tornata l’ora solare, quella adottata in modo convenzionale da tutto il fuso orario che comprende il meridiano centrale, l’unica linea dalla quale effettivamente si vede il Sole a mezzogiorno nel punto più alto.

Mentre passeggio vedo un treno passare, in lontananza, con tutte le luci accese, e la mente corre, associa, ricorda, rivive. Mi riporta alle mie stazioni, all’indietro nel tempo, e alla rimozione all’incontrario. 

Solitamente tendo a scordare le cose spiacevoli, come forma di autodifesa. Mi vedo sempre su un cavallo bianco, vestito di una corazza lucida, e scordo le cadute, i tradimenti, i colpi subiti o inferti, sono cioè al meglio possibile.

Col treno invece va tutto a rovescio. Scordo le cose belle, i viaggi divertenti, le esperienze piacevoli, e piombo in uno stato d’animo simile all’angoscia.
Mi vedo attendere un treno che mi porterà in un luogo lontano e freddo, oppure arrivo in questo luogo. Ed ecco persone che partono, con la nostalgia che arriva ancora prima che il treno abbia chiuso le porte. 

Avverto l’odore della stazione, cammino nel sottopasso, voci, attese, parole dette fingendo che sia normale, e voglia di fermare tutto, treno e tempo.
Il treno per me è distacco, rottura, legami spezzati o interrotti. 

Ma come si può partire con la sensazione di allontanarsi per sempre, lasciare tutto alle proprie spalle, vivere fuggendo dalla vita precedente senza provare, appena si vede un treno anche in lontananza, una valanga di emozioni?  
     
