sabato 30 novembre 2013

Solidarietà e nuovi poveri


Capita spesso di trovare chi chiede 1 euro, magari quello che si infila nel carrello, fuori dal supermercato tradizionale o dal discount, dove magari si va per risparmiare. Spesso sono sempre quelli che occupano le stesse zone, non di rado organizzati in gruppi, e sono giovani, sani, in grado di svolgere anche lavori pesanti, quelli che i più fortunati rifiutano, ma che, al livello più basso della gerarchia sociale ed economica, sono sempre liberi.
Si trovano mendicanti fuori da chiese, ospedali e cimiteri. Poveri che su un biglietto scritto in italiano stentato spiegano di avere fame, figli da sfamare, e che sono senza lavoro.
In questi anni di crisi sempre più forte, ma in condizioni neppure lontanamente paragonabili a quelle che hanno vissuto i nostri bisnonni, nonni e genitori nel periodo bellico, è facile credere che tutti questi siano nuovi poveri, persone che effettivamente hanno bisogno, ma la realtà è talvolta diversa.
Recentemente a Bolzano l’amministrazione ha messo in atto una vera lotta contro questa nuova figura professionale: il mendicante. Una stima arrotonda a circa 100 euro l’incasso giornaliero di queste persone, probabilmente controllate dalla malavita, trattate forse come schiavi. 
A Rovereto in questi giorni un mendicante molesto è stato fermato dalla Polizia e trovato con 115 euro in tasca, probabile frutto della sua attività, e nei suoi confronti è stato emesso un provvedimento di espulsione.


Chi ha veramente bisogno quasi mai arriva ad elemosinare, ma si rivolge ad associazioni, enti pubblici e privati, volontariato laico o religioso. Le famiglie sulla soglia della povertà sono sempre di più ed oggi, per aiutarle, è stata anche la giornata della colletta alimentare. Una responsabile mi ha spiegato che sono oltre 1700 i nuclei sotto il livello di sopravvivenza, nel solo Trentino, terra ricca al confronto di altre realtà italiane. Ma non sono questi che chiedono la moneta del carrello.
Neppure gli imprenditori o i disoccupati che si suicidano chiedono l’elemosina, ma conservano quella dignità che poi li spinge al gesto tragico.
È la nostra coscienza che mettiamo a tacere, dando questi pochi spiccioli, invece di fare volontariato serio o donare una spesa importante o andare in banca per fare un bonifico a chi sappiamo che potrà usare al meglio il nostro denaro.
Del resto non so che pensare, restando nel campo del volontariato, di chi si inventa una onlus di solidarietà e da questa ci ricava da vivere per sé e famiglia, facendo del volontariato il suo primo lavoro. In Trentino succede pure questo. 

E non so neppure che dire, per allargare un po' il discorso, delle iniziative di donare 2 o 5 euro per aiutare la Sardegna in questi giorni, o l’Emilia un anno e mezzo fa, o la ricerca. Non so, ma preferisco, anche in questo caso, un’operazione bancaria, donando una somma commisurata alle proprie possibilità, e non 2 miseri euro.
Un’ultima considerazione. Vorrei che non servisse la carità e la solidarietà in questa forma, ma che fosse lo Stato, con i propri mezzi e la propria organizzazione, con criteri di giustizia trasparenti, ad aiutare le persone in difficoltà, riducendo sempre più il peso delle organizzazioni religiose o di volontariato. Questo tuttavia richiederebbe due cose:
1       - Una seria politica di redistribuzione del reddito.
2       – Una lotta altrettanto seria all’evasione fiscale.
Se qualcuno è troppo ricco, senza assolutamente discutere delle sue capacità o della sua fortuna personale, da qualche parte ha creato molti troppo poveri.

                                                                      Silvano C.©


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venerdì 29 novembre 2013

Metodi educativi


Ricordo i suoi metodi forse oggi discutibili, per certi versi efficaci e per altri invece no.
I due soli episodi che racconterò credo che basteranno per capire di cosa parlo.



Da piccolo, quando con la mia famiglia abitavamo a Porotto, si riscaldava una sola stanza con la cucina economica. Il camino lo abbiamo avuto solo nella mia prima casa, quella di Cassana, e poi è rimasto un ricordo. Va da sé che la cucina economica era al centro dei mie interessi, quando stavo nelle vicinanze, e mi piaceva vedere come si alimentava, come bruciavano i piccoli tronchi, o il carbone, o quello che capitava. Io amavo gettare nel fuoco, attraverso il portello, quello che mi capitava, vedendo l’effetto che faceva. Una volta per non so quale motivo mi era venuto il dubbio che il bordo della piastra non fosse caldo, ed allora, mentre mio nonno mi guardava, io ho appoggiato il dito, ovviamente scottandomi e ritirandolo all’istante. Avevo imparato che il fuoco è pericoloso, secondo lui. In realtà avevo solo appreso che bisogna evitare i rischi eccessivi, e neppure bene, perché negli anni che seguirono il fuoco continuò ad attirarmi in molte sue forme, trasformandomi a volte in piccolo incendiario  ed altre in sperimentatore pirotecnico. Sino a non molti anni fa poi sono stato sempre attirato dai botti di capodanno, ed ho smesso quando ho capito che, oltre ad essere comunque pericolosi, anche quelli più semplici e legali, creano enormi fastidi agli animali, che non capiscono cosa succede, e quindi si spaventano a morte.
 
Mio nonno ha sicuramente avuto maggior successo, da giovane, quando è riuscito a controllare la golosità di mia madre che, da piccola, pare amasse moltissimo la marmellata. La sua cura è stata memorabile, almeno per lei. Ha comprato un mastellino di legno, come usava a quei tempi, di marmellata di albicocche, ed ha lasciato che lei lo mangiasse sino a quando non si fosse tolta la voglia.
E la voglia le è passata per sempre. Ha fatto un’indigestione e da allora non ha più potuto neppure assaggiare alcuna confettura. In compenso non gli ha mai perdonato quella lezione.
Altri tempi. Oggi, i ragazzi, vengono educati in modo diverso.

                                                                                                     Silvano C.©


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Un poveruomo

Quando un uomo abbandona una donna ci possono essere mille motivazioni sbagliate ed altrettante giuste; oltretutto entrare nei particolari del rapporto di coppia è ostico, rischioso e tutto sommato abbastanza inutile. 
Una relazione è finita, e se ne prende atto. A volte chi abbandona in realtà è stato abbandonato prima di abbandonare, ma non è quello che mi interessa, ora, e neppure limitarmi al rapporto uomo donna, perché il ragionamento va benissimo anche se al posto della coppia “tradizionale” ci vuoi mettere la coppia di gay o di lesbiche.
Mi spiego meglio, perché è il caso.
Conosco una donna, da molto tempo, è separata. Ha un figlio affetto da sindrome di down ed un altro sano. Lavora, quindi non ha bisogno dell'ex-marito per il suo mantenimento, ma lui, ora sposato con una più giovane e con nuovi figli nati da questo secondo matrimonio, ha deciso da un po’ di tempo a questa parte di non dare più alcun contributo per il mantenimento del ragazzo down, visto che la madre lavora. Aggiungo i particolari che lei è insegnante, tutt’ora sola, votata a seguire il figlio con tutte le ansie e le paure del caso, in particolare col pensiero di cosa succederà di lui quando lei non ci sarà più. L’altro figlio si è ormai costruito la sua vita, ed ha un figlio a sua volta. L’ex marito è avvocato, guadagna il triplo di lei e, a quanto pare, è pure evasore fiscale.
Tutto semplice, quindi. Per lui è stato normalissimo piantare la moglie (e i problemi anche suoi) e farsi una nuova vita. Per me invece si è comportato in modo indegno.
Non è criticabile il suo separarsi dalla moglie, perché gli amori finiscono, ed occorre prenderne atto, come ho scritto prima. No, è squallido il suo ritenere corretto “separarsi” dal figlio down, figlio suo, perchè dai figli non ci si separa mai, sino a quando non avranno raggiunto la possibilità di vita autonoma.
Quindi è un avvocato, ed pure ricco, ma resta un poveruomo.
                                                                                                   
