mercoledì 31 dicembre 2014

Botto di Capodanno


Arturo, che da sempre porta il suo nome improbabile, ha sposato Deborah, dal nome altrettanto improbabile, ormai ventisette anni fa. L’unica figlia vive a Düsseldorf dove ha trovato un ragazzo tedesco col quale convive ormai da tempo. Si dedicano al catering nella società del padre di lui, e lei sembra non avere alcuna intenzione di tornare in Italia.
Arturo segue la vecchia madre, che vive lontana, e pure un fratello, con grossi problemi di salute, ma lo fa dimenticando Deborah, che inizia non sopportare più la situazione. Deborah ha sete di vita, dopo aver superato i mesi di paura in seguito ad un intervento chirurgico di emergenza al quale ha dovuto essere sottoposta dopo un incidente in auto. Sembrava dovesse rimanere paralizzata ma si è completamente ristabilita, o quasi, ed ora si lancia con entusiasmo in ogni attività o viaggio o nuove amicizie.
Il loro matrimonio è in crisi, ma per ora vanno avanti, e in qualche modo convivono. Per una serie di partenze di amici e contrattempi vari la notte di San Silvestro si ritrovano da soli e decidono di cenare a casa, visto che per prenotare in qualche locale, quando si rendono conto della situazione, è ormai troppo tardi.  
Poi andranno al cinema, per lo spettacolo di mezzanotte, cosa che non fanno da tanto tempo.
Verso le ventidue sono alla cassa del Multisala Odeon, chiedono due posti vicini per lo spettacolo che interessa loro, ma pare sia impossibile. Si guardano un po’ infastiditi perché non si aspettavano quel nuovo contrattempo, ma accettano i posti separati.
Entrano in sala appena finito lo spettacolo precedente, investiti dal caldo soffocante e dall’odore dei pop-corn, poi cercano la fila ed il numero loro assegnati, perché non è permesso sedersi liberamente, come ricorda un cartello all’ingresso della sala C.
Deborah, che deve il suo nome ad una attrice che piaceva tanto a sua madre, si ritrova seduta accanto ad un paio di ragazzi poco più che ventenni che semplicemente sembrano incollati tra loro, e le fanno un po’ tenerezza ed un po’ rabbia, pensando alla sua situazione. Arturo è seduto tre file più avanti, esattamente tra due enormi individui che sembrano gemelli. E si sente un po’ sperduto. Si gira indietro, per guardare come è sistemata Deborah, e vede che un posto accanto a lei è ancora libero, ma non è permesso spostarsi. Il legittimo possessore del biglietto con quella fila e quel numero può arrivare da un momento all’altro. 

Qui bisogna fare una breve parentesi. I posti assegnati in modo automatico dal programma che gestisce la sala verrebbero probabilmente distribuiti in modo più logico se a farlo fossero le addette alla cassa, ma questo il proprietario non lo ha voluto, ritenendo più adatto ai suoi scopi delegare al computer ogni cosa. E quella sera il software va in tilt, decidendo di testa sua di abbinare le persona a caso, rompendo amicizie, allontanando amanti e coniugi, compagni e gruppi. E nessuno si rende conto dell’idiozia alla quale viene sottoposto, perché il sistema dei posti assegnati in questo modo è ormai cosa accettata da tutti o quasi. Chi non accetta non va al cinema. O prendere o lasciare.

Poco prima che lo spettacolo inizi, durante l’ultima pubblicità, accanto a Deborah arriva un uomo, pure lui da solo, perché la sua compagna è stata confinata al capo opposto della sala. Si siede cercando di dare poco fastidio, si ripiega il giaccone e se lo sistema sulle ginocchia poco prima che inizino i titoli di testa del film.
Verso la metà del primo tempo lei non ricorda che accanto c’è quell’uomo, e non Arturo, e fa un commento a voce bassa. Subito si rende conto dell’errore, e chiede scusa, ricevendo in cambio un sorriso che la tranquillizza.
Quando la luce dell’intervallo si riaccende lei si scusa del disturbo, ma lui sorride ancora, e finiscono per iniziare a parlare del film, prima che il buio in sala torni di nuovo.
Alla fine dello spettacolo, quando mancano circa venti minuti a mezzanotte, Deborah si ritrova con Arturo verso l’uscita, e accanto a loro si è riunita pure la coppia di Martino (così si chiama l’uomo che si è seduto accanto a lei durante la proiezione) e Lucia.
Sembra che tutto poi venga deciso con naturalezza, indipendentemente dalle volontà dei singoli, e in quattro si ritrovano a cercare un locale aperto dove stappare una bottiglia e scambiarsi gli auguri di mezzanotte.
Il posto non è lontano, si siedono nell’unico spazio che trovano libero ed ordinano un brut, per festeggiare il Capodanno.
Arturo e Lucia sembrano un po’ tesi, ma in qualche modo accettano la situazione. Deborah e Martino invece sembrano divertirsi sul serio, e parlano del film, dei figli, del lavoro, delle vacanze, dei progetti per l’anno che viene come se non aspettassero altro. È Martino che quando portano la bottiglia nel secchiello del ghiaccio si offre di fare il botto al momento giusto, e manca davvero poco, una manciata di minuti.

E manca davvero poco, dopo quella strana serata di San Silvestro gestita da un software impazzito, perché Martino e Deborah non inizino a vedersi. Prima in modo quasi occasionale, e poi sempre più combinato e consapevole, sino al momento nel quale entrambi comunicano ai rispettivi coniugi che intendono separarsi, ed iniziare una nuova vita, con un’altra persona.

                                                                                            Silvano C.©


( La riproduzione è riservata ma non c'è nessun problema se si cita la fonte, grazie)