                                                                                              Silvano C.©


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sabato 25 ottobre 2014

Il tuo corpo nudo


Henri Matisse con modella, 1939
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C’è un bel parlare di grandi ideali, di spinte altruiste e di bisogno di umanità. Si ricerca la spiritualità, si tessono relazioni e si pensa di essere utili. Si va in vacanza, ci si immerge sino in fondo nel proprio egoismo oppure si lotta per una causa che sembra giusta. E ancora si è disperati, si perde o non si trova il lavoro, si usano risparmi accumulati in anni passati per sopravvivere oggi e forse morire domani, nudi.
Nudi si nasce, e nudi, cioè senza più nulla, si muore. Senza vergogna si nasce e perdendo la vergogna, se si è coscienti, si muore.
Reparto natalità e geriatria per lungodegenti sono gli estremi strutturali codificati dalla sanità, sino alla sosta finale, ulteriormente delocalizzata. Ed è quella più penosa, dilatata, accanita, il più tardi possibile, qualità dell’esistenza a parte.
E poi, in mezzo, la parvenza di indipendenza, di onnipotenza, di possibilità infinite spesso sprecate o comunque perse perché ogni scelta prevede che altro si lasci.
Allora si spia il corpo nudo della donna, si idealizza o si compra come se fosse un oggetto, e l’uomo entra nel gioco quasi allo stesso modo, anche lui deve essere un corpo nudo, perché solo la donna? Si guarda e ci si mostra. Qualcuno grida allo scandalo, in altri paesi è naturale farlo, e non ci si stupisce. Quanta invidia per la cultura nordica, e quanta ignoranza reciproca, se poi neppure quella porta alla pace, e loro invidiano noi perché sappiamo ridere, malgrado tutto.
Si scrivono libri, saggi e racconti per scavare, denudare, mostrare. Esibizionismo estetico e fine alla realizzazione, di che cosa poi non è chiaro. Voracità ed anoressia come sostituti di lussuria estrema e clausura che rinuncia e nega. Ma il corpo rimane, sempre. Noi siamo corpo, lo vediamo riflesso su superfici a specchio o negli occhi chi ci guarda; ci giudichiamo e siamo giudicati anche per quello, inizialmente per quello, essenzialmente per quello. Devo essere accettato col mio corpo se voglio aspirare ad una parvenza di realizzazione, momentanea, ma l’unica possibile. Quello che avrò fatto sarà nulla, senza che prima questo corpo sia servito a dannarmi o ad elevarmi. Anche dopo la fine sarà il corpo che mi avrà permesso di essere quello che sono stato.
A volte penso che alcuni grandi atleti sappiano ritirarsi al momento giusto, all’apice della loro carriera, quando la curva ascendente inizia a dare i primi timidi segnali di cedimento. La maggioranza non lo fa. Vuole bere sino alla fine quel vino, quella droga, ed arriva all’umiliazione. Quello facciamo. Il ritirarci non è previsto, se non per pochi.
Alcune delle mie esperienze più significative sono legate alla mia nudità. Ed il mio corpo, con i suoi ordini perentori, ha scandito e scandisce i tempi. Con lui non posso barare, al massimo posso fingere per un po’.
Anche lo scrivere è uno spogliarsi, come il parlare è tentare di indovinare sotto i vestiti di chi ci sta di fronte. Alcuni culi parlano, è evidente. Alcuni occhi parlano, lo sanno tutti. Il sudore del tuo corpo lo avverto benissimo, e mi attrae o mi respinge, senza che io possa mentire, o senza che sappia farlo. E i rumori che fa il corpo, i tanti rumori, a volte buffi e altre osceni, ma tutti nostri, naturali.
Frequentare una spiaggia nudista rende intriganti i costumi da bagno, che nascondono quello che vorremmo vedere, e scopre le carte. Una spiaggia dove tutti indossano il costume invece è ipocrita, allusiva. Classista invece lo è ogni spiaggia. Il corpo nudo o seminudo non nasconde la cura che vi abbiamo dedicato, che abbiamo potuto dedicarci. Completamente nudi o solo parzialmente coperti siamo giudicati per le nostre debolezze o malattie, per la nostra ricchezza e per la disponibilità di tempo. Ma senza più l’innocenza di quando eravamo bambini. Ora, da adulti, i giochi sono chiari. Disgusto o ammirazione non sempre vengono celati, e toccano il nostro amor proprio.
Chi ti conosce ti guarda dentro, e vede oltre i vestiti e la corazza di finzioni. Per quella persona il tuo corpo è nudo. In quel caso la nudità reale è quasi naturale, se capita l’occasione.
E poi ci sono le rappresentazioni, i surrogati, gli spettacoli per chi non ha coraggio e si limita a osservare la vita senza farne parte, a invidiare chi ha il coraggio di spogliarsi senza averlo uguale.
Da bambini era tutto possibile, e dovremmo cercare di imitarli, i bambini, riscoprire le loro curiosità per ogni differenza che appare nuova e interessante, prima che il senso di censura o di proibito inizi a modificare in modo permanente ogni nostro successivo comportamento, a indirizzarci verso la nostra strada segnata.
Vorrei, se fosse possibile, rivedere i corpi nudi come li vedevo da bambino, ma prima, prima di ogni cosa che sarebbe successa dopo, che avrei imparato in seguito, per imitazione e per correzione.