                                                                                          Silvano C.©


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lunedì 25 novembre 2013

Bernarda, per gli amici Bibì


La trovi facilmente al Bar Città, verso le dieci, dieci e mezzo di mattina. Ha sempre un’aria sorridente, sembra invitarti a raccontare di te, non si annoia se le dici dei tuoi guai o le racconti i tuoi sogni. Raramente resta sola a lungo, e attorno a lei si raccolgono i soliti amici e spesso volti nuovi, ogni volta accolti con calore, siano maschi o femmine.
Le piace parlare, ma soprattutto ascoltare, assorbe le parole, le mette da parte, le conserva.
Chi la conosce da molti anni sa che ha avuto storie, ma nessuno è certo della sua situazione di oggi, e probabilmente non ha un rapporto fisso con nessuno, da un po’. Ha un’età indefinibile, sotto i 25, ma potrebbero essere di più perché non li dimostra; è minuta, grande massa di capelli corvini, nervosa nei gesti, molto curata nella persona, apparentemente fragile come una ragazzina ma abile a nascondere una forza di volontà non comune, e pure una profonda inquietudine.
Persegue in modo scientifico la conquista di chi le sta vicino, pronta a fare proprie le emozioni altrui, a fagocitarle, assimilarle. Impossibile non sentirsi al centro dell’attenzione quando si sta con Bernarda, e questo crea dipendenza, che è esattamente quello che lei desidera.
Non ha problemi economici, pare, lavora poche ore al giorno in una libreria e vive in un appartamento vicinissimo al centro, in un palazzo signorile, ma non conosco nessuno che possa dire di averlo visitato, e lei non ama parlare di sé o di come vive.
È frequente che venga invitata a casa di qualcuno, talvolta a pranzo, più spesso a cena. Pure io l’ho invitata varie volte, i primi tempi, e lei quasi sempre ha accettato. Entrava e, sia che fosse sola con me oppure in compagnia di altri ospiti, prendeva possesso della casa, letteralmente. Chiedendo formalmente il permesso e sorridendo guardava in ogni stanza, curiosa e interessata. Smontava facilmente piccole bugie, come quella volta che tra le riviste in bella vista scoprì, tra quelle di viaggi, cucina ed attualità, un numero di Playboy, volutamente lasciato per darmi l’aria di chi si interessa a tutto senza alcun problema. Non ho saputo spiegarle in modo convincente perché lo tenevo, e da allora l’ho fatto sparire.
Un’altra volta, venuta con un’amica e rimaste entrambe a pranzo da me, sono entrate assieme in bagno mentre io le sentivo ridere e scherzare. Solo in seguito mi ha raccontato che avevano usato il mio spazzolino da denti, dopo aver controllato come tenevo la casa ed il bagno in particolare.

Bibì è fatta così. Sa metterti al centro restandoci tuttavia costantemente lei. Si contraddice ma non lo capisci subito. Vorresti aiutarla, la vedi fragilissima, devi proteggerla, e lei ti lascia fare, ma sino ad un certo punto. Se per qualche tempo la perdi di vista, lei continua la sua vita, difficilmente ti cerca per prima. Da lontano ti capita di vederla, allacciata ad un nuovo amico, magari conosciuto solo poche ore prima, diretta a casa di lui, dopo aver ottenuto uno dei tanti inviti, e ripensi a quando si è comportata allo stesso modo con te.
Sembra che il sesso non le interessi se non come argomento di conversazione, e non raramente sono le donne che la attirano di più. Ha però sicuramente avuto una relazione con Angela, bella e disinibita. Una volta le ho accompagnate un pomeriggio di fine maggio in montagna, giusto per approfittare del tempo favorevole, e mentre Bibì stava un po’ sulle sue, Angela per poco non si è denudata per prendere il sole, restando alla fine solo con un paio di mutandine mentre io ero un po’ imbarazzato non sapendo che fare e fingendo una sicurezza che non avevo. 
Bibì non ha gradito il comportamento dell’amica-amante, lo intuivo pure io, che certe cose non le capisco neppure se me le urlano. Tempo dopo Bibì era triste, loro due non si vedevano più. Storia finita.

È generosa, con le cose. Fa regali costosi senza dar loro importanza, e non si cura delle gelosie che a volte fa nascere. Alcuni sono attirati dal suo modo di essere, si avvicinano, l’attirano, lei si lascia portare, poi ci provano e restano delusi. Lei non cede, quasi mai. Ha avuto tutto quello che voleva, conoscere una nuova vita, non desidera altro.

Sembra non aver mai dovuto subire alcuna violenza, sa riconoscere di chi fidarsi, a istinto forse, ma più probabilmente con una razionalità attenta ai particolari rivelatori. Evita le situazioni di pericolo, le ore strane in giro da sola, certi luoghi, ma a volte le sono capitati episodi particolari, quello si.
In casa di un conoscente occasionale mentre lei è seduta in salotto e stanno parlando, lui ad un certo punto si alza e sparisce per pochi minuti. Quando torna è completamente nudo, leggermente eccitato, e si siede di nuovo sulla poltrona dove stava sino a poco prima come se fosse la cosa più naturale del mondo. Lei non si scompone, accetta la situazione suo malgrado, gli concede un po’ di soddisfazione guardandolo e, appena le è possibile, lo saluta e va via.
In un’altra occasione deve dormire fuori casa, ed accetta di mettersi a letto col suo ospite, a condizione che si dorma soltanto. Prima, in bagno, vuole lavarsi perché ha viaggiato per ore e, non avendo altro, si asciuga con un paio di pacchetti di fazzolettini di carta. Ha un pudore molto forte, ed evita di farsi vedere nuda, quindi dorme con la biancheria intima ed evita con abilità i timidi approcci del ragazzo. Si, sa scegliersi le persone, Bibì, e malgrado l’apparente ed assoluta disponibilità è molto selettiva.
Le persone che non la convincono difficilmente riescono ad isolarsi con lei, e se lei vuole rubare la loro vita lo fa solo se ci sono altri con loro, si accontenta di una indagine meno personale. Il resto lo intuisce, e le basta.

Bernarda, per gli amici Bibì, ha dentro una sensazione di vuoto che vuole colmare con i sogni degli altri, con le loro speranze e la loro energia. Forse è destinata a rimanere sola.