martedì 30 dicembre 2014

Geometria


Euclide
Ci sono due estremi, due punti, nella vita: la nascita e la morte.
Su nessuno dei due si può dire nulla di completo con assoluta certezza, e ogni giorno se ne parla, quasi ogni giorno almeno, o ci si pensa, e si danno come scontati, come assiomi indimostrabili e semplicemente da accettare per poi poter accettare tutto quello che c’è, tra questi due punti.
Per Euclide, prima di lui ed in seguito, per quanti si sono interessati di geometria, il punto è un ente fondamentale, indefinibile, o meglio, la definizione è: ciò che non ha parti. Tradotto in italiano significa che non ha dimensione, spessore, peso, ma esiste, ed ha una posizione. Per vederlo noi dobbiamo rappresentarlo, con una macchiolina di inchiostro su una pagina bianca, con un po’ di gesso su una lavagna nera, con un sassolino su una spiaggia, con un paletto su un terreno, con una piccola area su una superficie insomma, ben sapendo che non ha area.
Per poterne parlare dobbiamo per forza di cose rappresentarlo in modo sbagliato, e solo dopo spiegare che il concetto di punto è altro, supera le nostre capacità umane. E siamo solo al punto, siamo fermi ad uno dei concetti fondanti della matematica. Il seguito è pura invenzione umana, o è linguaggio divino, per alcuni. Ed il resto non è poco, direi, visto quello che l’applicazione pratica della scienza, cioè la tecnologia, sa fare.
Per la nascita e la morte siamo daccapo (siamo allo stesso punto, verrebbe da dire).
Quando inizia la vita in senso generale? Non è chiaro.
Quando inizia la vita sotto forma di genere umano? La scienza in questo caso fornisce qualche risposta, ma di tanto in tanto qualche nuovo ritrovamento fossile fa aggiornare i dati, e certezze di oggi che possiamo ritenere valide tra qualche centinaio di anno credo siano in pochi disposti a sottoscriverle. Sarebbe un azzardo che nessun studioso serio è disponibile a fare.
E quando inizia la vita individuale, cioè quella del singolo essere umano? Qui, malgrado le numerose prese di posizione di credenti e non credenti, si è in mezzo al guado. La vita inizia con l’incontro tra cellula uovo e spermatozoo, secondo una concezione abbastanza condivisa.  Ma prima la cellula uovo non era morta, e neppure lo spermatozoo, ovviamente; erano due cellule in qualche modo incomplete e pronte a realizzare una certa unione, a modificarsi fondendosi. Anche dando per accettata questa idea, tuttavia, la cosa presenta aspetti difficili da interpretare. Ad esempio cosa succede con i gemelli? Non parlo dei semplici gemelli eterozigoti, i cosiddetti falsi gemelli, che nascono ognuno da un ovulo fecondato da uno spermatozoo, che possono essere diversi per sesso e per caratteristiche fisiche. Sono semplicemente fratelli nati assieme, non gemelli.
I veri gemelli si ottengono solo da un unico ovulo fecondato da un unico spermatozoo, e per motivi non del tutto chiari, ad un certo momento, lo zigote (la prima cellula che si ottiene dall’incontro tra ovulo e spermatozoo) si sdoppia, ed ogni sua metà dà origine ad un nuovo e completo essere vivente, copia identica (o quasi) dell’altra metà.  
In questo caso quando inizia la vita individuale? Con la fecondazione o dopo la prima divisione? La risposta ora non mi interessa, mi basta che ti venga il dubbio. Anzi. Ogni risposta è pericolosa, perché porta con sé troppe conseguenze, coinvolge i grandi temi etici, divide le persone in base alle loro opinioni. E chi vuole a tutti i costi imporre una propria visione rischia l’integralismo e la sopraffazione di chi la vede diversamente.
Ma poi quando si può definire uomo (o donna) un essere vivente? Già lo zigote o l’organismo, seppure ancora immaturo, ma formato da più cellule, organi e sistemi? O solo quando nasce (data sul certificato anagrafico)? Oppure quando diventa in qualche modo autosufficiente, o maggiorenne? La risposta anche in questo caso è difficile, e comporta scelte personali.
Con la morte si ricasca in una problematica simile. È più dolorosa però, coinvolge sentimenti indefinibili se si è appena persa una persona cara, se la si ricorda come se fosse ancora tra noi, se si è lontani e si pensa, tornando, di poterla rivedere come se fosse sempre dove stava, ad aspettarci. Ma non c’è più, è morta.
Ed ecco allora che si parla di eutanasia, di vita dopo la morte, di dignità della vita umana, di inviolabilità della vita e di accanimento terapeutico. Ma in ogni caso ad un certo punto si muore, e comunque la si veda quel segmento di eternità chiamata vita si interrompe, si chiude. La retta in geometria è infinita, come sembra esserlo il tempo. Un segmento è dotato di estremi. La vita ha due estremi che sono nascita e morte, che non so definire, come non so definire la vita. Al massimo posso viverla, studiando o divertendomi con la geometria, perché la geometria è bella.     
                                                                                            Silvano C.©


( La riproduzione è riservata ma non c'è nessun problema se si cita la fonte, grazie)

L’ottimista


Antonio esce di casa ed incontra subito un volto per lui spiacevole, che gli porta alla mente ricordi tristi. Anche lui ha vissuto momenti difficili, come tutti, tuttavia sorride a quella persona, scambia poche parole con lei senza tentare di passare senza salutarla, e solo dopo prosegue per la sua strada.
Quella mattina in casa non aveva nulla di adatto, quindi entra in un locale poco lontano, dove fa una colazione come non si concedeva da tempo. Nel bar è costretto ad ascoltare le deliranti discussioni a voce altissima fra tre uomini che, accanto ad un tavolinetto, commentano le notizie del giornale snocciolando una sequenza ininterrotta di luoghi comuni, bestemmie, accuse a tutto ed a tutti. Uno di loro dopo poco saluta ed esce, ed i due rimasti, come se non aspettassero altro, iniziano a parlare di questo come di un fallito ed uno sfigato, che non ha mai concluso nulla nella vita.
Antonio tenta di abbassare il volume dell’audio, ma non gli riesce, ed è costretto a subire quei discorsi squallidi sino alla fine del suo caffè macchiato. Poi, senza perdere tempo a tentare di raggiungere un giornale da sfogliare, si reca alla cassa, dove una donna ancora giovane ma non più una ragazzina gli fa un sorriso, mentre paga. E questo lo risarcisce della sofferenza di prima, dell’aver dovuto ascoltare quegli uomini, ed esce un po’ più allegro.
Tenta un esperimento quando è in strada, anche se in realtà è solo una scelta consapevole, visto che sa benissimo quali sono gli effetti di certe azioni.
Mentre cammina cerca un’occasione giusta, un motivo per fare quanto ha in mente, ma un motivo che sembri casuale, non un semplice modo di invadere la vita privata altrui o di attaccare discorso, specialmente se si tratterà di una donna.
Cammina, diretto verso il centro dove deve andare per sbrigare una pratica fastidiosa, ma non trova quello che cerca, e sembra quasi costretto a rinunciare, quando finalmente l’occasione gli si presenta, servita come meglio non avrebbe potuto.
Accanto passano due in bicicletta, quasi lo sfiorano, forse volutamente gli sono passati tanto vicini, perché a volte chi va in bicicletta “fa il pelo” ai pedoni che stanno un po’ troppo fuori dai loro spazi. All’ultimo di loro però cade una piccola valigetta in similpelle e quello sembra non accorgersene.
Lui allora urla, richiama la loro attenzione, e mentre si china a raccogliere la valigetta l’uomo della coppia si gira indietro, con aria aggressiva, come se fosse pronto ad attaccare lite e non cercasse altro.
Antonio però sorride, e mostra la valigetta, tenendola alta, e gli urla che l’ha persa proprio in quel momento. Anche la donna della coppia adesso si ferma e si volta dalla sua parte, e poi entrambi tornano indietro.
Stavolta l’uomo smette la faccia da attaccabrighe, è costretto ad un’espressione gentile, e mentre si ferma accanto a lui, gli sorride a sua volta. Anche la donna, alla fine, quando li raggiunge e si ferma, inizia a sorridere perché ha capito cosa è successo.
Ora è tutto un ringraziare ed essere gentili, mentre solo pochi minuti prima le premesse potevano evolvere in una lite in mezzo alla strada, con inviti ad andare a quel paese oppure offese del tutto gratuite, per sfogare rabbie e problemi, ansie e bisogno di avere ciò che la vita non ha intenzione di concedere.
Nessuno dei tre, quel giorno, ha risolto uno solo dei problemi che portava dentro: il lavoro, la casa, il figlio, la salute, la macchina, quel debito, l’insoddisfazione, i tradimenti di ogni genere, il tempo che passa, la morte e la solitudine. Tutto è rimasto come prima, ma l’umore è cambiato, forse anche solo per una decina di minuti.  
                                                                                            Silvano C.©