                                                                                                      Silvano C.©


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venerdì 24 ottobre 2014

Come si negano i diritti perché c’è altro di più urgente da fare


Lo so, questo post ha un titolo che ricorda quello di certi film della Wertmüller, e praticamente ho quasi svelato il finale, ma lo scrivo lo stesso, per scaricare il nervoso che mi ha preso non più di qualche ora fa dopo aver discusso con un ex collega. Fortunatamente ex. Purtroppo collega.
Ho perso mezz’ora del mio tempo, forse pure di più, per arrivare a capire che era meglio ignorarlo, cioè salutarlo in modo affrettato e poi proseguire ognuno per la propria strada.
Ed invece prima ci siamo scambiati saluti di cortesia, poi abbiamo parlato della situazione politica e delle pensioni, del lavoro e della crisi, e poi del voto che abbiamo dato alle ultime elezioni, guarda caso a fronti opposti. A quel punto avrei dovuto capire, e lasciar perdere. Ed invece no, ho continuato a discutere, sino ad arrivare a parlare dei diritti delle persone omosessuali.  
Lui ha detto chiaramente che con tante cose più urgenti da fare non gli sembrava il caso di perdere tempo con queste cose, che ci sono problemi più urgenti da affrontare prima.
Non credevo alle mie orecchie, lo giuro. Ho replicato che i diritti sono a costo zero, non pesano sull’economia, che il valore di una persona è la prima cosa che una società deve riconoscere.
Niente da fare. Il problema, per lui, non era la priorità, in effetti. Lui questi diritti non li vuole dare e basta. Gli fanno schifo gli omosessuali che si mostrano con “tutto di fuori”, che prova repulsione quando questi si abbandonano ad effusioni in pubblico, che sono malati, e via con tutta la sequela delle idiozie del caso. Non ripeto cosa mi ha detto di Vladimir Luxuria. Io gli ho ricordato dei lager nazisti, niente. Poi gli ho parlato di Vendola e di Giulio Cesare, e poi dei tanti eterosessuali che abusano di bambini. Niente da fare. I gay sono pure pedofili, ha aggiunto.
Io a dirgli che sono essenzialmente gli etero che violentano i minori ed uccidono le donne, troppe, sempre, quasi ogni giorno. Nulla da fare. Mi ha replicato che ne conosce due che vivono assieme, che a lui non danno fastidio e che non danno scandalo perché stanno al loro posto e non si fanno notare.
Mi sono spazientito, gli ho replicato che se sono in affitto a nome di uno dei due l’altro non ha diritti, in caso di eredità non sono tutelati come una coppia e che se uno di loro va in ospedale l’altro non è detto che possa andare ed avere lo stesso trattamento che avrebbe se loro fossero una coppia sposata o comunque riconosciuta con le medesime condizioni sul piano civile. E poi l’ho salutato, ormai troppo tardi. Mi aveva già rovinato la passeggiata prima di cena.

                                                                                                      Silvano C.©


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giovedì 23 ottobre 2014

Venere e le nuvole


Vanno
vengono
ogni tanto si fermano
e quando si fermano
sono nere come il corvo
sembra che ti guardano con malocchio

Certe volte sono bianche
e corrono
e prendono la forma dell'airone
o della pecora
o di qualche altra bestia
ma questo lo vedono meglio i bambini
che giocano a corrergli dietro per tanti metri

Certe volte ti avvisano con rumore
prima di arrivare
e la terra si trema
e gli animali si stanno zitti
certe volte ti avvisano con rumore

Vanno
vengono
ritornano
e magari si fermano tanti giorni
che non vedi più il sole e le stelle
e ti sembra di non conoscere più
il posto dove stai

Vanno
vengono
per una vera
mille sono finte
e si mettono li tra noi e il cielo
per lasciarci soltanto una voglia di pioggia
(Nuvole - Fabrizio De André e Mauro Pagani)