                                                             
Il paguro bernardo (Pagurus bernhardus) è un crostaceo decapode appartenente alla famiglia Paguridae. È chiamato più volgarmente l'eremita. Può arrivare fino ai 40 mm di lunghezza. Ha il corpo molle e senza il carapace protettivo; usa nuove conchiglie abbandonate ogni volta che il corpo cresce. È uno dei paguri più grandi del Mediterraneo. È ricoperto da peli bianco-gialli con due chele striate prive di peli. Ha grandi peduncoli oculari con striature rosse. La colorazione dei peduncoli può variare dall'arancio al rosso non molto acceso. La conchiglia può mostrare l'attinia Calliactis parasitica e la spugna Suberites domuncula.  Si muove su sassi e fondali marini, trascinando la conchiglia con sé. Quando sente un pericolo il paguro rientra nella conchiglia e ne riesce quando la situazione si è calmata.  (da Wikipedia)


                                                                                       Silvano C.©


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domenica 24 novembre 2013

No, per favore


Non dire che tutto fa schifo, perché persone serie ce ne sono, e loro non meritano questo giudizio lapidario e stupido, erroneamente onnicomprensivo.



Non parlare male della televisione, dicendo che trasmette solo le notizie di regime, o programmi stupidi, o che censura. È vero che molta televisione è solo commerciale e creata appositamente per gli allocchi, ma se tu non sei un allocco non guardi questi programmi o queste intere reti volutamente mistificatorie della realtà, ma trovi l’informazione più seria, il concerto più importante, il film impegnato e il ricordo storico per non farti imbambolare dagli imbonitori politici che vorrebbero che tu la storia la dimenticassi. Se invece è tutta una manovra atta a trovare una motivazione per non pagare il canone, per favore, sii più onesto.



E, per favore, non farti accalappiare dai provocatori che mettono tutto nel calderone per ottenere l’effetto di giustificare anche la presenza in politica di pregiudicati o di demagoghi, non essere tanto ingenuo o stupido da cascarci, cerca altre informazioni, fuggi da chi sembra tanto simpatico ed in realtà vuol solo raccontarti un suo mondo distorto, ed interessato. Usa la tua testa, non la loro.



Leggi libri, e giornali, non fermarti a quello che passa la rete, in particolare non seguire i blog come se fossero il Vangelo, non lo sono. Non farti a tua volta mezzo di diffusione di idiozie e cattiva informazione, senza alcun riscontro. Su Wikipedia molte voci su temi etici, politici, religiosi, storici e comunque sensibili sono oggetto di discussioni infinite, perché la verità non è mai tanto semplice da conquistare, e molte opinioni si scontrano per raggiungere una mediazione. Ma Wikipedia agisce in modo democratico, un blog personale o un sito di parte no, esprimono solo l’opinione del titolare di quel luogo virtuale. Per curiosità guarda una discussione sull’enciclopedia in rete per capire cosa voglio dire.



Poi,  ancora per favore, se su Twitter o Facebook ti circondi di idioti, non dire che questi due social sono pieni di idioti, sei tu che li hai scelti, e puoi benissimo cambiare la tua scelta. Chi te lo impedisce, il fatto che poi ti mancherebbero gli argomenti per criticare?



Se non voti non hai diritto di lamentarti dei politici eletti, quindi, sempre per favore, evita di dire che ormai tutti ti fanno schifo, anche se a volte ti viene la tentazione, e cerca di votare meglio la prossima volta, in modo onesto, senza pensare solo al tuo desiderio di evadere le tasse o di distruggere il sistema nel quale tu hai vissuto sino ad oggi, spesso con le tue piccole furbizie, schifato da chi alla fine si è rivelato più furbo di te. E no, non dire che destra e sinistra sono uguali. Studia la storia, prima, e non confondere Gramsci con chi lo ha messo in galera.



No, quindi, se scegli cose sbagliate, non accusare di questo gli altri.


                                                                                                     Silvano C.©


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sabato 23 novembre 2013

L’Aquila andava rasa al suolo e ricostruita


L’Aquila andava rasa al suolo e ricostruita, salvando solo i monumenti più importanti.



Il 6 aprile 2009, oltre quattro anni fa, la terra ha tremato a L’Aquila e in molti centri vicini. 308 persone hanno perso la vita, moltissimi sono rimasti feriti e a decine di migliaia hanno perso la loro casa. Questa è storia recente, nessun italiano la ignora.


Non ha senso oggi ritornare a quei giorni, dopo le nuove tragedie che hanno toccato altri luoghi; ci sono cose più urgenti, visto che tutti gli sfollati di allora hanno trovato una nuova sistemazione. Forse alcuni questo lo credono.

Io però non cedo a questa logica. È da quei giorni che ci penso, ed è solo per pudore e rispetto che sino ad ora non ho quasi mai espresso in modo esplicito, se non occasionalmente e quasi sempre privatamente un’idea che mi cresce dentro, con rabbia.

Premesso che la cultura ed i nostri beni artistici sono valori fondamentali, tra i pochi che ci siano rimasti, e che quindi vanno salvaguardati, assieme al nostro paesaggio, e che i centri medievali sono preziosi e vanno difesi, non bisogna oltrepassare il limite invalicabile del rispetto delle persone.

Questo limite con gli aquilani è stato superato ed oggi sembrano essere stati colpiti da una maledizione divina e costretti a subire una nuova diaspora.

Non entro nelle polemiche e negli scandali che hanno coinvolto persone intercettate poche ore dopo il sisma a far calcoli sui loro affari futuri, non mi riferisco ai potenti a capo di organizzazioni che avrebbero dovuto proteggerci, non parlo di ricostruzione con materiali scadenti e neppure di accuse reciproche tra membri della comunità scientifica sull’allarme che andava dato e sulla prevedibilità o meno dei terremoti. Non mi interesso, qui, neppure dello sciacallaggio politico operato su quelle vittime, tutto immagine e niente sostanza. 
No, io qui voglio riflettere su una scelta di fondo, e cioè quella di mantenere il patrimonio artistico e di sacrificare la popolazione che quel patrimonio rendeva vivo, attuale, pulsante, e non un'immagine da cartolina come ormai è ridotta Venezia, senza quasi più abitanti e tuttavia piena di operatori turistici di ogni specie. Una Venezialand insomma, snaturata e ormai quasi persa.

Aver costruito altrove abitazioni semipermanenti allontanando i residenti ha ucciso per sempre L’Aquila. Non sarà più come prima. Non avremo mai i fondi per ricostruirla salvando tutto l’originale, e quando finalmente sarà ricostruita (mai completamente) vi abiteranno altri, non quelli che vi hanno perso la casa e che ora vivono altrove.

Cerco di spiegarmi meglio. A Rovereto si sta ultimando il recupero del teatro Zandonai, bisognoso di interventi urgenti legati alla sua stabilità e sicurezza. Un amico geologo mi ha spiegato che abbatterlo e ricostruirlo sarebbe costato molto meno, forse la metà. Ma non si è fatto, perché è un edificio protetto dalla Commissione Beni Culturali, e quindi da preservare in toto.

A Ferrara, colpita dal sisma del 20 e 29 maggio 2012, moltissimi palazzi sono stati dichiarati inagibili, non certo come è avvenuto a L’Aquila, ma questo ha comunque obbligato centinaia di persone a cercare una sistemazione provvisoria, in attesa di opere di messa in sicurezza. Per molti di questi palazzi l’abbattimento e la ricostruzione sarebbero stati meno onerosi degli interventi programmati, e gli edifici avrebbero potuto conservare l’aspetto originale portando inoltre al 100% la sicurezza, secondo gli aggiornati parametri richiesti per le nuove costruzioni nella zona. Gli interventi decisi non porteranno mai a tale percentuale di sicurezza antisismica i vecchi ma non particolarmente pregiati palazzi.

