lunedì 30 settembre 2013

Scrittori e lettrici


Ho letto recentemente che solitamente sono gli uomini che scrivono, che hanno ansia di farsi leggere, che desiderano pubblicare e quindi cercano in tutti i modi di farsi conoscere per emergere dalla massa anonima di scrittori spesso senza talento o senza tecnica o senza cose da dire. Sempre nello stesso articolo si spiega che sono solitamente le donne le lettrici più solide, più fedeli a questa seconda modalità di comunicazione, più ricettiva.
Ovviamente con mille eccezioni, perché di donne che scrivono e pure bene, ce ne sono tante, e molti uomini non hanno alcuna intenzione di scrivere o di diventare scrittori e preferiscono leggere.

Se guardo la mia biblioteca tuttavia una prima conferma empirica arriva subito. Gli autori sono di gran lunga più numerosi delle autrici, ed io, sinceramente, sono sempre più frequentemente attratto da queste ultime. Posso fare un brevissimo elenco delle autrici che ho letto recentemente, o che ho ascoltato in un audiolibro, magari con la loro stessa voce. Voglio farlo, per dire grazie a queste donne, che mi hanno emozionato ognuna in modo diverso, toccando chi una corda chi l’altra della mia rete mentale, e completandosi in qualche modo a vicenda, a volte contraddittoriamente, ma sempre arrivando al punto di essere parte di una voce corale. Michela Marzano mi ha colpito appena l’ho vista in televisione, seria, preparata, impegnata, con una vita a cavallo tra Italia e Francia, una posizione importante, ed una apertura mentale che mi ha aiutato. “Volevo essere una farfalla” l’ho centellinato, come si fa con un liquore prezioso e invecchiato. Non potevo leggere troppe pagine, ma dovevo fermarmi, rileggere, pensare, chiudere il libro e riprenderlo ore dopo, o il giorno dopo. Il suo ultimo lavoro poi mi ha sciolto, letteralmente. “L’amore è tutto”, letto da lei, dalla sua voce imperfetta e non da attrice mi ha accompagnato per i giorni  che è durata la sua lettura, mentre vagavo, passeggiavo, ma mi sembrava di avere accanto un’amica che mi parlava.
Elena Bibolotti invece ha pubblicato un solo libro, sino ad ora: “Justine 2.0 il cuore è soltanto un muscolo”. L’ho letto dopo averlo ordinato, perché non ha una diffusione facile su tutto il nostro territorio, ed ho avuto conferma di quello che già sapevo per seguirla da tempo in rete, dopo averle invidiato la facilità di scrivere, di essere diretta e onesta con le sue e le altrui debolezze. Personaggio interessante, quello di Justine, con forza vitale e capacità di alzarsi dopo essersi abbassato, autocommiserazione zero, paura di sbagliare nemmeno. Del resto la vita è errore, e giudicare lo stile di vita altrui è l’ultima cosa che mi interessa, anzi, ammiro chi sa osare e arrivare dove io non arriverò mai.
Molti mesi fa ho letto “Lucrezia Borgia”, di Maria Bellonci, colpevolmente tardi, nella vita, essendo ferrarese di nascita, e forse di indole, ma alla fine l’ho letto. E mi ha segnato, mi ha fatto scoprire un mondo che avevo solo intuito, un periodo storico fondamentale per Ferrara, un’umanità che non conoscevo e, allo stesso tempo, la durezza del potere, uguale forse in tutti i tempi.
Di Alicia Giménez - Bartlett credo di aver letto tutto, mi piace l’ispettore Petra Delicado, ma mi sono piaciuti di più i non polizieschi, come “Segreta Penelope” o “Dove nessuno ti troverà”. Trovare un romanzo scritto da una penna nota mi fa lo stesso effetto di ritrovare un amico. Mi rende più facile entrare in sintonia, mi spiana la strada, mi rilassa.
Di Chiara Gamberale ho letto “Le luci nelle case degli altri”,  “Quattro etti d'amore, grazie” e “Una passione sinistra”. Mi sono immerso nelle vite di tutti i giorni, reali o immaginarie, ho sbirciato nelle vite di altre persone, ho fatto il voyeur, ho aggiunto mie fantasie, ma ho ritrovato una normalità diffusa, una diversità che si annulla nel riconoscimento della diversità stessa.
Anaïs Nin l’ho letta invece tantissimo tempo fa, quando ero stanco di una visione dell’erotismo solo al maschile, ed ora forse dovrei rileggerla. Mi ha lasciato una impressione forte, dentro, di complicità condivisa, di sessualità che passa per la testa prima ancora che per il corpo.
E poi ho letto, oppure ho ascoltato: Cristina Comencini, Eva Cantarella, Amara Lakhous, Mariolina Venezia, per restare nel passato prossimo, e mi fermo.
Sono un lettore irregolare e impulsivo, ma ho capito che le donne scrivono troppo poco, ancora.