Ecco queste sono le mie nuvole, quelle vere e poetiche, le nuvole che portano  pioggia e ombre, che sono portate dal vento, che è spinto dal sole, che ci porta la vita.
Per le altre nuvole sono obsoleto, non ci credo e non ci casco, e le vedo esattamente come sono: un enorme raggiro economico, osteggiato da tutti i sostenitori del software libero e da non pochi altri e purtuttavìa viste come il nuovo cammino da seguire per il radioso futuro del popolo.
Uso la rete e so quanto conta nel mondo di oggi, ma ne diffido. Vorrei usarla e non farmi usare da lei. So che devo contraddirmi con le mie stesse parole scrivendo quello che scrivo, cioè scendo a compromessi, e faccio una scelta politica.  Non mi serve per lavoro. Ciò mi rende libero più di altri, e in questo caso non per merito mio. Vedo nel pensiero di Steve Jobs la summa di quello che non mi piace e non lo posso perdonare per la sua genialità distruttiva dell’individuo.
È stato tra i primi a pensare e poi a parlare di cloud. Ecco la sua colpa più grande.
I suoi prodotti sono di una bellezza e di una funzionalità innegabili, non lo accuso di questo. Vedo quanto costano, osservo che sono un sistema chiuso, penso che creino fedeli e non semplici utenti o clienti e che alimentino la corsa all’innovazione in modo più adatto ad uno studio di malattie mentali che non alla ricerca dell’innovazione informatica o a soddisfare reali bisogni. Questo però è ancora marketing. So pure delle scelte strategiche di delocalizzare la produzione, di sottopagare gli operai, di usare tutte le opzioni possibili per evitare regimi fiscali poco attenti alle necessità dell’azienda. Cose condannabili, certamente, ma talmente diffuse che non ne faccio uno colpa esclusiva del genio visionario ed innovatore, o dei suoi eredi.
È il cloud computing l’idea più letale partorita dalla sua mente, la più distruttiva, la più lesiva delle nostre ancora residue e poche proprietà in rete.
Rinunciare a possedere fisicamente una certa cosa ma delegarne il controllo ed il vero possesso ad altri è in linea con quanto avviene già in molti settori, ad iniziare dal concetto stesso di democrazia, ma l’affidare pure tutti i propri segreti come fotografie, ricordi,  lavoro, organizzazione privata e commerciale è assolutamente autolesionista. Ognuno in rete mette tante cose, che quindi, in modo legale o meno, possono essere raggiungibili da chiunque armato dei giusti strumenti e spinto da una sufficiente motivazione. Ma nessuno potrà mai leggere quanto scrivo su un mio quadernetto senza averlo fisicamente in mano o vedere le mie fotografie contenute in scatole. Allo stesso modo nessuno può leggere quanto scrivo su un computer non collegato alla rete e poi salvato su una mia memoria personale, magari in duplice copia, non si sa mai. E lo stesso vale per tutte le immagini digitali, o per lavori che ho svolto o intendo svolgere. Quello che metto in rete perché io lo decido, correndo qualche rischio, è una scelta mia. Quello che non voglio mettere in rete, che non ha  interesse per nessuno se non per me, come le foto del compleanno di mio figlio o del viaggio con la mia amante in quell’alberghetto romantico, non arriverà in rete, neppure su una fantomatica ed immateriale nuvola, localizzata non so bene né dove né da chi, in quali immense banche dati, senza la garanzia che sia sempre e solo di mia proprietà.
Posso ovviamente subire un furto, in casa, in viaggio o in auto, come tutti, ma questo è un altro discorso, credo. No, mi spiace. Resto in rete, ma toglietemi le nuvole di torno, per favore, fate che il vento le spazzi via e renda il cielo più terso.

…scendea Venere dall’Olimpo, e delle sue Ambrosie dita le tergeva il pianto
(Le Grazie, Foscolo)

                                                                                     Silvano C.©


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mercoledì 22 ottobre 2014

fatti i cazzi tuoi


Vedere le cose più piccole credo significhi  portarsi dentro una tara, un bisogno di mettere ordine abbastanza schizofrenico, perché delle stanze dove vivo tutto si potrebbe dire tranne che sono ordinate. Da ragazzino ho commesso piccoli furti in alcuni grandi magazzini. Era attirato dalle penne. Per fortuna ho capito presto che non valeva la pena rovinarsi la vita per simili idiozie, ed ho smesso. Il guardami intorno da allora è diventato quasi un modo di vivere. Ho istinti da voyeur, ovviamente, e diverse cose non mi sfuggono. Molte piccole cose, poche grandi cose, oppure anche quelle, ma con minori possibilità di capirne tutta la complessità.
Se un’auto è parcheggiata in un posto da mesi, e per caso capita di rendersene conto mentre attorno nessuno lo nota, non potrebbe essere un’auto rubata e abbandonata?
Come mai nessuno avvisa i proprietari di un supermercato in ristrutturazione (o chiuso) che i carrelli abbandonati fuori dall’ingresso possono far gola ad una banda che con un furgone, ed in pochi minuti, potrebbe rubarli?
Incontrare una coppia di ragazzi in giro col cane, vedere che lo lasciano espletare i suoi bisogni in strada, magari mimetizzati tra le foglie cadute, obbliga a dire qualcosa pur sapendo che la risposta sarà “Ma tu chi cazzo sei? Che ti interessa? Fatti i cazzi tuoi” ?
Passare in una strada centrale e vedere una grossa auto parcheggiata vicino ai giardini con un finestrino rotto e notare che attorno nessuno ci fa caso, non mi sembra normale, ad altri evidentemente sì.
Vedere l’intera città tappezzata da manifesti abusivi no tav distribuiti da circoli anarchici e poi leggere che una ridicola dichiarazione, sempre affidata ad un manifesto abusivo, spiega che gli anarchici non cercano visibilità forse la leggo solo io, neppure i vigili urbani, che passando impiegherebbero poco a staccare tutto quanto.
E forse è pure normale, tra i troppi rifiuti abbandonati in un’aera di sosta di una strada a grande percorrenza, trovare una cassaforte sventrata ed abbandonata. Sarà pure normale, ma a me non sembra.  