( La riproduzione è riservata ma non c'è nessun problema se si cita la fonte, grazie)

sabato 27 dicembre 2014

Signorina Grandi Firme



“Signorina Grandi Firme
con le gonne sempre al vento
tu dirigi il movimento dell'amor”

Mica ci stavo in quegli anni, neppure ero nell’immaginazione credo, anche se su questo devo tacere.
Rivisti ora, senza respirare quell’aria pesante di persecuzione e di libertà politica ridotta al minimo, un po’ mi fanno sognare. Le illustrazioni di Boccasile poi mi hanno accompagnato nelle mie prime curiosità giovanili, quando nulla o quasi sapevo di Repubblica di Salò e di leggi razziali, ma ammiravo solo la bellezza delle donne che lui raffigurava, e non vedevo altro.
In questo periodo andavo sempre dal barbiere, non tanto per spuntare i capelli, visto che col freddo non mi infastidivano se erano un po’ più lunghi del dovuto, quanto piuttosto per avere il calendarietto profumato, quello mitico, nella bustina di carta trasparente, col fiocchetto, con i nuovi mesi dell’anno che stava per iniziare e, cosa più importante, con le donne, immortalate nelle prime immagini alla mia portata in grado di farmi sospettare misteri e sensualità. Erano segreti troppo lontani per poter essere svelati. Ma intanto erano tutti lì, nella mia tasca, e mi procuravano turbamenti e senso di festa.
Le allusioni erano il massimo, in quel periodo, ma quanto erano importanti, formative, ed anticipavano quello che poi sarei diventato, anche se allora non ne sapevo nulla.
A rivedere ora cosa nascondevano quelle immagini mi viene da sorridere, sicuramente il loro fascino e quello di certe donne è rimasto inalterato, ma tutto il resto è mutato. Non ho mai amato le “grandi firme”, ne sono stato escluso e a mia volta le ho rifiutate. Ancora oggi un capo firmato mi lascia del tutto indifferente, vivo con fastidio la moda intesa in un certo modo e rifiuto di farmi pubblicità di ciò che compro con i miei soldi. Oggi la marca è invasiva e volgare, si mostra invece di rimanere nell’ombra. La marca per la massa intendo, quella che si deve leggere comunque, non la qualità ad altissimo livello, che della marca ha minor bisogno, forse, o forse no.  
Lasciatemi solo sognare di gonne e gambe lunghe, solo di quelle, non chiedo altro.





                                                                                            Silvano C.©


( La riproduzione è riservata ma non c'è nessun problema se si cita la fonte, grazie)

mercoledì 24 dicembre 2014

Il bisogno di…


Lo scrittore è un uomo che più di chiunque altro ha difficoltà a scrivere.  
Thomas Mann

Andare a ruota libera e seguire i propri pensieri non è un lavoro, al massimo è un hobby, un’occupazione piacevole che non pesa, che si fa per sé stessi prima che per gli altri. Un lavoro è altra cosa, e solo raramente il lavoro coincide con questo piacere. Ciò avviene per pochi fortunati, non per la maggioranza dei comuni mortali. Andare a ruota libera significa dipingere un quadro, levigare un pezzetto di legno di ulivo stagionato annusandone il profumo, mettere a punto una moto, e sentire la vibrazione meccanica come una pulsazione viva.

E significa prima di tutto smettere appena non se ne sente più il desiderio o la necessità, perché non si è obbligati ma si vuole fare.



Significa perdere il filo di un discorso e pensare ai regali, alla tradizione ed alla formalità, al bisogno che abbiamo di farne e riceverne, perché siamo unici, ognuno di noi lo è, e meritiamo attenzione. Ecco perché diciamo “non fiori ma opere di bene” e poi siamo i primi a trasgredire questo invito. Oppure ci scherniamo a diciamo che non importa, ma restiamo delusi se invece anche solo di un piccolo pensiero riceviamo un bigliettino sul quale troviamo scritto: «Quest’anno ho deciso di dare a chi ha bisogno i soldi che spendevo per i regali agli amici ed ai parenti!».



Ma ritorno al tema dopo aver deviato, e di questo ti chiedo scusa. Del resto l’ho fatto perché non mi sento obbligato a seguire per forza un tema. Era una conferma che mi dovevo dare, non credi? Oramai ci ho preso l’abitudine. Se non riesco a mettere nero su bianco anche poche righe ogni giorno mi sembra di aver perso un’occasione. A volte mi capita, è ovvio. Gli impegni della vita non li scegliamo mai noi, non tutti almeno.



La programmazione, quella necessità di prevedere le azioni e l’attività era un’illusione anche quando ero tenuto a formalizzarla. Lo sapevo, lo sapevamo tutti, ma si redigeva e si continua a farlo, fingendo di poter essere padroni del proprio futuro o di quello altrui. Al massimo è un canovaccio, una base per una recita a soggetto, non un testo cristallizzato che deve essere semplicemente seguito esattamente com’è scritto. E poi quando mai un grande interprete segue alla lettera il testo o lo spartito? Lo interpreta, appunto, ci aggiunge la sua visione, la sua genialità. Alla fine di un concerto non conta solo l’autore della sinfonia, ma contano, e moltissimo, il maestro, e i solisti, e l’intera orchestra.



Forse in realtà le cose si complicano, devo dirtelo. Non è come ho scritto sino ad ora. La grande passione per raggiungere certi risultati richiede impegno, ed anche chi ama il proprio lavoro alla fine deve soffrire, deve far fatica, deve impegnarsi, deve fare esattamente alcune cose che preferirebbe evitare. La conclusione non è necessaria, ora. Anzi, è esattamente questa!


                                                                                            Silvano C.©


( La riproduzione è riservata ma non c'è nessun problema se si cita la fonte, grazie)

martedì 23 dicembre 2014

Signore e signori, ecco il cinema


prima un po’ di storia



Il fenomeno della PERSISTENZA RETINICA, scoperto nei primi decenni del 1800, consiste nel fatto che la retina (parte sensibile dell’occhio sulla quale si formano le immagini) conserva per un tempo brevissimo le immagini appena osservate, che quindi non scompaiono istantaneamente. In altre parole noi non vediamo continuamente tutto quello che avviene attorno a noi, ma solo a tratti, come se una luce si accendesse e spegnesse diverse volte ogni secondo, una sorta di luce stroboscopica. Quindi se ci vengono mostrate immagini (disegni o foto) in sequenza ed a sufficiente velocità avremo l’illusione di vederle in movimento.

TAUMATROPIO. Si diffonde in Inghilterra dall’anno 1826. Consiste in un dischetto di cartone rotante attorno al proprio asse, che consente di vedere le figure sulle due facce che si sovrappongono e diventano una sola.  In questo caso non si percepisce la figura in movimento.