                                                            Silvano C.©


( La riproduzione è riservata. Ma non c'è nessun problema se si cita la fonte.  Grazie)

Storia per una notte


Invitato da una conoscenza occasionale, pur stupito da tale invito inatteso, arrivo puntualissimo, nel tardo pomeriggio, al piccolo portone discreto e suono una sola volta, quasi con timidezza.
Mi apre un contegnoso signore, elegante, che scopro in seguito essere maggiordomo e uomo di fiducia dei Lucchini-Strozzi. Entro con un certo timore e vengo ricevuto da Antonio, l'anfitrione, che senza molte cerimonie mi invita ad entrare nel giardino interno, dove ospiti e familiari conversano tranquillamente. Vedo volti noti e meno noti, che al mio ingresso mi guardano, alcuni sorridono, altri semplicemente mi osservano con curiosità. Alberto deve aver anticipato qualche notizia sul mio conto, e del resto non avrebbe potuto invitarmi se non avesse avuto il consenso dei padroni di casa, ed è lui che ora si alza per introdurmi in quell’ambiente lontano dal mio per livello sociale e condizioni economiche.
Mi mette a mio agio, malgrado le paure provate ancora  poche ore prima, mi presenta a diverse persone e mi sembra di tornare indietro nel tempo, a secoli prima, quando i duchi, nel ‘500, ricevevano in modo simile gli ospiti ed i viaggiatori illustri di passaggio nelle loro terre, accogliendoli nelle loro ville, nelle loro delizie o nei loro splendidi giardini.

Io non sono certo un ospite illustre, sono semplicemente un amico di un loro ospite abituale, ma sento rivolti alla mia persona riguardi formali che non conoscevo, e solo con il tempo che passa mi adatto e mi rilasso, facendo cadere le impressioni iniziali del gruppo per sostituirle con nuove informazioni, con caratteri e risate, con un abito severo o con un profumo che mi distrae e mi conquista. Inizio a conoscere Angelica e Doriana, Claudio e Marcello, e Serena, che sono più o meno miei coetanei. È Alberto che mi presenta, all’inizio, ma poi sono io che tento di muovermi da solo, e vengo subito intrattenuto da Claudio, l’unico figlio di Antonio Lucchini. Lui decide che devo vedere la casa, visto che è la prima volta che entro tra quelle mura. Mi spiega che ora stiamo nel cortile interno, l’unico rimasto dei tre che in origine appartenevano a quella casa patrizia, che risale ai tempi dell’addizione erculea.
In quella dimora rinascimentale, costruita su quella che allora era via dei Prioni, pare abbiano soggiornato ambasciatori e poeti, notabili e madonne della corte estense, e, più tardi, anche Napoleone Buonaparte, durante una sua sosta in città, nel 1796. Sono seriamente colpito dal racconto di Claudio, che nota il mio sguardo e si mette a ridere.  Sono storie passate, mi spiega. Ora non c’è più il grande parco, espropriato o venduto, questo non è ben chiaro, occupato da costruzioni sin dai primi del ‘900. Pure un’intera ala del palazzo ha subito ristrutturazioni, prima che ogni ulteriore modifica venisse bloccata dalla soprintendenza per i beni architettonici. Mentre mi racconta mi fa visitare un enorme salone, un corridoio e mi fa vedere una grande scala in marmo che porta al piano superiore, che è anche l’ultimo piano. Non saliamo sopra, ma mi spiega che ci sono le camere da letto e un paio di studi, nulla di interessante.

Quando torniamo nel cortile, e Claudio si congeda da me, mi ritrovo immerso nuovamente nel chiacchiericcio a mezza voce che avevo lasciato prima, e, tra gli altri, noto una presenza nuova, una ragazza bruna, la guardo, ma sono subito chiamato da Alberto che mi vuol far conoscere ai genitori ed ai parenti di Claudio, seduti tra loro, e tutti sono interessati a sapere cosa faccio, come mi trovo in città, se conosco Alberto da molto tempo, e non mi lasciano più andare. Quando guardo l’orologio mi rendo conto che sono passate ormai più di tre ore, e per me si è fatto tardi. Domani devo partire per Venezia, il treno parte dalla stazione alle 7 e 45, e mi congedo da tutti con un sorriso ed una promessa di ritornare, alla prima occasione. Saluto per ultimi Alberto e Claudio, poi esco in strada e mi dirigo verso via Borgo dei Leoni.