A Venezia, per tornare alla laguna, il campanile di San Marco, posto in una delle piazze più famose del mondo, crollò il 14 luglio 1902 ma venne ricostruito “dov’era e com’era” ed oggi non tutti ricordano quell’episodio. La piazza non è per questo meno bella o meno visitata. 


Io però non sono un geologo, né un ingegnere o un architetto, un urbanista o un politico. Io conto nulla. Esprimo solo opinioni personali. Resto convinto che se L’Aquila fosse stata rasa al suolo e ricostruita, almeno per quanto riguarda molti degli edifici abitativi non di particolare pregio, oggi gli aquilani sarebbero già tornati esattamente dove vivevano prima, e la città sarebbe più viva. E sono trascorsi 4 anni e 7 mesi.
                                                                                                     Silvano C.©


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venerdì 22 novembre 2013

ritorno


Quanto spinge la sete di potere, la curiosità, il dolore sordo che cerca una via d’uscita, un interesse che neppure si conosce se onesto o dettato dalla solitudine. “Mi sono innamorato di te perché non avevo niente da fare…” cantava Luigi Tenco, distruggendo “castelli inargentati” e illusioni fantastiche, tragicamente, troppo sensibile per questa vita, che tuttavia è l’unica.
Mi sono sempre stupito di vedere gli altri come formichine spinte da piccole e scoperte pulsioni, anche i migliori, anche quelli che meritano ammirazione e rispetto. Toccato sul vivo, quasi nessuno resiste, e crolla come ogni cosa umana. E pure io, che osservatore non sono, ma attore e piccolo insetto come tutti, fingo nobiltà e nascondo miserie, e mi scopro piccolo, cedendo ruoli antichi che sembravano granitici.
Dovrei accettare umiltà ed “abbassarmi”, perché è il solo modo per rafforzarmi.

Si può proiettare al di fuori la propria forza, quella che resta, donarla agli altri, oppure cercare di conservarla perdendola, perché in ogni caso si perderà, prima o poi. Il cammino iniziato pochi o molti anni prima ha una sola meta conscia o inconscia, l’inizio di tutto, l’origine. Che sia la nostalgia, o forse l’innocenza perduta o ancora l’onnipotenza che pian piano, scelta dopo scelta, si è ridotta all’oggi non saprei dire. Non dovremmo mai interrompere nessun rapporto, non dovremmo star lontani da alcun luogo, né tornare sui nostri passi, pena il confronto tra quello che era e quello che è.
Io rimpiango, da stupido, un ristorante di Verona chiuso da anni per motivi di igiene credo, perché era veramente lurido, e la cucina ad alto rischio. Eppure quando non l’ho più visto aperto, ed ho visto quei portoni sbarrati, ho provato infantile scoramento.
Quella spiaggia pochi anni prima libera adesso è occupata da ombrelloni, col rumore del mare coperto da inutile musica, non è più quel luogo, non esiste più.
E quelle persone ora non sono come le ricordo ma sono invecchiate. Non le ho viste per un po’, ed è successo.
In realtà, poi, il discorso può riprendere, se non si sono commessi errori gravi, se si trova pietà in chi ci ascolta e ci perdona, e sembra di essere ancora quelli di allora. Ma non è più così.

Il ritorno all’inizio è negato a tutti, possiamo solo andare avanti, e forse allora i luoghi possono sempre essere nuovi, questo lo capisco, ma non le persone. Non si sostituiscono le persone. Anche se ci si allontana nessuno ha il diritto di trovare supplenti, magari più giovani e pieni di vita, portatori di nuove energie. Si rischia il patetico ed il ridicolo, perché solo le eccezioni in questo caso risultano vincenti, non certo la maggioranza delle scelte di questo tipo. Ma poi, in ogni caso, che ho da insegnare io che gli altri non abbiano già capito ben prima di me…

Foto da: Le fate ignoranti, di Ferzan Özpetek
                                                                                                     Silvano C.©


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mercoledì 20 novembre 2013

Finire dall’inizio


Finire dall’inizio non è esattamente come iniziare dalla fine, è il suo opposto logico e non ha nulla a che fare con un ossimoro; semplicemente lo ricorda per la dissonanza di significato che esiste tra inizio e fine.
Eppure voglio cercare di capire uno dei possibili (ma impossibili) significati esistenziali di questa ipotesi fantastica, o da fantascienza.
Se fossimo stati presenti all’inizio, intendo il vero inizio di ogni cosa, ora avremmo in mano le risposte finali, ma così non è stato ed ora è tardi per tornare a quel momento, quindi ecco che si contrappongono le interpretazioni, le fedi, le scienze, i miti e le mistificazioni create ad arte per scopi che tutto possono essere tranne che onesti.

La filosofia e la teologia indagano nel profondo di noi, altre discipline più “esatte” indagano la fisica e la chimica della materia e del nostro vivere, della vita e della non vita, trovando che il confine si allontana sempre più dalle nostre possibilità di indagine.
Alla fine si vede esattamente quello che si vuole vedere, quello che si è programmati per vedere, quello che si è educati a vedere, e sicuramente non si vede tutto, ma una parte minima di quello che pure ci circonda. Per alcuni si è sensibili, perché si vede quello che loro vedono, per altri egoisti, cioè non percepiamo il loro mondo, quindi il loro dolore o la loro gioia. E poi si muta, come tutti, si cambia, ci si allarga o ci si rinchiude.
Noi non vediamo come tutti, ma scegliamo solo alcune immagini. E questo per restare tra gli umani. Immaginare come vede il mondo un cane, un gatto, un canarino o un criceto è impossibile, richiede sensi che non abbiamo o non abbiamo sviluppati allo stesso modo. Siamo diversi.
La neurobiologia è affascinante, trova alcune risposte e apre nuovi dubbi, quando studia i recettori di senso. Pare che l’occhio di un predatore non sia semplicemente una sorta di antenna passiva che riceve impulsi visivi, immagini cioè. No, le immagini se le sceglie. Il predatore proprio non vede ciò che non è preda o pericolo diretto, non vede ciò che non lo interessa. Il suo occhio cioè è selettivo, e da questa capacità di selezionare e di non distrarsi dipende la sopravvivenza dell’animale. 
Ti suggerisco un esercizio facile. Prova ad immaginare di essere un’altra persona, ed entrare nei panni (o nella mente e negli occhi) di un tifoso allo stadio, di una suora, di uno storico dell’arte, di un bambino che ha fame, di un ragazzo sotto tempesta ormonale, di una madre subito dopo il parto… e ovviamente puoi aggiungere qualsiasi altra situazione o persona. Potrebbe essere utile, non per arrivare all’inizio o alla fine di tutto, ma solo per riflettere un po’ sul presente e sul dove siamo arrivati.