FENACHISTOSCOPIO. Inventato dal belga Plateau attorno al 1832, è un disco di cartone con sottili fessure che permettono di vedere riflesse su uno specchio le figure riportate su una sua faccia.  Le figure sembrano muoversi.  È il principio del cinema.

ZOOTROPIO. Nel 1834 Horner costruisce un cilindro vuoto perforato che, ruotando, permette l’illusione di scoprire all’interno figure in movimento. Il suo funzionamento è simile a quello del fenachistoscopio.

Cinematografia.  Nasce con il Cinématographe dei fratelli Lumière a Parigi nel 1895, con le proiezioni su uno schermo per il pubblico, che si stupisce nel vedere come le immagini sembrano animarsi: treni che vengono verso gli spettatori, fumo delle sigarette che si alza……. All’inizio il cinema è muto. Solo in un secondo tempo vengono associati i suoni.
ANAMORFOSI. L’anamorfosi è un gioco di ottica molto diffuso nel Rinascimento, e pare che Leonardo da Vinci sia stato uno tra i primi a studiarlo.Consiste essenzialmente nella deformazione di immagini mediante specchi o lenti. In questo modo una figura deformata diventa irriconoscibile oppure una figura “strana”, se vista nel modo opportuno, diventa subito chiara. Alcuni lenti per la proiezione cinematografica sono anamorfiche.



Chiedo scusa di questa parentesi iniziale un po’ lunga, ma era necessaria, perché il cinema è una cosa complessa, dal punto di vista tecnico, ed il cinema moderno sicuramente ha fatto molti progressi rispetto alle prime idee che risalgono ad appena due secoli fa, e continua a farne, ogni giorno che passa.

A me però in realtà interessa non solo l’aspetto tecnico, affascinante ed occasione per fare esperienze anche con materiali poveri, ma mi piace soprattutto per il suo impatto come mezzo di comunicazione, e considero la televisione una sua diretta discentente.



La forza che le immagini in movimento hanno nel raccontare emozioni e storie è enorme, superano quella di un libro, e sono probabilmente una delle cause della lenta e progressiva morte del libro come lo conosciamo. Quello che un buon libro ci trasmette ancora non è eguagliato da quanto può fare un ottimo film, ma molti registi che hanno fatto la storia del cinema ci hanno detto e comunicato molto di più di quanto troppi libri, spesso inutili, hanno tentato di fare.



Entrare in una sala ed immergersi per un paio di ore in una vicenda, in un problema, nella vita di qualcuno che sino a poco prima non conoscevamo è un’esperienza unica, irripetibile con altre modalità. La televisione inizia ad eguagliare questi risultati, ma senza la magia della sala buia.

La stessa sala buia poi muta, negli anni, e diventa luogo dove consumare snack contenuti in sacchetti che fanno rumore, e perde parte della sua motivazione originale, ma per ora regge ancora, a fatica, il mutamento in atto.



E col cinema arrivano messaggi che tutti possono capire, anche chi non legge. Arriva la cultura, l’approfondimento, i divi ed i miti, ed arrivano anche i vizi, la sottocultura, i difetti che abbiamo e dovemmo perdere. Io amo il cinema. Forse perché al buio sono nascosto agli altri, forse perché mi immedesimo e non colgo quasi mai gli aspetti tecnici o la poetica che spinge il regista ad agire in un modo piuttosto che in un altro.

Al cinema mi piace tornare bambino, farmi rapire, non pensare all’inganno. Non voglio neppure ritornare al tempo dei cineforum con il dibattito alla fine. Ho partecipato ad alcuni, in quegli anni tristi e tuttavia pieni di speranze, ma non mi sono mai piaciuti. Perché dire al bambino che la Befana non esiste? Poi viene sempre il momento nel quale la rielaborazione critica del linguaggio cinematografico supera la resistenza, ed emerge. Però in quel caso sparisce la magia, e si vede il trucco dell’illusionista.

Guardare con gli occhi di un critico non è mai come ammirare con lo stupore di un bambino.
                                                                                            Silvano C.©


( La riproduzione è riservata ma non c'è nessun problema se si cita la fonte, grazie)

lunedì 22 dicembre 2014

Favola di un omino strano


Vieni, siediti, voglio raccontarti la storia del povero cittadino italiano che subisce lo strapotere della politica, dei disonesti nei posti che contano, delle brave persone che saprebbero benissimo cosa fare se fossero al governo invece di quella massa di ladri che non è neppure stata eletta e pretende di negare i nostri diritti chiamandoli privilegi e non rinuncia a propri privilegi, perché sono diritti.  
Se vuoi te la racconto sul serio questa favola, che ovviamente si fonda su fatti reali, ha una sua morale, la si può raccontare tante volte sino a quando i bambini ci crederanno come credono a Babbo Natale.
Ma se sai come la penso avrai già capito che a questa favola io non credo, e non te la voglio raccontare, ed invece ti racconto la storia di un omino strano, che guardava lo sporco sparso in giro, i rifiuti abbandonati e la furbizia che non ci lascia mai.