Arrivo ad ora di cena, ma non ho molto appetito, e faccio in fretta a mangiare in piedi un paio di crostini di pane, un po’ di salame e un bicchiere d’acqua. Vado presto a letto, prima del solito, e per prendere sonno non trovo di meglio che leggere qualche pagina della Bellonci che descrive la vita di Lucrezia Borgia.
Come spesso mi capita non so cogliere il momento per appoggiare il libro e spegnere la luce, e continuo quindi a leggere, ad occhi chiusi, mescolando le parole della Bellonci con i discorsi del pomeriggio in casa Lucchini-Strozzi e confondo la bionda Lucrezia con la ragazza bruna che non mi è stata neppur fugacemente presentata e della quale non so nulla.

Senza stupirmene ora sono seduto a conversare con una giovane Lucrezia accompagnata da alcune dame di compagnia, tra le quali c’è lei. I nostri sguardi si incontrano spesso, sotto gli occhi divertiti della duchessa, ma poi la signora chiede a Pietro Bembo di recitare alcuni versi, e tutti restiamo muti, mentre il poeta volentieri accondiscende al suo desiderio.
Lucrezia tuttavia non vuole solo ascoltare le rime del Bembo, e l’intesa non segreta tra i due li spinge dopo un po’ ad allontanarsi dal gruppo dei cortigiani e ad isolarsi, per parlare a bassa voce, sotto l’ombra di tigli, platani, olmi e pioppi che rendono più piacevole il soggiorno a Belriguardo.

Io, il mattino dopo, sul treno diretto a Venezia, penso al Bembo, a Lucrezia ed alla bellezza bruna del pomeriggio precedente.


                                                            Silvano C.©


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domenica 29 settembre 2013

Notte


 

Onze, donze, trinze…
Un grande piroscafo solca il mare nero e profondo. Ombre si muovono sotto, di fianco, lo seguono o lo precedono. La mente le insegue ma non trova alcun conforto, si perde e non vorrebbe, ma alla fine cede all’ineluttabile.

Tocchi lo zucchero e ti lecchi le dita…

La prima volta che mi sono masturbato la realtà si è squarciata, e pensavo fosse poi visibile a tutti il mutamento, che fosse impossibile tenerlo nascosto. Non ero più un bambino, ma sicuramente ero lontano ancora dal diventare un uomo, se mai lo sarei diventato. Stranamente, tuttavia, nulla è mutato attorno a me. Il mondo non si era fermato per una mia emozione, aveva ben altro a cui pensare.

Tanto va la gatta…

“Mai promettere nulla, non farlo non se non sei assolutamente certo di poter in seguito mantenere quanto promesso, almeno per quanto riguarda la tua volontà.”
Eppure, eppure… a volte mi è capitato, ed ho sbagliato, ho mentito non sapendo di mentire, in buona fede, ma ho pur sempre mentito. E nessuno mi ha aiutato poi a togliermi i sensi di colpa, me li tengo, tutti, assieme a tanti altri legati a ciò che ho fatto e non avrei dovuto ed a ciò che non ho fatto, ed avrei dovuto.

Salto una pozzanghera, nella prossima ci casco…

Avevo provato dolore, sradicamento, spaesamento, solitudine. Allora avevo giurato a me stesso che non avrei causato mai ad altri lo stesso devastante stato d’animo. Non lo avevo giurato, ad essere sincero, ma dentro di me era scattato un allarme muto, si era innescato un meccanismo a tempo. Al momento giusto, quando ho avuto la possibilità di scegliere, ho voluto razionalmente evitare a mio figlio quello che io avevo provato da ragazzino. Non volevo macchiarmi coscientemente di questo delitto, che alla fine non è neppure un delitto, ma semplice vita.  Serve preservare i giovani dai pericoli che noi abbiamo corso, e che ci hanno segnato? Non credo che serva. Anche ammesso che si riesca a proteggere da un mostro oscuro, altri mostri sono pronti nell’ombra, e qualcuno metterà comunque alla prova ogni essere umano. Non si sfugge dalla nostra condizione.

Se mi dai quello, io allora…

Attualità e senso dell’immutabile. I meccanismi sono i soliti. Di fronte alle scelte alcuni sanno che fare, altri cadono facili prede di imbonitori in malafede, di ricchi che predicano la povertà, di lussuriosi ipocriti che invitano all’astinenza, di capipopolo che illudono enormi masse, e nella massa alcuni si ritrovano protetti, rincuorati, come si è protetti dal branco. Ma non è il branco che serve, è solo un sano scetticismo. Non è la violenza, che viene comunque strumentalizzata dal potere, ma il distacco della ragione. Se tu mi dai la notte, io allora voglio il giorno.


onze  donze   trinze ....


                                                            Silvano C.©


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sabato 28 settembre 2013

Bella di notte


Se esiste un fiore che mi affascina e mantiene viva la mia curiosità per la botanica, che colpevolmente ho in parte scordato dopo i miei studi universitari, questo è la “Bella di notte” (nome scientifico: Mirabilis jalapa).
 