                                                                                     Silvano C.©


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lunedì 20 ottobre 2014

pagine bianche

talvolta le parole potrebbero essere sbagliate, ma la soluzione si trova sempre...

domenica 19 ottobre 2014

Chiedimi se sono felice


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Mica è un obbligo, ma puoi farlo se ti va.
Se poi lo fai sul serio, io non ti posso rispondere, non con una stessa risposta almeno. Cambio idea spessissimo, mi deprimo e un attimo dopo mi sembra di esagerare e quindi divento ottimista.
La felicità però fa male, distoglie energie dalla ricerca, appiattisce su quanto si è ottenuto, appaga. È una condizione desiderabile per sé ma deleteria per tutto quanto ci circonda, è una barriera che gli infelici non possono superare, o perché proprio li irrita o perché diventa esclusione attiva, fuga da chi continua a lamentarsi di tutto e sempre.
Felicità non la confondo però con serenità, con una forma calma di affrontare i problemi e di non farli pesare sugli altri, di apparire sorridenti anche nel dolore più profondo o nei dubbi più atroci.
E non la confondo neppure con chi volutamente porta allegria o distoglie pure gli altri dalle loro oscurità e li fa, almeno per una manciata di secondi, sembrare migliori.
Ma se sei felice sul serio, forse non hai capito il problema, il tuo prima di tutto. Cerca almeno l’autoironia, non sbattere in faccia a chi ti circonda la tua espressione distesa e aproblematica. Prova un po’ di pudore, quello vero, non quello scomodato quando si vuole nascondere la nudità del corpo o di certi comportamenti. Va bene pure quello, certo, ma è altra cosa, è molto più superficiale, epidermico, appunto.
La creatività spesso è legata ad infelicità. Non a depressione profonda che paralizza ogni azione ovviamente, anche se non tutti se ne fanno paralizzare. La mia infelicità ideale è quella presente come una nuvola che attraversa un cielo limpido di una giornata bella e piacevole.
È il vedere una persona che piange. È lo scoprire che certe cose sono finite per sempre. È prendere atto del nostro limite, e di tentare ugualmente di raggiungere una meta forse possibile. È il desiderare ancora, qualsiasi cosa. È il capire, in definitiva, che non tutti sono felici.
Se malgrado tutto tu sei felice, chieditelo tu perché lo sei, allora, non chiederlo a me.


                                                                                     Silvano C.©


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sabato 18 ottobre 2014

#Brustlina 37











Cla volta che Paoli l’ha cantà par mì e altar trì.

L’è pasà tant temp, na vita, ma aml’arcord com sal fuss adess.

An’jera mai andà in chal post, apena forad’Frara, a du pas dal grataziel, e a ieran propria in pochi, e lù a poch pass da mì.

 

 
Adess cla palazina l’am par abandunada, ma alora la jera un naitclub, par zent fina, propria cme mì.


                                                                                          Silvano C.©


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