Dunque. In un paese chiamato Italia, alcuni anni fa, a qualche amministratore locale venne l’idea di migliorare la raccolta dei rifiuti, di differenziare il più possibile, di recuperare tutto quanto si poteva recuperare come carta, vetro, plastica, alluminio e così via. Si tentò pure di differenziare le cose pericolose ed ingombranti, e poco a poco le cose in effetti diedero i loro risultati. Con gli inevitabili piccoli problemi che ogni mutamento delle abitudini comporta i rifiuti iniziarono ad essere differenziati. La cosa che però cominciò ad evidenziarsi fu un fenomeno probabilmente non previsto o sottovalutato. Mentre le discariche diventavano più pulite ed ecologiche, le strade diventavano più sporche. Qualcuno iniziò a racchiudere in spazi protetti i propri rifiuti per evitare che il vicino o il maleducato che abitava in qualche altro quartiere buttasse nei suoi cassonetti tutte le cose che potevano creare problemi.
Sparirono dalle strade i raccoglitori pubblici per l’indifferenziata, che da quel momento si poteva smaltire solo usando gli appositi sacchetti dati in numero limitato ad ogni nucleo familiare.
E veniamo ai nostri giorni. Se occorrono altri sacchetti questi si possono acquistare in piccole confezioni da otto pezzi da trenta litri al prezzo non esattamente economico di 17 euro e 16 centesimi. In queste condizioni ora capisci bene cosa può succedere.
Molti tentano di non pagare per questi sacchetti e provano pure a raccogliere senza differenziare per evitare perdite di tempo o piccoli fastidi, ma poi non vogliono essere scoperti, quindi cercano di buttare i loro rifiuti ovunque tranne che a casa loro. Ad esempio li abbandonano in strada, li buttano nei cestini pubblici, li portano nei bidoni altrui, li gettano ovunque, anche ai lati delle strade o in spazi di sosta, quando nessuno li vede.  
Da un condominio qualcuno trova più comodo buttare la propria spazzatura nei bidoni del condominio vicino, che così dovrà farsi carico delle spese di pulizia e smaltimento della propria area, sino a quando anche quest’ultimo condominio, con i suoi abitanti ormai esasperati di essere diventati una discarica cittadina, si costruirà un’isola ecologica con pannelli metallici e chiusa a chiave. I rifiuti in cassaforte.
L’omino strano è intervenuto a portare ordine insomma, o forse solo a spostare altrove il problema, visto che neppure lui crede alla favola dei cittadini che improvvisamente diventano educati.
Lui in persona mi ha raccontato di una discussione avvenuta tra due residenti di questi condomini vicini. Il primo stava buttando un sacchetto non regolamentare in uno dei bidoni di pertinenza del secondo. Questo fa notare al primo che non è corretto usare quel tipo di sacchetto per quel bidone, e lo fa probabilmente un po’ innervosito, perché ogni giorno trova di tutto dentro e fuori i suoi bidoni.
-         Ma lei ce l’ha con me!-  dice il primo, e se ne va tranquillamente, sicuro del suo pieno diritto.
Quando finalmente anche il secondo condominio si dota di un piccolo posto protetto e chiuso con una serratura, ognuno dei suoi condomini riceve la chiave, e le cose iniziano a migliorare, in modo visibile. Finalmente l’isola ecologica, ora privata, è pulita o quasi.
I due si rivedono dopo mesi dalla loro prima discussione, e quello che ha appena ricevuto le chiavi chiede all’altro se a sua volta ha avuto le chiavi di quell’isola ecologica.
Ovviamente la risposta non può essere che negativa, dopo qualche tentativo di depistare il discorso.
-         Vede allora che quel giorno io avevo ragione? –
-         Sì, ma lei mi ha aggredito, mi ha trattato come se fossi un delinquente! -
La cosa si conclude con una stretta di mano e gli auguri di buone feste, ma l’omino strano che assiste alla scena sorride, e sa benissimo che è facile scaricare sugli altri le proprie responsabilità, specialmente quando si pretende di avere sempre una giustificazione per ogni propria azione, senza mai arrivare ad ammettere il proprio errore, neppure a capire che chi deve subire in modo ripetuto le ingiustizie ha almeno il diritto di essere, ogni tanto, almeno innervosito. 
Sicuramente a buttare i rifiuti in giro non sono i politici superpagati e approfittatori della povera gente, ma è esattamente la cosiddetta povera gente, cioè siamo tutti noi. Questa è la fine della storia, e se la vuoi capire è tutta qui.

                                                                                            Silvano C.©


( La riproduzione è riservata ma non c'è nessun problema se si cita la fonte, grazie)

Canone in re maggiore


Informativa sulla privacy
A volte capita che la felicità momentanea - uno squarcio sull’infinito - sia veicolata da un brano musicale, da una voce sublime, da una pagina scritta, da una scultura, da un dipinto o da un balletto. Succede qualcosa che sfugge alle interpretazioni ed alle parole, e sembra magia.
Chi sa manipolare la mente degli altri questi meccanismi li conosce molto bene, ma altrettanto bene, per fortuna, li sa anche il genio, l’artista, colui che generosamente segue soltanto sé stesso per donare al mondo l’impossibile, che resterà dopo la sua morte, per secoli, forse per millenni.
Tutti, in qualche modo, ambiremmo ad una sorta di immortalità, anche, tu, ammettilo. Non saremmo umani se non desiderassimo imitare gli dei, del resto. Una volta soddisfatti alcuni elementari bisogni primari spunta, anche se a livello inconscio, questa esigenza.
E allora possono essere i figli la motivazione, o i nostri padri, o il senso del dovere, oppure l’apparentemente opposto bisogno di ribellione, con la sola condizione, credo, che si riesca a mantenere legato l’egoismo, che non gli si permetta di sporcare ogni nostra azione.

Il pianto è sempre generoso, rimuove muri che abbiamo eretto dentro, li abbatte, anche se per breve tempo. Ci disarma facendoci un immenso regalo, cioè si fa perdonare, e ci solleva, in qualche modo, sopra la linea dell’orizzonte, sopra il mare, sopra le pianure, in cielo, attraversando le nuvole.

Cerco le parole che non saranno mai sufficienti, non sicuramente le mie. Ma non voglio neppure usare quelle di altri, non mi sembrerebbe giusto, e quindi mi abbandono ad una composizione musicale del periodo barocco, notissima, moderna nella sua struttura, mentre tu magari provi la stessa emozione in altre situazioni, ma so che la provi.  
La mente si libera, si svuota. Si confonde finalmente, e si fonde. Dura solo qualche minuto, qualche ora? Va bene anche così, per un istante di infinito.


                                                                                            Silvano C.©


( La riproduzione è riservata ma non c'è nessun problema se si cita la fonte, grazie)

domenica 21 dicembre 2014

Christmas song


Confesso che per quasi tutta la vita, salvo momenti particolari, ho vissuto il periodo natalizio con un vago senso di oppressione legato a mille diverse emozioni che pescano nella mia storia personale, nell’educazione, nella tradizione, nel ricordo e nella nostalgia, nel senso di inadeguatezza e in tanto altro che solo per elencarlo in modo completo dovrei proseguire troppo a lungo.
Questo periodo scopre nervi che solitamente so proteggere, mi espone a confronti, fa emergere egoismo ammantato di bontà, mi fa spiare gli altri più del solito.
Da quasi sempre sono stato bombardato da falsi messaggi mercantili mescolati ad altri meno economici e più spirituali, non per questo però pienamente condivisi. Non posso spiegare tutto con la ragione, quindi mi fermo prima di spingermi troppo avanti, ma ugualmente non so trovare una motivazione se non dentro, lontano da quello che ascolto e che mi vorrebbe convincere.
La complessità non si può ridurre ad un buon sentimento, il dubbio rimane, sempre.
E così una risata lontana evoca altre risate. Una luce accesa dietro un vetro, la sera, fa immaginare famiglie e bambini, anziani e cose segrete. Il mio posto è qui, il mio tempo è ora, quello che ho avuto e non ho perso o disperso lo possiedo ancora, ed il resto conta abbastanza poco.
Ogni momento si presta a bilanci, a valutare entrate ed uscite, come se la vita fosse una partita doppia. Il fatto è che non so se alla fine sarò in attivo o in passivo.
Tuttavia probabilmente non è solo in questo periodo che occorre fingere, almeno per un po’, ma lo si deve fare sempre. Non fingere per ingannare o ingannarsi, ovviamente, ma per non dare inutilmente altro dolore agli altri, visto che il dolore non manca, è una merce molto comune.
Potrei quindi fingere di dire buone feste, o fingere auguri simili, e dentro di me sapere che un po’ sono anche veri, questi auguri, non sono solo finzione, ed io non devo vendere nulla, solo continuare a vivere, come tutti, accettando quello che arriverà domani.