Vivo una sovrapponibile attrazione per l’astronomia, per i nomi di stelle e costellazioni, che richiamano dei e leggende, meraviglie perse nell’infinito cielo. Non c’è nulla di razionale o di scientifico in tutto questo, solo l’irruzione del mondo sommerso, il risveglio di sogni e favole, di quella parte del cervello che rifugge da riscontri di tempo e di prove, che non ha bisogno di dimostrazioni per percepire l’intero.

È innegabilmente il nome che mi attrae di questo fiore, che attrae falene ed altri insetti notturni con altre motivazioni. Solo per loro apre le sue corolle di vari colori, che si possono ammirare al chiaro di Luna, mentre alle prime luci dell’alba le richiude, e di giorno a volte soffre per il troppo calore anche se ama, stranamente, il pieno Sole.
È una pianta annuale, che è in grado di prendere il posto di altre piante coltivate, che cresce vigorosa, grande, e produce frutti che germogliano con facilità se sono freschi, ma che resistono pure alla siccità. E sono tossici, come i fiori stessi, perché la Bella di notte è pericolosa, come ogni bella donna lo sa essere con chi non riesce ad accettarla o riconoscere nel suo potere (e anche la Belladonna, per restare in tema, possiede un veleno che può essere mortale, l’atropina).

È stata importata dal Perù, viene quindi dal Nuovo Mondo, ma da noi si è perfettamente adattata, come molte altre specie animali e vegetali. Ogni sua caratteristica sembra perfetta per creare leggende e stimolare la fantasia. Per alcuni è simbolo di timidezza, per altri di passione nascosta, notturna appunto, e non mi è difficile immaginarla in sembianze umane, femminili, aggirarsi di notte come se fosse una strega, attirare col suo intenso profumo gli uomini che passano nelle sue vicinanza, ammaliarli, vincerne le resistenze e sedurli, perché gli uomini non cercano altro, che di essere sedotti cioè, ogni notte, specialmente in estate, quando la vita con le tenebre sembra più intensa e feconda che non di giorno.

Come le streghe non muore veramente alla fine della stagione, ma i suoi tuberi sotterranei sono pronti, l’anno successivo, anche se i semi non hanno avuto successo, a riprendere nuova vita. Ha una forza da donna che l’uomo può solo invidiare, che vorrebbe dominare, ed è per questo che a lungo ha combattuto le streghe, in ogni tempo ed in ogni luogo, perché possiedono il segreto della vita e della morte mentre l’uomo, spesso, possiede solo il segreto della morte.


                                                            Silvano C.©


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venerdì 27 settembre 2013

Autocontrollo, eterocontrollo o nessun controllo?

Mi rilasso profondamente, mi immergo in me stesso, nelle profondità del mio pensiero e della mia essenza, scendo gradino dopo gradino i vari livelli che mi portano al controllo delle emozioni e delle funzioni vitali, domino e/o accetto la realtà che mi circonda, ne divento parte cosciente e tranquilla, capisco cosa voglio veramente, so cosa fare per ottenerlo, mi rendo conto di quello che conta.
Ripeto questa pratica a lungo, ed i primi effetti, non solo euforici o placebo, dopo 20-30 giorni iniziano a manifestarsi. In realtà non sono mutato, sono sempre lo stesso, ma con una diversa consapevolezza, la coscienza che devo amare me stesso per poter amare gli altri, controllare me stesso per poter essere veramente utile.

Mi reco allo sportello, chiedo spiegazioni per quella pratica che non mi risulta, perdo ore per risolvere il mio problema, e mastico nervoso, e sento i discorsi di altri che sono incappati in situazioni simili, e tento di uscirne. Tutto inutile, le cose vanno come temevo, cioè male. Non posso fare nulla.
Tento la fortuna, faccio domande per ottenere un lavoro in province diverse, non sono disperato, ma le ho tentate tutte sino a questo momento. Sono chiamato per un periodo di prova nella città A. Parto. Mi adatto ed inizio a lavorare, ed inizia una nuova vita, per me. pochi giorni dopo anche dalla città B mi arriva una chiamata. È bastato qualche giorno di ritardo e la mia strada, arrivata ad un incrocio, ha preso una direzione ben precisa, diversa da quella che avrebbe potuto essere. Ho conosciuto nuove persone, altre non saprò mai che esistono, e non so se avrebbero potuto essermi più vicine o meno disponibili nei miei confronti, né come sarei stato io con loro.

Non credo nel destino, o forse sono solo un po’ superstizioso ma sono disposto a mentire per non ammetterlo. Non sono un credente, nel senso classico del termine, ma ho una mia idea in proposito, pur con molti dubbi, che non mi va di esporre a nessuno, essendo mia personale. Sono abbastanza convinto che non tutto sia assolutamente casuale, che esista un disegno, e credo pure di essere in parte pedina di questo disegno, ma non ho la più pallida idea di dove porta questo disegno, se sia o no intelligente, e se non sia semplicemente un concatenarsi meccanico e fisico di eventi, scatenatisi dopo quel primo istante che a tutto ha dato inizio. Non ne ho la più pallida idea di chi sono veramente, del perché avvengono le cose, se non per un segmento limitato di tempo ricavato da una retta infinita che non mi mostra né inizio né fine.