                                                                                                     Silvano C.©


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martedì 19 novembre 2013

Sillogismo aristotelico


Premessa 1

Venir spedito nel nulla per aprire un ambulatorio come primo incarico dopo la laurea e la specializzazione in ostetricia lo poteva intendere in due distinti ed opposti modi, a seconda dello stato d’animo e dell’umore.
Nei giorni buoni aveva trovato lavoro, aveva uno stipendio non alto ma sicuro, non aveva legami e quindi non aveva lasciato nessuno e, cosa importante, stava facendo esperienza che gli sarebbe stata utile in futuro.
Nei giorni no invece si vedeva isolato dal mondo, con una paga da fame, senza alcun contatto con coetanei e nessuna possibilità di fare esperienza.
Quelle cinque stanze della delegazione medica, che erano ambulatorio ed abitazione assieme, si trovavano nel centro di un paese fantasma, tenuto vivo artificialmente non si sa bene per quale interesse politico dal presidente della Asl del capoluogo che distava oltre 70 chilometri. L’edificio abitato più vicino era a più di dieci minuti di scooter, fuori dal centro storico cadente, e ci viveva solo un vecchio scorbutico che coltivava un piccolo orto ed allevava capre e galline, ed ovviamente non aveva problemi di salute. Attorno niente. Una volta in settimana arrivava un furgone con le provviste e la posta. Poi basta. Un pieno dello scooter gli bastava giusto per andata e ritorno, sperando di non forare o di non avere guasti. Quindi aveva rinunciato quasi subito all’idea di andare ogni due o tre giorni nel capoluogo, che in ogni caso offriva poche attrattive ai suoi occhi abituati alla grande città.
Si malediceva per aver accettato, ma allo stesso tempo sapeva che era stanco di vivere sulle spalle dei genitori, che così però aveva praticamente smesso di vedere.
Stava in quel paese inesistente da più di tre mesi, ed aveva accettato quell’incarico della durata minima di un anno, eventualmente rinnovabile se le parti convenivano.
Non riceveva segnale per il cellulare, che quindi era muto e sordo. Non aveva neppure linea telefonica, quindi niente collegamento in rete. Teoricamente la cosa era possibile con un’antenna satellitare che però non era mai riuscito a far funzionare. Quindi collegamento virtuale.  Aveva però energia elettrica ed acqua corrente, cosa preziosa in quella terra arsa da Sole, e poteva lavarsi ed accendere il computer.  Questo elettrodomestico però serviva solo per gestire i programmi istallati, non per navigare in rete. Ovviamente non poteva neppure vedere la televisione: niente antenna, niente segnale.
La prima settimana non finì mai, la seconda fu eterna, la terza una pazzia di vuoto, la quarta fu come la prima, e così via, di nuovo dall’inizio.
In breve lesse molti dei romanzi che si era portato, e rilesse alcuni dei libri sui quali aveva studiato ed altri di approfondimento su temi diversi, come interventi d’urgenza, dietetica, malattie infettive e così via. Pensò ad un certo punto di prendere una seconda specializzazione, lì avrebbe avuto modo di studiare, ma non di frequentare la clinica universitaria, e lasciò perdere.
Iniziò quindi, e gli sembrò una cosa utile per iniziare a fare pratica, a stilare referti medici su pazienti inesistenti e su loro patologie immaginarie.

Premessa 2

Dopo 8 mesi di lavoro sottopagato in un call center per il gestore di una rete nazionale di gas naturale, questi pensò bene da un giorno all’altro di delocalizzare il suo centro per gli utenti in Romania, e lei rimase senza quel misero ma vitale reddito. Dopo due settimane, mentre stava quasi per dare la testa contro il muro, ma che le lasciò come ricordo occasionali e forti emicranie appena sveglia, venne assunta per novanta giorni come cassiera in un discount. Un contratto a termine.
Stavolta era stata messa a contato diretto con l’umanità di seconda mano, quella che conosceva bene, e che raramente faceva notizia, ma che occupava gli spazi vuoti della nostra società cieca, quelli che non interessavano a nessuno, quelli sempre liberi.
Il suo posto di lavoro era automatizzato, per evitare ogni inutile perdita di tempo che avrebbe dovuto essere pagata dal punto vendita assumendo più personale, e quindi alzando i prezzi. Il codice a barre era stata un'invenzione utilissima, in quest’ottica di profitto.
Anche quel periodo non piacevole pur se pagato finì. Lei si trovò di nuovo sulla strada, con un nuovo e fastidioso prurito sul dorso della mano destra. Quando finalmente le venne proposto, grazie ad un conoscente, un lavoro da lavapiatti in una pizzeria gestita da pachistani lei accettò, e capì che ancora una volta era riuscita ad evitare il ritorno forzato a casa col padre, vedovo, e col fratello, di due anni più vecchio di lei ma ugualmente sfaccendato come il padre, e violento allo stesso modo.
L’orario di lavoro le lasciava tempo libero, il mattino, e questo le diede modo di fare qualche progetto e di tentare di realizzarlo. Ad esempio mandò domande di supplenza a molte scuole dell’infanzia ed elementari della sua zona, per sfruttare quel diploma che sino a quel momento non le era servito a nulla. Si interessò pure all’attività che alcuni gruppi di ragazzi avevano iniziato a svolgere su terreni confiscati alla malavita. Sembrava che riuscissero a produrre e ad avere un mercato. Era una cosa da valutare.
Mentre pensava a queste cose, pensando di aver raggiunto una relativa calma, il titolare della pizzeria le fece sapere che per lei iniziava l’ultima settimana da loro. Arrivava dal Pakistan un loro parente che avrebbe preso il suo posto. Nello stesso momento un lieve ed impercettibile tic nervoso iniziò a tormentarle l’occhio destro, e ogni tanto, da quel giorno, ebbe una nuova compagnia.
La sua fortuna però non era esaurita, ed alla seconda giornata di lavoratrice in cerca di lavoro ricevette la chiamata per 5 giorni di supplenza presso la scuola per l’infanzia più vicina alla sua abitazione. Per inciso occorre ricordare che viveva in un appartamento dove occupava solo un posto letto in una stanza con una ragazza che non le dava confidenza, ma che in compenso era silenziosa e non infastidiva. Furono i suoi 5 giorni più belli degli ultimi anni, perché le piacevano i bambini. Quando finì anche quelli però la stanchezza, la tensione, il senso di inutilità e tutto il peso del mondo le caddero addosso. Lo stomacò iniziò a farle male e questo la portò presto a non provare più alcun piacere nel cibo. Trascorreva il tempo o a letto, oppure fuori, in giro, senza andare da nessuna parte, e sempre a piedi, per non spendere soldi inutilmente, visto che ormai le riserve erano quasi esaurite. 
Pensò in quel periodo a suicidarsi, a tornare a casa dei suoi (che non sapevano nulla di lei e non la cercavano), ad andare all’estero, a fare la prostituta, a chiedere l’elemosina, a mettersi a rubare e ad altre attività non migliori di queste ultime. 
Al limite estremo, quando ormai si sentiva perduta, il solito angelo, nella veste dello stesso conoscente che le aveva trovato il posto da lavapiatti, venne a salvarla. Una cooperativa di giovani, in una sperduta tenuta tutta sassi e rovi, lontana da ogni civiltà, su un terreno espropriato alla malavita, stava tentando di iniziare a produrre in modo biologico. Erano in pochi, il lavoro era duro, ma vitto ed alloggio per un po’ sarebbero stati assicurati, e lui aveva pensato a lei, perché una volta gli aveva confidato di queste sue fantasie.