                                                                                            Silvano C.©


( La riproduzione è riservata ma non c'è nessun problema se si cita la fonte, grazie)

sabato 20 dicembre 2014

Uomo euro zero


Informativa sulla privacy
Se io ho un po’ di soldi che qualcun altro meno fortunato di me non possiede e mi permetto di cambiare una piccola e vecchia auto che ha oltre quattordici anni di vita con una nuova, di cilindrata medio bassa ma con 5 porte invece di 3, con motorizzazione euro sei, molto più potente e, per mia fortuna, pure più sicura ed ecologica perché dotata di soluzioni tecniche moderne posso dire di essere soddisfatto, no?
Lo ammetto: in questo sono fortunato (anche se non faccio pesare, e ne avrei diritto, le molte altre sfortune che mi toccano e che per ora non voglio ricordare).
Poi vado all’assicurazione, mi informo, e scopro che l’auto che ho scelto, e che costa di più di una della stessa marca e dello stesso modello ma con sole 3 porte, paga meno di premio annuale. Stupito ne chiedo spiegazione, e la risposta è che chi compra auto a 3 porte si prevede abbia una guida sportiva e quindi potenzialmente più pericolosa di chi acquista auto a 5 porte.
La cosa per il momento mi sembra strana, ma va bene.
Al momento del passaggio effettivo dell’assicurazione dalla vecchia alla nuova auto mi comunicano che pago ancora meno per il fatto che la nuova automobile è ritenuta più sicura della precedente, e quindi, io che ho i soldi per comprarmela, posso pure risparmiare da questo punto di vista. Ovviamente chi non ha i soldi per cambiare auto deve pagare un premio più alto.
Pochi giorni dopo, anche se non avrei alcun motivo di farlo tanto presto, vado a pagare la tassa automobilistica, il cosiddetto bollo, presso una sede ACI.
Qui apprendo che in regione, per incentivare la sostituzione di vecchi veicoli con altri più ecologici, le vetture con motorizzazioni euro cinque ed euro sei hanno uno sconto del 20% rispetto alle motorizzazioni precedenti.
A questo punto, lo ammetto, invece di essere soddisfatto per i risparmi che posso ottenere, mi sale una rabbia sorda e, forse, abbastanza irrazionale.
Se chi ne ha le possibilità economiche ottiene tante facilitazioni e chi invece è in difficoltà viene ulteriormente penalizzato che razza di mondo stiamo creando? Dove sono finite la solidarietà, l’equità, il rispetto per chi è meno fortunato, la redistribuzione del reddito, la giustizia, o più semplicemente, il risparmio?  Dobbiamo consumare in pochi anni un bene costoso come l’auto e rottamarlo prestissimo altrimenti veniamo penalizzati con le spese? E chi non può permettersi l’auto nuova ogni quattro anni è costretto ad usare modelli superati e pagare più tasse? Ma quanto costa tutta questa pazzia alla società ed all’intero pianeta?  Prima costruire e poi buttare un’auto (che potrebbe ancora funzionare) invece di mantenerla il maggior tempo possibile in circolazione non è un'operazione sostenibile nè ecologica.
Mi sento molto uomo euro zero, e non chiedermi perché.


                                                                                   Silvano C.©


( La riproduzione è riservata ma non c'è nessun problema se si cita la fonte, grazie)

Il presepe di luce


A chi arriva a Rovereto dal casello sud dell’autostrada A22, cioè percorrendo la Strada Statale 240, la Via del Garda, dopo le 17, in questi giorni, subito dopo la rotatoria che porta alla zona industriale, si presenta uno spettacolo inconsueto.
È un presepe moderno, all’aperto, costruito su sagome metalliche sottili e che non si nota molto durante il giorno ma che, con le prime ombre della sera, diventa uno spettacolo da vedere e prende vita, grazie alle tantissime luci colorate che lo rendono visibile a chi passa sulla strada.
È da alcuni anni che si può ammirare, e credo venga aggiunto qualche particolare ad ogni nuova installazione.
Un pinguino, un alce, un bue, tante persone a formare una specie di girotondo, alberi di ogni clima, una giraffa, una capanna stilizzata ed una stella cometa che porta dentro di sé la Terra. E poi un elefante, tante altre stelle, la Luna, un dromedario…
Io volevo rendere accessibili le immagini di questo presepe di luce anche a chi non può passare a Rovereto, durante queste festività, e spero di esserci riuscito.




                                                                                         

                                                                                           Silvano C.©


( La riproduzione è riservata ma non c'è nessun problema se si cita la fonte, grazie)

giovedì 18 dicembre 2014

La casa nella nebbia



C’era un periodo nel quale la nebbia scendeva per giorni e giorni sulla grande pianura. Ogni cosa spariva, i rumori si attenuavano, le luci accese delle case affievolivano e si spegnevano appena ci si allontanava anche di poco.
Perdersi in quelle condizioni poteva capitare in ogni momento, anche ai più esperti, pure a chi quelle strade e quei viottoli li conosceva bene, perché lì ci era nato e da lì non si era mai allontanato.
Si raccontano cose mitiche che sarebbero successe in giorni di visibilità quasi nulla, quando, anche di giorno, la vista non permetteva di distinguere le cose oltre i cinque o sei metri se non come ombre confuse. Ecco quindi gli scontri di persone in bicicletta, ad esempio, poiché tutti si cercava di tenere il centro della strada, quello con la riga segnata, evitando i bordi dove i fossi aspettavano tranquilli gli incauti.
Le auto poi, che magicamente diminuivano perché solo chi era costretto ad usarle si azzardava a muoversi con loro, a volte procedevano quasi più lentamente di chi camminava a piedi. E l’auto che stava in coda semplicemente seguiva quella che procedeva davanti, esattamente come certe formiche, che avvertono il percorso segnato, o come le processionarie, in perfetta fila indiana, una dietro l’altra. In questo modo un automobilista, quasi disperato, iniziò a seguire un vecchio in bicicletta che sembrava conoscere bene il posto, e procedeva sicuro, per fortuna con la lucetta sul parafango posteriore accesa. E quelli che seguivano lui ovviamente tutti in colonna, dietro il ciclista, sino al suo cortile, quando, finalmente arrivato, lui appoggiò la bicicletta al muro di casa e, stupito, intravide un lungo serpente di auto con i fari accesi che lo aveva seguito sin lì. Poi non si sa cosa sia successo, e come quell’ingorgo si sia risolto. Forse il ciclista, impietosito, è risalito in bicicletta per far tornare sulla strada principale i suoi motorizzati seguaci.

Nella nebbia poi gli amori clandestini trovavano un alleato, e ne traevano vantaggio pure i ragazzini che volevano fumare di nascosto dai genitori. Impossibile non amare la nebbia, per chi era nato in pianura, anche se la nebbia poi ogni tanto provocava tragedie, come incidenti mortali che si sarebbero evitati facilmente con una maggior visibilità e, probabilmente, con una cosciente prudenza.