I dubbi sono salutari, le certezze pericolose.


                                                            Silvano C.©

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giovedì 26 settembre 2013

Bene comune


Tanti anni fa, veramente tanti, a Porotto, quando ero un ragazzino, talvolta ho gettato piccole cose, spazzatura in pratica, in un paio di piccoli corsi d’acqua che scorrevano davanti e dietro  la casa dove allora abitavo, la prima che mio padre ha acquistato grazie all’aiuto di una persona generosa che gli ha fatto un prestito sulla fiducia, senza firme né cambiali. Mi veniva normale buttare cose così, non pensavo ai danni ambientali, e non riflettevo sulle conseguenze del mio comportamento, in particolare non riflettevo su quello che sarebbe successo se tutti si fossero comportati allo stesso modo.

Diversi anni dopo, con un amico, ho scoperto la laguna di Venezia nella sua parte più meridionale. Da Chioggia-Sottomarina ci siamo imbarcati sul traghetto che porta a Pellestrina, e lì siamo scesi, a visitare quel luogo magico, sospeso tra cielo, mare e terra. La laguna interna, vicino al paese, era una enorme distesa di spazzatura, con sacchetti, bottiglie cassette, copertoni, galleggianti per imbarcazioni e tanto altro per un’aera impressionante. Abbiamo mangiato panini ed io ho buttato la carta in laguna, senza pensarci molto. Il mio amico invece ha puntigliosamente ed assurdamente portato i suoi rifiuti più avanti, verso il paese, dove c’era un cestino, o un bidone, ora non ricordo.

Quando ero disoccupato, e cercavo lavoro, ho commesso alcuni piccoli furti ai danni di una grossa società pubblica. Mi serviva, quel materiale, per organizzare la mia ricerca, e mi sono sentito giustificato in questo mio appropriarmi di una cosa non mia ma che mi era utile visto che la società non mi aiutava, che mi abbandonava, mentre altri, con amicizie o spinte potenti, trovavano un impiego o una posizione. La mia depressione o disperazione mi giustificava, o almeno ne ero convinto, anche se non avrei mai confessato in giro quello che facevo. Solo a quel mio amico l’ho detto, e lui non ci ha messo molto a segarmi col suo giudizio.

Passano altri anni, e durante alcune vacanze su spiagge libere, in Italia, a volte inizio a pulire, invece di sporcare a mia volta. Raccolgo addirittura schifezze col retino in mare, invece di pescare poveri pesciolini, oppure circondo una famiglia di zozzoni e raccolgo senza dir nulla piatti e bottiglie di plastica che questi hanno seminato attorno a loro. Quella volta, in effetti, ho rischiato di essere malmenato, anche se non ho detto nulla, ma solo per alcuni miei sguardi.

Oggi, percorrendo con una certa frequenza la Transpolesana da Verona all’uscita per Canda, vedo che ogni area di sosta è invasa da rifiuti di ogni genere, da mattoni a lavandini, da materassi a sacchetti di umido, da bottiglie a tutto quello capita per le mani a chi passa. Tali rifiuti ovviamente vanno a sporcare pure i piccoli canali o fossi che costeggiano in qualche punto la strada, e molti non rispettano i divieti che non mancano.

Nelle passeggiate che mi succede di fare un po’ ovunque ormai ho preso l’abitudine di raccogliere qualcosa da terra o di staccare qualche adesivo appiccicato in giro quando mi capita. Non sopporto più queste cose.

Vedo attorno a me disperazione, molta più di un tempo. Vedo gente che si sente abbandonata. Vedo furbi che teorizzano sul non pagare le tasse allo Stato ladrone, mentre sono loro i primi ladroni, e rubano a me, a tutti quelli che le tasse le pagano e, cosa ancor più grave, rubano a tutti i deboli che avrebbero bisogno dell’aiuto pubblico, come anziani, malati, persone con handicap e disoccupati o giovani che cercano lavoro.