Conclusione
(Bastano poche righe ora per spiegare come andò a finire)

Lui, dopo circa sei mesi da delegato medico (figura professionale inesistente, come inesistente il paese dove esercitava tale professione) aveva stilato e catalogato centinaia di referti medici senza mai aver visitato ed ancor meno curato alcun paziente.
Ogni tanto si concedeva brevi giri attorno, tanto per vedere il paesaggio, bellissimo e selvaggio, questo bisognava ammetterlo. 
Lei lavorava, soddisfatta finalmente, a dissodare terreno ed a piantare piccoli alberi, e la sera, dopo aver mangiato, crollava in un sonno beato e tranquillo. Passava le giornata quasi sempre da sola, perché con gli altri della cooperativa non legava molto, erano già accoppiati e si conoscevano da sempre. I due maschi singoli stavano assieme, quindi lei, ultima aggregata al gruppo, ancora preferiva farsi i fatti suoi.
Sudava e zappava quando sulla strada sterrata di fianco alla quale stava lavorando vide comparire una motoretta che si dirigeva esattamente dove stava lei.
Un giovane uomo, medico senza pazienti e dedito a curare malattie inesistenti, incontrò così una giovane donna, diplomata sino ad allora senza molta fortuna, con varie malattie in via di guarigione ma reali.

Il resto te lo lascio immaginare, secondo i tuoi gusti.


                                                                                      Silvano C.©


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domenica 17 novembre 2013

Nicole

La paura della profondità dà le vertigini per lo spazio immenso che ci sta sotto, oppure deriva da incubi che ci trasciniamo dall’infanzia e che materializziamo in strani mostri che spuntano dagli abissi per azzannarci.

Nicole torna verso casa con lo zainetto in spalla, cammina sul lato della strada e fa attenzione alle auto che passano. Abita poco fuori dal paese, a neppure un chilometro dall’edificio scolastico, e sei giorni su sette, nel periodo scolastico, si potrebbe regolare l’orologio al suo passaggio.
Martedì del primo di ottobre esce di scuola alla stessa ora, si incammina come tutte le altre volte verso casa, ma non ci arriva né alle 13 e12 e neppure un po’ più tardi. Non ci arriva per nulla.

La madre guarda la strada, stupida di non vederla, e aspetta. Poi esce sull’uscio, e aspetta fissando il percorso abituale della figlia. Rientra e dieci minuti dopo telefona a Miriam, ma madre della compagna di banco, per sapere se ci sono novità: nessuna, un giorno come un altro, Angelica è arrivata da poco.
Ancora quindici minuti e la cosa diventa tragicamente chiara per la madre. Nicole è sparita. Inizia ad agitarsi ed a telefonare, così tutta la macchina lentamente si mette in moto, prima senza crederci molto, ma poi con sempre maggior convinzione.

A sera, verso le venti, il rapimento è evidente a tutti, amici e polizia, e non è un rapimento per chiedere un riscatto, perché la madre di Nicole non è ricca, possiede solo la casa, e lavora come segretaria presso un avvocato del paese. no, è peggio, anche se nessuno ancora ha il coraggio di dirlo.

L’uomo passa in auto, si è perso cercando un cliente ed intanto pensa a quella puttana della moglie che lo tradisce e crede che lui non se ne sia accorto, ma a lui lei non interessa più da tanti anni, e la lascia fare, purché non lo infastidisca. E’ invecchiata ed ha perso quell’aria da bambina che tanto tempo prima l’aveva fatto innamorare. Lui ora pensa a fare un po’ di soldi e si foga con prostitute sempre più giovani, quando può.
Quella ragazzina sulla strada, da sola, gli fa scattare un’idea folle, improvvisa. Accosta, apre la portiera e con una scusa le chiede se quella è la strada giusta per xxx, aprendo una cartina. Quando lei si avvicina è rapidissimo a tirarla dentro ed a tapparle la bocca con la mano. Poi chiude la portiera e parte veloce, con la ragazzina terrorizzata a fianco, che non sa emettere un suono e non riesce a fuggire. È paralizzata.

Guida cercando di non correre. Si allontana, cerca un posto adatto, isolato ma non da dare nell’occhio. In poco tempo arriva ad una prima curva che la strada compie prima di iniziare a salire verso la montagna. Poco più su inizia il bosco, e forse troverà un posto adatto. Alla prima piazzola ferma l’auto, si guarda attorno, prende un rotolo di nastro adesivo da pacchi usato pochi giorni prima e fa cenno alla ragazzina ci scendere, portando il suo zainetto. È il posto adatto, anche se non sa ancora a cosa, ma è eccitato e non ragiona in modo cosciente. Il cuore batte veloce. Vede una baracca, che prima non si notava, e tenendo per la mano la bambina va in quella direzione. La porta e solo accostata, dentro c’è sporco, ma lì nessuno li potrà vedere. Il cellulare vibra. Risponde meccanicamente. Impossibile evitare l’impegno che gli viene comunicato, è urgente e non può sottrarsi.  Col rotolo di nastro adesivo che pensava di usare solo per chiuderle la bocca se avesse iniziato ad urlare ora la blocca, prima le mani, poi i piedi, poi la bocca. I suoi occhi sono aperti e terrorizzati, ma lei non riesce a piangere.  Lui controlla di nuovo che non possa muoversi. La blocca ad un palo con altro nastro adesivo, poi esce e la lascia lì, perché ora ha una cosa urgente da fare, ne va del suo lavoro per i prossimi anni.

Ritorna sulla strada percorsa evitando però il paese, e raggiunge il bivio al quale aveva sbagliato strada. Ora deve fare in fretta, ma si sbrigherà in poco tempo. Poi tornerà alla baracca. O almeno questo è quello che pensa. Accelerando oltre i limiti per fare prima il chiodo da carpentiere che si era infilato nello pneumatico anteriore sinistro durante la sua sosta in quella piazzola si sfila e spacca la gomma facendolo sbandare un po’ verso il centro della carreggiata. Sarebbe stata cosa da nulla, e avrebbe potuto accostare benissimo rallentando e frenando se in quel momento non fosse transitato sull’altra corsia di marcia un autocarro che non aveva potuto evitare l’impatto, visto che sulla sua destra c’èra un muro in cemento. L’uomo muore senza neppure capire esattamente cosa gli sta succedendo.

Verso le otto di sera è già buio, Marcel ferma la sua vecchia Citroen sulla piazzola e si dirige sicuro verso la baracca dove gli hanno nascosto la roba. Non crede ai suoi occhi quando trova la ragazzina, legata come un salame, e gli punta sul viso la luce della torcia. Lei chiude gli occhi, accecata, ma lui, superata la sorpresa, la libera poco a poco dal nastro adesivo, senza più puntarle in faccia la luce, e la fa alzare.
La consola, l’accompagna nella sua auto, le offre una coperta che tiene sul sedile posteriore, si dimentica della roba e si fa spiegare dove abita. Meno di venti minuti dopo Nicole scende dall’auto che riparte senza fermarsi, ma ora è a pochi passi da casa sua, ed anche se è buio sa trovare la porta.

La paura deriva da un nostro atavico istinto di sopravvivenza, e gli strani mostri non esistono. Esistono solo persone sbagliate e persone giuste. A volte poi anche le persone sbagliate fanno le cose giuste.