Con la nebbia tutto spariva, come se fosse inghiottito nel nulla, ma, ogni tanto, qualche cosa appariva, all’improvviso, non si sa bene per quale motivo, o, per essere più precisi, non si sa bene dove. È chiaro che la nebbia non può fare giochi di prestigio, non fa sparire conigli per far apparire colombe. La nebbia è un fenomeno atmosferico, ha una sua spiegazione scientifica abbastanza condivisa tra gli scienziati, e non sono noti fenomeni paranormali legati a questa umidità condensata in piccolissime goccioline sospese. Eppure, una volta, girando non troppo lontano da casa in auto perché ero stato obbligato ad usarla, mi ritrovai lungo una strada che pensavo di conoscere e, alla curva che mi si presentò puntuale dove mi aspettavo di trovarla, seguii l’asfalto sino a ritrovarmi davanti due enormi ombre, ai lati della carreggiata. Erano due pioppi, che non ricordavo di aver mai visto, e proseguii ancora un po’, col dubbio di essermi perso.
In effetti mi trovai dopo poco un cancello a sbarrare la strada, e a quel punto, perplesso, scesi dall’auto e mi guardai in giro. Attorno non si sentiva nessun rumore. Mi ero evidentemente infilato in una specie di vicolo cieco, ed ora non sapevo dove mi trovavo. Per fortuna non ci misi molto ad intravedere le luci di una grande casa colonica, poco distante, e, dopo aver chiuso l’auto, scostai il cancello ed entrai nel piccolo cortile con l’intenzione di chiedere informazioni. La ghiaia sotto i piedi produceva l’unico rumore percepibile e finalmente arrivai alla porta e bussai, visto che non trovai alcun campanello.
Qualche rumore di porte poi e di passi, infine la porta si aprì, senza che nessuno chiedesse chi ero.
Davanti a me una signora con l’aria che mi sembrò incuriosita, a pochi passi da lei un uomo, e attorno a loro tre ragazzini, tutti abbastanza piccoli. Il più grande avrà avuto sicuramente meno di dieci anni.
Sembrava che avessi interrotto un momento di gioco, ma non mi parevano indispettiti per questo, e la donna mi chiese cosa desideravo.
Spiegai che mi ero perso, che non so come ero arrivato davanti alla loro casa ed avevo pensato di chiedere informazioni.
Loro in realtà sembrava che sapessero esattamente cosa facevo lì, e mi spiegarono senza difficoltà, tutti assieme, anche il più piccolo, ovviamente a modo suo, come tornare sui miei passi e ritrovare la strada principale. Quasi come se fossi io a fare un favore a loro, non loro a me. Mi invitarono persino ad entrare per assaggiare una fetta di torta di mele che la signora aveva da poco sfornato. Nell’aria, in effetti, si avvertiva un piacevole odore che confermava le parole della donna. Io però ringraziai, spiegai che ero in ritardo e che non volevo disturbare. Loro sembrarono delusi, anche i bambini, ma non insistettero, e mi salutarono sulla soglia mentre io tornavo indietro, verso l’auto, e poi, con le loro indicazioni, ritrovai in poco tempo la statale.

Fu solo il giorno dopo, quando raccontai della mia avventura nella nebbia ad un paio di amici in piazza che un vecchio del paese iniziò a guardarmi un po’ stupito. Aveva sentito quello che avevo detto, e rimase muto, per un po’, nell’attesa che io finissi di parlare e infine mi allontanassi. Mi richiamò, ma senza che nessun altro mi sentisse, e si fece spiegare meglio com’era quella grande casa colonica e volle che descrivessi bene quelle persone che mi avevano accolto e dato le informazioni.
-         Hai incontrato i Cestoldi, perdendoti nella nebbia. – mi disse il vecchio – Vivevano in una grande casa colonica, abbastanza lontana dal paese, e durante l’ultimo anno della guerra, in una notte di nebbia fortissima, un bombardiere probabilmente americano ha fatto cadere esattamente sulla casa una grossa bomba. Sono morti tutti. Il padre, la madre ed i tre bambini, molto piccoli. Nessuno ha mai capito se è stato un errore dovuto a informazioni sbagliate arrivate all’aviazione alleata o ad una fatalità causata da chissà quale motivo. La casa è stata completamente rasa al suolo. Ora al suo posto c’è solo la campagna. -

Sinceramente non ho creduto alla storia, e quando finalmente mi sono allontanato dal vecchio ho pensato che non ci stava più con la testa.
Alla prima occasione, col sole e di giorno, ho tentato di ritrovare quella grande casa colonica, e ogni tanto, anche recentemente, ho provato a ripercorrere quelle strade. Senza la nebbia però non l’ho più vista. E quando mi capita di chiedere informazioni a persone che mi sembra abitino in quella zona nessuno mi sa dire nulla in proposito. Ora vedo case a schiera, un centro commerciale, una distesa coltivata con colture stagionali e tralicci per le telecomunicazioni, ma nessuna casa come quella che ricordo di aver visto quel giorno.

                                                                                            Silvano C.©


( La riproduzione è riservata ma non c'è nessun problema se si cita la fonte, grazie)

sabato 13 dicembre 2014

Ezechiele, la bambina ed il topolino

Informativa sulla privacy


Durante le sere di dicembre, nei giorni dell’avvento, in un piccolo paesino racchiuso tra i monti, lontano dalle grandi vie di comunicazione ma orgogliosamente consapevole del suo nobile passato, in alcune famiglie dove ci sono bambini ai quali raccontare storie, ritornano, grazie ai vecchi, le leggende, le favole, gli antichi personaggi ed i luoghi entrati nel comune passato.
Una di queste storie è quella della bambina dal nome di fiore, del suo gatto Ezechiele e del topino che trovò rifugio tra le mura di una piccola casa poco prima che iniziasse l’estate.
Come si siano svolti esattamente i fatti non è sicuro, perché in ogni famiglia se ne tramandano interpretazioni un po’ diverse. Per alcuni non fu una bambina la vera protagonista, ma la sua mamma, che poi in seguito si accordò con la figlia perché se ne prendesse la responsabilità per paura di essere sgridata dal marito.
Alcuni raccontano che fu l’intera famiglia a volere che le cose andassero in quel modo, e che solo per la gente del paese poi inventasse la versione della loro bambina come unica ad avere quell’idea. In ogni caso, alla fine, il risultato non cambia. Si tratta solo di preferire una versione o l’altra, senza che questo tocchi la sostanza della storia (sempre ammesso, ovviamente, che qualche cosa di vero sia avvenuto ad originarla).
Io qui mi attengo a quanto raccontano i più, e te lo voglio raccontare, dopo averlo saputo per puro caso pure io.