Rompere una fioriera, urlare di notte accanto ad un bar solo perché è estate ed il centro storico non deve morire, rubare le biciclette che il Comune mette a disposizione di tutti, sporcare muri e carrozze ferroviarie sono piccoli gesti di maleducazione e di disprezzo degli altri. Ma tutti questi comportamenti in fondo sono infantili, di protesta o di immaturità.
Quando invece arrivano la piena consapevolezza e l’interesse personale ai danni degli altri le cose divengono dirompenti, anche se maggiormente tollerate dalla massa perché non viste come atti di uno sporco anarchico o di un immigrato approfittatore o di un giovane delinquente. È tollerato chi possiede auto di lusso comprate non pagando il fisco, è tollerato chi va a pregare in chiesa la domenica ma non paga i suoi dipendenti o li assume in nero, ed è tollerato il politico furbo e ladro perché si spera di averne vantaggi personali (che al massimo sono le briciole di quanto lui ha rubato). 
Sono tollerati il ricco guru o l’ancor più ricco imprenditore che pontificano di libertà per tutti, di democrazia in rete o di sete di giustizia quando la vera libertà sono essi stessi a tradirla, sono sempre loro che svendono la democrazia per i giochi di potere e sono ancora loro che la giustizia non l’accettano quando li colpisce direttamente, trovando scappatoie ed ogni modo per sfruttare a loro comodo quanto tutti i comuni mortali sono costretti a subire.
Una vera giustizia non dovrebbe mai arrivare alla prescrizione, togliendo quel poco che i danneggiati vorrebbero avere da chi ha loro procurato lutti o perdite economiche.
Ma una giustizia che non funziona è il segnale d’allarme più grave a dimostrazione che abbiamo perso il senso del bene comune.

                                                            Silvano C.©


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mercoledì 25 settembre 2013

Apollo


Il cinema è cultura, il cinema non è un libro ma ti fa immergere per circa due ore in altri mondi, senza muoverti. Quando una sala chiude, quindi, è una perdita che si aggiunge alle tante altre perdite alle quali mi sono dovuto abituare negli anni.

Ferrara ha perso praticamente le sale storiche in centro, che proponevano tutta o quasi l’offerta cinematografica del momento. Ora restano solo una enorme multisala impersonale che ha definitivamente messo in crisi i vecchi cinema, due sale parrocchiali: San Benedetto e Santo Spirito, una sala comunale: il Boldini, ed un multisala “tradizionale”, l’Apollo. Resta a dire il vero pure il Mignon, in via Porta San Pietro, ma questo proietta solo a luci rosse, e la sua utenza è, diciamo così, di nicchia.

 

Col prossimo anno le pellicole non verranno più distribuite, ed ogni proiettore dovrà essere adatto per leggere i supporti digitali. I costi di trasformazione sono enormi, ed ogni imprenditore deve far bene i suoi calcoli prima di buttarsi in un’impresa a rischio. I tempi sono difficili, ma la cultura resta importante, e non si può avere gratis o a prezzi scontati. Gratis, si fa per dire, ci sono solo Facebook, Twitter, le reti Fininvest  e altre cose simili, che NON sono gratis per nulla, e comunque non danno alcun diritto, ma è possibile solo accettare passivamente la loro offerta o rifiutarla, non certo mutarne le condizioni d’uso o far valere le proprie ragioni.



Ora i ferraresi aderiscono all’iniziativa di sostenere con post-it o in rete il loro più bello e antico cinema in centro, sanno che se chiude perderanno un punto di riferimento, col quale sono (siamo) cresciuti. Tuttavia gli stessi ferraresi, ancora lo scorso anno, facevano a gara per tesserarsi e quindi avere l’ingresso ridotto. Contraddittorio, no? Se un cinema si vuole sostenere, si deve accettare di pagare il prezzo intero, non cercare lo sconto. Col biglietto intero la gestione resiste meglio ai problemi che il mercato e la concorrenza con la grossa multisala in circonvallazione pongono.



Quindi niente lacrime di coccodrillo, per favore. Se il cinema nelle vecchie sale non interessa più, accettiamo la realtà, ed abbuffiamoci di pop-corn e coca nella multisala a posti numerati ascoltando il vicino che mastica invece di vedere il film, che difficilmente sarà un film d’essai, ma più probabilmente un roboante blockbuster.



Le multisala di nuova generazione le ho viste, non mi interessano e non mi avranno. Piuttosto vado in un parrocchiale con le poltroncine un po’ sfondate.



                                                                                                   Silvano C.©


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martedì 24 settembre 2013

Km 0


Chilometri zero è un inutile slogan da ecologisti della domenica, che lascia il tempo che trova e svilisce il senso generale del concetto di sviluppo sostenibile (ammesso che sia accettabile pure l’idea di sviluppo sostenibile, perché se è sviluppo sicuramente non è sostenibile. È sostenibile solo ciò che non aumenta in un ecosistema chiuso come è la nostra Terra, anzi, regredisce, quindi NON è sviluppo, ma altro).

Se un punto di ristorazione si fregia del nome Km 0 e serve prodotti locali ma precotti e scaldati col microonde, con piatti, bicchieri e posate di plastica, manco si fosse ad una sagra di paese, l’idea è tradita nella stessa forma. Dal punto di vista ecologico non ha alcun senso produrre inutilmente plastica in più da smaltire, ed il servizio sarebbe ben diverso con stoviglie, bicchieri e posate tradizionali. Costerebbe di più? Non lo so, sicuramente sarebbe più coerente.