 Clausola vessatoria, volutamente scritta in caratteri minuscoli – Sono consapevole che la storia ha un certo lieto fine, come se una sorta di Divina Provvidenza Manzoniana Laica  (DPML) sorvegliasse e disponesse, organizzasse e facesse giustizia, attraverso le sue vie. Nella realtà il lieto fine è solo occasionale, e in molte storie parallele e più probabili Nicole sarebbe stata ritrovata senza vita giorni dopo, vittima di un uomo sconosciuto, impunito, e apparentemente del tutto normale nella sua meschinità e vigliaccheria assassina. Una madre avrebbe vissuto l’inferno e l’ingiustizia in Terra, e nessun tossico o spacciatore avrebbe fatto un gesto generoso, col rischio di farsi scoprire. Ma è solo una storia, non dargli importanza più di quella che ha, considerala solo un’occasione per riflettere sul tema conduttore e per fare in modo che si riducano, nella vita reale, questi delitti.

                                                                                                     Silvano C.©


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nel migliore dei mondi possibili


La poesia di un mondo senza guerre, senza armi, senza violenze.
L’illusione che la forza inumana sia solo quella del potere costituito, dello Stato oppressore dell’individuo e del mantenimento esclusivo del privilegi dei pochi.
Le canzoni che inneggiano alla libertà, belle, sublimi, cantate da generazioni ed entrate nella storia, che nessuno può disprezzare o pensare di sminuire perché raccontano di un bisogno profondo, antico, immutabile e quasi sacro (se io credessi al sacro).

Poi però mi chiedo, malgrado le evidenti ragioni di chi rifiuta tutto questo, come difendere i deboli in momenti di crisi o di immani tragedie naturali come quella recente che ha toccato le Filippine, nei quali tutti hanno visto come gruppi organizzati abbiano assaltato i soccorsi per accaparrarsi gli aiuti, e come di fronte al bisogno, alcuni, non tutti ovviamente, abbiano dato prova del peggio di sé.
 
Le armi non sono il male, ma è come sono usate troppo spesso ad esserlo. Solo una solidarietà organizzata con alla base un contratto sociale solido e condiviso userà la sua forza in modo giusto, non oppressivo ma il più possibile preventivo. Non viviamo in un mondo ideale, solo (scusate l’ironia) nel migliore dei mondi possibili. Per ora.

                                                                                                     Silvano C.©


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sabato 16 novembre 2013

perfezione


Il Sole non è tramontato ancora, vale la pena fare due passi verso il centro, a vedere la vita e chi conclude la settimana in questo prodromo di feste natalizie, mentre le casette del Natale dei Popoli sono già al loro posto ma ancora aspettano qualche giorno per aprirsi piene di sciarpe e candele, speck e saponi profumati, statuette e artigianato etnico.
Non so se mi piace tutto questo. Lo registro, semplicemente. 
Comunque camminare mi fa bene, anche se invidio chi ha preso altre direzioni e corre, mantenendosi in forma.


Ma non mi voglio lamentare, potrei fare pure altro, è una scelta, sono decisioni mie.
Vado in biblioteca per restituire un audiolibro, vedo visi noti, ma nessuno col quale fermarmi a scambiare due parole. Non fa nulla, mi piace pure stare solo. Poi esco e mi dirigo in un negozio vicino. Mi interessano alcune scatole metalliche, guardo quelle esposte, ne scelgo un paio e poi con calma mi avvicino alla cassa e le appoggio sul bancone.
La signora è distratta. Malgrado io le sia di fronte non mi vede, ed io non capisco a che cosa pensi. Allora ascolto quello che si stanno raccontando attorno, e la serata muta colore.
Un’altra commessa sta spiegando che poche ore prima sono entrati alcuni ragazzi sui quindici - sedici anni, sette in tutto. Quattro di loro erano neri e tre “normali”. Subito si sarebbero sparpagliati a gruppi di due, ognuno in una zona diversa del negozio, con la chiara intenzione di portare via qualcosa. Lei, con altra gente da servire, non poteva controllarli, ed aveva individuato chi tra loro sembrava essere il capo. Si era avvicinata a questo, e gli aveva chiesto se desiderava qualcosa. Ne era nata una discussione, lui aveva risposto che poteva stare nel negozio quanto voleva e che avrebbe potuto portare via tutto se ne avesse avuto voglia. La seconda dipendente finalmente aveva suggerito di telefonare ai vigili o alla polizia, e solo a questo punto il capo, non senza aver prima spostato con disprezzo alcuni oggetti costosi, aveva condotto fuori i suoi.
Io ascoltando pago, e rimango ancora un po', mentre l’uomo al quale la commessa sta raccontando l’episodio risponde ricordando che non siamo nel Bronx, che bisognava…
Io non sento altro, sono già uscito, e ormai torno verso casa con le mie due scatole metalliche in questo pomeriggio perfetto.

                                                                                                     Silvano C.©


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venerdì 15 novembre 2013

Ho conosciuto Pig Pen



Si, l’ho conosciuto. Ovviamente non è quello il suo vero nome (che ho colpevolmente dimenticato in qualche piccola stanza della mia memoria), ma lui da ragazzino era così. Il personaggio dei  Peanuts era esattamente come lui. Io allora insegnavo in una piccola scuola in un piccolo paese noto per le sue susine. Ci sono rimasto pochi anni, in fondo, ma importantissimi, pieni di attività e di iniziative, di speranze e di illusioni. Più che di lavorare mi sembrava a volte di essere in vacanza, tutto o quasi mi era lieve, malgrado già allora il mio carattere fosse pessimo, e in seguito sia solo peggiorato.
Ma allora mi divertivo molto, inventavo e creavo, con più libertà di quella che oggi è concessa ad un insegnante, ed avevo meno burocrazia e meno parametri standardizzati coi quali confrontarmi. La fonte principale del mio divertimento erano i ragazzi. Non che fossero comici, per nulla, ma erano vitali e meno legati a certe derive che stavano solo allora facendo il loro ingresso nel mondo dei giovani. Quella scuola, quelle classi, a volte odoravano di stallatico, a volte di grappa distillata di nascosto, le scarpe spesso erano pesanti, da contadino o da allevatore. Ricordo molti di quei visi, poi mutati dal tempo e dalla vita, e se rivedessi ora quei ragazzi di allora non li riconoscerei, ma sarebbero loro a riconoscere me. E questo in effetti mi capita ogni tanto, in giro, nei posti più disparati, in modo casuale. 
 