Una bambina dal nome di fiore ed il suo pigro gatto Ezechiele vivevano in una casa non molto grande ma dotata di ogni comodità. C’era una bella cucina grande, con un camino che accendevano in certe sere d’inverno, al posto della stufa che solitamente usavano anche per cucinare. C’era una stanza con i mobili belli, pesanti, di legno scuro, tenuti sempre lucidi dalla mamma della bambina. Poi c’era un piccolo ripostiglio pieno di tante cose, e che funzionava anche da dispensa, fresco in estate e mai gelato in inverno. Infine un piccolo bagno era la quarta stanzetta a pianterreno. Al primo piano poi ci stavano tre camere da letto ed un altro piccolo bagno, e si potevano raggiungere da una scala in legno che dall’ingesso saliva in alto. Davanti alla casa un piccolo giardino con una parte trasformata in orto, e dietro la legnaia, con un minuscolo deposito ed uno spazio anche per i conigli e le galline. Non mancava poi la cantina, e per scendere occorreva andare dietro la scala che portava al primo piano, dove si apriva una piccola porticina.
L’unica cosa che mancava era una vera soffitta. In realtà non è che mancasse, c’era anche quella, ma non era facilmente raggiungibile. La botola per salirvi era stretta, la scala a pioli non molto sicura e neppure molto pratica, e vi si andava una volta all’anno soltanto, quando si dovevano pulire i camini.
La bambina col nome di fiore durante l’estate giocava con le amiche, oppure col gatto, che però non sempre si faceva trovare. Aveva le sue cose da fare. Cose da gatto. Cacciare piccoli uccellini, lucertole, topi, e cercare anche le gatte del paese, oppure gli altri gatti, con i quali azzuffarsi. Insomma, tutti avevano i loro impegni. Anche i genitori della bambina, ed i nonni, che lavoravano nei boschi, nella segheria o nel caseificio.
La bambina scendeva spesso in cantina. Non aveva paura delle ombre che ci stavano. Le piaceva rovistare tra le vecchie cose, cercare fotografie, giocattoli rotti, oppure mettere in ordine i barattoli delle conserve e del miele, oppure le bottiglie del vino. Appesi in alto ci stavano pure alcuni salami ed un pezzetto di lardo affumicato, e sugli scaffali anche un po’ dei frutti raccolti e conservati in quel posto perché sicuramente era il più adatto di tutta la casa.
Con lei spesso scendeva pure il gatto Ezechiele, che annusava dappertutto, oppure si affilava le unghie sui pilastri in legno parzialmente murati nelle pareti della cantina.
Un giorno, per caso, notò le tracce di un passaggio imprevisto. Una mela era stata addentata e mangiata, in parte, e sicuramente il gatto non era stato.
La bambina dal nome di fiore intuì subito che si trattava di un topolino, ma rimase stupita della cosa. I topi solitamente stavano alla larga da quel posto dove passava spesso Ezechiele. Non era prudente per loro entrarci. Un pomeriggio, tre giorni dopo aver fatto la scoperta, scese con un pezzetto di formaggio in cantina, facendo attenzione che Ezechiele non la seguisse e chiudendo bene la porta alle sue spalle. Appoggiò il formaggio in centro alla stanza, e si nascose in un angolo, con lo sguardo attento e fissato solo sul pezzetto di cibo. Rimase ferma, quasi senza respirare per tantissimo tempo, ma non successe nulla. Delusa lasciò il formaggio, e visto che si era fatto tardi salì e si richiuse la porta alle spalle.
Il giorno dopo scese, ed il formaggio era sparito. Allegra andò in cucina, prese un altro pezzetto di formaggio e scese di nuovo. Rimise nello stesso posto il formaggio e si sedette ancora, nascosta, in attesa. Niente. Neppure quel giorno vide nulla, e tornò su delusa.
Il terzo giorno e quelli seguenti ancora: il formaggio spariva, lei ne portava un nuovo pezzetto, si appostava di guardia, non vedeva nulla, e usciva dalla cantina.
Dopo una decina di giorni avvenne. Lei si appostò, ormai più per abitudine che per la speranza di un incontro col misterioso ospite, e per i primi momenti non successe nulla. Poi, non si sa da dove fosse spuntato, un piccolo topolino apparve al centro della stanza, si avvicinò furtivo al formaggio, lo addentò e si allontanò, senza fretta, diretto verso un angolo scuro della cantina. Lei aspettò almeno un minuto. Poi si alzò, e senza far rumore si avvicinò al punto dove era scomparso il topolino. C’era una pila di casse di legno, ma tra queste e la parete una piccola fessura.

Il giorno dopo scese ancora, col formaggio, e lo mise esattamente vicino al passaggio dal quale avrebbe dovuto spuntare il topolino. Ma poi non si allontanò. Si mise seduta, in silenzio, a poca distanza. Il topolino però non gradiva la sua presenza, e non si fece vedere. E lo stesso per molti e molti giorni. Finalmente, non si sa per quale ragione, lui si decise a fidarsi di lei, e spuntò da dietro la pila di cassette a meno di un metro di distanza, si prese il suo formaggio e se ne andò, non senza averla prima guardata con la stessa curiosità con la quale lei guardava lui. Da allora ogni giorno si avvicinarono sempre di più, sino a quando il topolino iniziò a prendere il formaggio direttamente dalle dita della bambina dal nome di fiore.

Ora però c’era un problema, anzi, diversi problemi: Ezechiele il gatto, i genitori ed i nonni. Nessuno voleva topi in casa. Sporcano. Rovinano le cose. Mangiano le provviste. Vanno eliminati.
La bambina cominciò a tentare di convincere il gatto, che riteneva il più pericoloso, del fatto che un topolino poteva benissimo stare pure lui in famiglia. Ezechiele non ne capì il motivo, ma da un giorno all’altro si trovò il suo piattino accanto alla stufa sempre pieno di ogni golosità, e cominciò a provare meno voglia di andare a caccia di uccellini e lucertole e topi. Aveva sempre la pancia piena. E iniziò a diventare un po’ più pigro.
Quando venne il momento giusto la bambina cominciò a scendere in cantina lasciando aperta la porticina. I suoi incontri col topolino continuarono, e finalmente Ezechiele, pigramente, si affacciò in alto sulla scale e iniziò a scendere. Forse la pancia piena, forse la sua amica che stava tranquilla accanto a quel piccolo esserino, forse altro ancora, sta di fatto che il gatto guardò il topo, e non si mosse. E pure il topolino, vedendo quel gattone che stava tranquillo e lontano, non si spaventò. Prese la sua porzione di formaggio e se la mangiò senza fuggire.
Passò un tempo indefinibile, forse tantissimo. Il gatto iniziò, incuriosito, ad avvicinarsi, ma senza alcuna fame a sollecitargli di iniziare la caccia. Ed il topolino valutò che la bambina era molto più grande del gatto, e non si spaventò mai tanto da farlo fuggire se non per pochi attimi, prima di riprendere coraggio.

Solo molto tempo dopo, quando la prima neve ormai stava per scendere, si scoprì che il topolino era, in realtà, una topolina. Il gatto Ezechiele divenne un amico della topolina, ma rimase sempre a debita distanza, e riuscì a vederla solo quando era presente pure la bambina. Lei si fidava del suo gattone, ma non sino al punto di lasciarli soli. E poi anche la famiglia scoprì finalmente che in casa erano arrivato nuovi piccoli,  ma la felicità della bambina col nome di fiore e la tranquillità di Ezechiele nell’osservare ogni cosa lasciò tutti senza parole, e senza alcuna voglia di cacciare la topolina con la sua nidiata di piccoli. Fu solo con la primavera successiva che lei decise di andarsene, con i figli ormai cresciuti, a cercare un altro posto.
La bambina dal nome di fiore ed il suo pigro gatto Ezechiele ripresero a vivere come prima, dopo che la topolina se ne fu andata. Ogni tanto però se la sognarono ancora, e neppure il gattone si pentì mai di averla accolta nella sua casa della quale era profondamente geloso. Geloso con tutti, ma con qualche eccezione.

                                                                                            Silvano C.©


( La riproduzione è riservata ma non c'è nessun problema se si cita la fonte, grazie)

Post più popolari di sempre

Post più popolari nell'ultimo anno

Post più popolari nell'ultimo mese

Post più popolari nell'ultima settimana