È una abitudine che grida vendetta quella di consumare acqua minerale imbottigliata in Piemonte in Toscana, oppure viceversa. Però le acque di cerchi marchi sono diffuse sul territorio nazionale, ed hanno proprietà che altre acque non hanno. Come regolare questo traffico col libero mercato? Una riflessione in questo caso sarebbe necessaria, a partire dall’acqua che esce dal rubinetto che non sempre è gradevole all’olfatto o al gusto, anche se magari è garantita e controllata. A Ferrara si beve l’acqua depurata e trattata del fiume Po, a circa 50 km dalla sua foce, quindi dopo aver raccolto gli scarichi di tutta o quasi la pianura padana. Non è propriamente acqua di sorgente, anche se è assolutamente garantita.

Io non ho un orto, e la frutta e la verdura la devo comprare. In alcuni mercatini si trovavo prodotti locali e di stagione, che vengono da comuni vicini. In questo caso Km 0 ha un senso ed a quello cerco di fare attenzione. Tuttavia sicuramente non posso avere arance allo stesso modo, o altri prodotti simili, e il problema dello slogan si ripropone. I gruppi di acquisto solidale pensano sia al produttore locale ma pure alle condizioni di produzione, ed al tipo di prodotto, e non necessariamente si tratta di aziende o zone vicine. In ogni caso cerco arance italiane, mi sembra stupido farle arrivare dalla Spagna o da più lontano.

La storia dei Km 0 diventa ridicola poi in una visiona generale. Avete mai fatto vacanze con spostamenti nulli o quasi? Ecco. se le avete fatto, sicuramente non avete visto altri luoghi, altre persone, altre culture. La vostra conoscenza del mondo non ne ha avuto alcun vantaggio. Se invece avete viaggiato in aereo, chiedetevi quanto carburante ha consumato il vostro mezzo di trasporto, e quante banane avreste potuto far arrivare sulla vostra tavola con quello stesso tipo di inquinamento.

Km 0 è sinonimo di autarchia, per certi versi, di chiusura al diverso, per scelta o per necessità non cambia. Sempre chiusura è, anche se è per difendere le nostre produzioni di eccellenza, note in tutto il mondo. Già. In tutto il mondo. Come si concilia il Made in Italy che deve esportare se vuole essere competitivo con questa idiozia dei Km 0?
Se si vogliono esportare in altri paesi o in altre regioni il Parmigiano-Reggiano, il Chianti, il pomodoro Pachino, la pasta della Basilicata, il prosciutto San Daniele, la mozzarella di bufala campana, il pecorino sardo e così via mantenendo la vicinanza al luogo di produzione è semplicemente impossibile.


                                                                                          Silvano C.©


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sabato 21 settembre 2013

Pistacchio


O per meglio dire: Pistacchi (con la maiuscola, non è una svista) Seguendo i ricordi legati ad una singola parola lo spazio ed il tempo si dilatano, magari anche solo per il periodo che io impiegherò a scrivere, e, forse, tu a leggere. Scusami il tu, ma mi viene naturale, ora.

Ritorniamo però al tema, e non dimentichiamo l’ordine, la classificazione ordinata, altrimenti penserai che le mie sinapsi comincino a cedere…La prima volta che ho visto i pistacchi è stato in una fetta sottile di mortadella di Bologna, una lussuriosa fetta di mortadella che a quei tempi rappresentava ogni ricchezza culinaria possibile, e che univa al piacere di annusarla e poi di gustarla altri piaceri meno legati al cibo, ma al sesso. Non chiedermi perché, non te lo so spiegare, ma è semplicemente così. È un fatto. La mortadella “normale”, da allora, non l’ho più cercata come cercavo quella con i pistacchi, con quegli inserti verdi, che solo in seguito ho saputo cos'erano.


Poi è venuto il gelato al pistacchio, ma molto tempo dopo. Ero cambiato profondamente dal mio primo incontro con questo seme verde e speciale, ed il gusto nel gelato mi ha stupito un poco. Non mi ha deluso, ma neppure entusiasmato. Ne ho solo preso atto.

In seguito ho conosciuto finalmente i pistacchi interi, secchi, venduti salati come le noccioline ed altri piccoli semi o frutti secchi. Questi però sono arrivati tardi, quando ormai al cinema, da ragazzino, mi ero abbuffato con le “bagigie”, le noccioline ancora da sgusciare, i "luvin", i lupini e i "brustulin", i semi di zucca, secchi, salatissimi e raramente ricchi di una bella polpa.
I pistacchi secchi in definitiva sono stati una conquista quasi della maturità, e non pienamente “vissuta“ quindi. 