Ma torno a Pig Pen. Lui era unico, in quegli anni. Abiti sporchi e non di rado consumati. Mani ed unghie luride. Odore "importante". Quando l’ho visto la prima volta ho pensato che fosse un caso da seguire più degli altri, un disadattato o un indigente economicamente e mentalmente. Solo per il primo punto avevo ragione.
Quando ho iniziato a fare le prime verifiche e mi sono ritrovato a correggerle a casa dovevo lavarmi le mani dopo aver toccato il suo foglio, ma non credevo a quello che vedevo. In modo quasi incomprensibile ed illeggibile non sbagliava una risposta o una considerazione o un calcolo. La prima volta ho pensato che avesse copiato o che fosse una coincidenza. Ma copiato da chi, visto che nessuno aveva fatto meglio di lui? Ordine e forma, praticamente sottozero. Contenuto e precisione nei passaggi logici perfetti. Ho cominciato a guardare con ammirazione ed a toccare un po’ con le pinze quei fogli pasticciati e con macchie, non sempre profumati. Avevo trovato un genio, indiscutibilmente. Mi preveniva nelle conclusioni, capiva le sfumature, ragionava senza incertezze, oppure trovava i punti deboli delle mie lezioni. Credo di averlo amato, a modo mio. Quando ho iniziato a prenderlo in giro lui ha capito ed è stato al gioco, e da allora entrare in quella classe era ogni volta una sfida per entrambi, e non sempre si sapeva chi avrebbe vinto. 
Morale - La cultura e l’intelligenza non sono asettiche, e bisogna fare attenzione ad accettare la caramelle se te le offrono (prima bisogna sempre guardare come sono le mani).
                                                                                                     Silvano C.©


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giovedì 14 novembre 2013

Il suggerimento di Ventinove


Duecentoquindici era preoccupato perché il raccolto di patate a Querciolano mica era andato bene. Lui ce lo aveva detto a loro, ma quelli nulla, niente, nisba. Quel gran spaccone di Quarantadue era convinto di sapere tutto, ma neanche lui aveva ricavato molto dal suo campo.
E la conferma gli arrivò il giorno dopo quando si recò col suo magro e rinsecchito sacco da quella vecchia arpia di Novanta per la pesa.
Quella aveva messo tutto sul bilancione ed aveva sentenziato: “chilogrammi: … due chilogrammi e quaranta!”
Poco, non sarebbe bastato per l’inverno, perlamìscopa, ed adesso?
Adesso c’era molto da fare, ma occorreva un’idea. La comunità era in fermento, Uno non aveva memoria di una uguale crisi in passato, e se non ricordava lui, nessun altro avrebbe potuto. Cosa doveva dire ai suoi?


Vivevano nella zona di Forlì da tempo immemorabile, sin dalla grande caduta del vecchio platano, e gli abitanti del luogo non avevano procurato loro mai nessuna noia, in verità anche per il fatto che non si erano mai accorti di quei loro minuscoli vicini. Ed ora? Senza una sufficiente scorta di patate non avrebbero potuto resistere che pochi mesi.
Ventinove chiese udienza al vecchio capo, e gli espose l’idea che aveva maturato in quelle notti. In breve, secondo lui, avevano davanti a loro solo una via: andarsene a cercare un nuovo luogo da colonizzare, adatto alla crescita delle patate, abbandonando per sempre la loro amata quercia di Querciolano. Prima avrebbero dovuto fare scorte per il viaggio, andando a prelevare le patate che a loro servivano dal verduraio locale. A capo della spedizione si sarebbe messo Seicento, un po’ teppista, è vero, ma pure abbastanza irresponsabile da buttarsi in ogni impresa rischiosa per il solo gusto di farsi notare dalla ragazze.  Ventinove infatti non ignorava i rischi della cosa, ma era sicuro che una volta prese le poche patate che a loro servivano nessun umano si sarebbe mai accorto del furto, oppure avrebbe pensato ai topi.
Subito dopo avrebbero dovuto mettersi in viaggio verso nord, dove le patate crescono abbondanti, da sole, o nella Val di Sole, ecco, questo particolare un po’ non gli era chiaro, ma comunque al nord dovevano andare.
Uno lo ascoltò sempre più perplesso e dubbioso, ma si rese conto che il giovane non diceva corbellerie, e gli chiese cosa suggeriva come meta, se si fosse arrivati alla decisione di partire. Ventinove spiegò che Querciolano in Corsica non andava bene. Il mare era un problema enorme da superare. La città di Leccio era in Toscana, verso sud insomma, non andava bene. Farnese, nel Lazio, ancora peggio, nulla da fare. Restavano Cerro Maggiore, a nord, in Lombardia e Rovereto, sempre a nord, ma in Trentino, la terra della mitica Val di Sole.
- E quindi cosa suggerisci?- gli fece sempre più incuriosito ma ormai quasi convinto Uno. La conclusione del ragionamento di Ventinove era chiara: Rovereto!  Lungo la strada avrebbero potuto anche far sosta a palazzo Roverella, a Ferrara, per poi riprendere il loro viaggio.
Uno ringraziò Ventinove, e gli disse che ci avrebbe pensato seriamente a quello che gli aveva detto, e che ne avrebbe parlato con i suoi consiglieri.

La sera stessa il vecchio capo convocò Novanta, la vecchia e saggia economa nonché pesatrice ufficiale, e Settantotto, la prostituta buona che cercava di alleviare come poteva le pene di vita di tutti quelli che la cercavano, e che aveva una conoscenza profonda dell’animo. A loro due, delle quali si fidava molto più che di se stesso, ritenendosi un po’ rincoglionito dagli anni, espose la questione e la possibile soluzione. Discussero a lungo, per ore, a volte demoralizzati, altre volte ottimisti sul successo finale, e poi votarono. Novanta e Settantotto erano a favore dell’idea di Ventinove, Uno contrario, anche se con dubbi. L’ultima parola spettava a Uno, ma lui decise che le sue consigliere avevano una testa che funzionava come si deve, e della sua non si fidava più, e la decisione fu quella, che divenne anche la sua. Tutti si sarebbero adeguati.

In pochissimo tempo Seicento organizzo e portò a termine con un gruppo selezionato di suoi amici la sortita nel negozio del verduraio, procurando scorte più che abbondanti. Il successo ottenuto gli fece ottenere l’ammirazione di tutte le donne e di non pochi uomini, e riuscì finalmente a calmare il suo spirito ribelle. Viste le capacità dimostrate gli venne affidato anche il lavoro di scavo della galleria (il popolo si spostava infatti solo in quel modo), dopo che Duecentoquindici ebbe portato a termine il calcolo esatto del percorso da tenere.

L’intero popolo si mise in marcia quindi, avanzando lentamente ma senza soste in direzione di Ferrara, passando sotto costruzioni e fiumi, ed arrivò in pochi mesi sotto palazzoRoverella. Qui finalmente si fece sosta, e qualcuno diede un’occhiata in giro dal cortile del palazzo la cui costruzione risaliva al periodo di maggior splendore storico di quella città, e poi tutti di nuovo in marcia, sempre via galleria, in direzione Rovereto. Passare sotto il Po fu molto esaltante per il vecchio Uno, che aveva solo sentito parlare del grande fiume, ma presto anche quella tappa del percorso venne dimenticata.
Passarono vari mesi, ma finalmente arrivarono a Rovereto. I calcoli di Duecentoquindici si rivelarono perfetti al millimetro. Spuntarono esattamente in via della Terra 15, di fronte alla chiesa di San Marco, la principale della città, in un negozio ora vuoto, ma prima occupato da artisti, o architetti, questo a dire il vero non era chiaro.
Erano finalmente arrivati. Risaliti in superficie si guardarono intorno mentre fuori, sulla strada e in piazza, nessuno si curava di loro. Si riposarono soddisfatti prima di decidere dove andare a sistemarsi definitivamente con i loro piccoli campi di patate.



(seguito della storia, che non finisce qui...)


Nota dell’autore - Per esigenze letterarie si dimenticano qui due Rovereto importanti: Rovereto sulla Secchia, in provincia di Modena (duramente colpito dal sisma del 20 e 29 maggio 2012), e Rovereto vicino ad Ostellato, in provincia di Ferrara.

                                                                                                     Silvano C.©


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