Il Pistacchio, quello che ha un nome proprio, appartiene (apparteneva?) ad un bambolotto di pezza che ho visto la prima volta a casa di una ragazza che in seguito è diventata mia moglie. Lui arrivava dalla Grecia, dove poi io e Viz siamo andati a più riprese, sempre e rigorosamente passando per la Jugoslavia, per via di terra, in un viaggio lunghissimo e micidiale. Alla fine però il premio era la Grecia, era libertà, era mare, era il piacere di scoprire luoghi studiati sino ad allora solo sui libri, era un po’ di trasgressione, era quello che col tempo si è perduto, prima di arrivare alle tragedie dei nostri giorni.

Quanti Pistacchi, insomma, per ripercorrere con la mente una storia, una lunga storia.

                                                                                    Silvano C.©


( La riproduzione è riservata. Ma non c'è nessun problema se si cita la fonte.  Grazie)

venerdì 20 settembre 2013

Angela

Lui entra depresso nel bar, dove non è solito entrare, né in quello né in nessun altro. Desidera solo distrarsi, vedere gente, e per il resto non cerca nulla, né parlare con qualcuno né ubriacarsi, né cercare compagnia femminile. Non cercando nulla è aperto ad ogni possibilità, anche se non se ne rende conto. Il suo abbigliamento è elegante, da uomo in carriera, ma con toni più smorzati perché non è più un ragazzino da tanto tempo. Ha conservato un certo fascino residuo, solo offuscato da un piccolo appesantimento del corpo, ma nel complesso porta abbastanza bene i suoi 61 anni.

Lei lo nota subito, capisce che potrebbe essere una facile preda, e con calma prepara la sua esca. Il primo approccio però va a vuoto. Lui non vede il taccuino che lei fa cadere con noncuranza mentre gli passa accanto per andare a sedersi al lato opposto della sala. Lei lascia passare alcuni minuti, poi ritorna sui suoi passi e fingendo di cercare trova il taccuino e lo riprende da terra, e lui ancora non sembra vederla.
- Sei un osso duro – pensa lei – ma ti sistemo io, tranquillo.-

Lui pensa agli avvenimenti della giornata, alla fine di un progetto al quale ha lavorato a lungo, che gli è costato mesi di energie, che lo ha fatto litigare in modo forse irreparabile con la sua compagna, che ormai da tre settimane non sente più, neppure al telefono con un breve messaggio. Eppure quel villaggio era un affare, un investimento sicuro. Niente. I grandi capi, che lo avevano sempre considerato la loro mente più acuta, lo hanno abbandonato per seguire un’idea del tutto diversa, su una linea di prodotti dietetici abbinata ad una catena di istituti di bellezza. Il nuovo astro nascente della società è Fabbri, di 23 anni più giovane, ne è perfettamente consapevole. Il suo progetto stroncato è la bocciatura della sua stessa figura. Questione di pochi mesi, ne è certo, poi riceverà comunicazioni molto esplicite, anche se diplomatiche, dalla dirigenza.

Lei stavolta gli si avvicina, sa che lui ancora non si è accorto dei suoi movimenti. Direttamente usa la scusa del cellulare:
- Scusi, mi spiace importunarla, ma vedo che siamo pochi nel locale, e mi sembra la persona più adatta per chiederle un favore. Ho scordato il telefono, e dovrei fare una chiamata urgente di pochissimi minuti. Le spiace prestarmi il suo per…-
Non finisce la frase che lui le porge il cellulare, quasi senza guardarla:
- Prego, tenga e faccia con comodo. -
Lei sorride per ringraziare, si allontana di pochi metri, telefona ad una amica con una scusa e poi ritorna e restituisce l’apparecchio.

Lui finalmente nota quella bella donna che ora telefona dandogli le spalle, giovane, tra i 25 e i 30, elegante, tacchi alti ma non troppo, calze velate, gonna aderente e giacca stretta in vita. Capelli corti e nerissimi. Ha un bellissimo culo, lo può ammirare con calma, ora che lei non lo guarda. Finalmente si distrae dal suo progetto bocciato, mentre lei si gira e torna per restituirgli il cellulare.
- Si accomodi, se le va, le posso offrire qualcosa? Posso permettermi di chiederglielo?-

Lei sorride e si siede accanto a lui, non di fronte come gli sarebbe sembrato più logico, e lo ringrazia, iniziando a parlare di cose che lui neppure capisce. Di nuovo è perso, ma stavolta ha i suoi occhi, di  un verde scurissimo, a pochi centimetri, e sente il suo alito, profumato, caldo. Bevono entrambi un Martel,  lui parla pochissimo, ascolta la sua voce che lo incanta. Ha denti bianchissimi. Per un paio di volte lei fruga nella sua borsa, tra di loro, lo sfiora, e lui avverte il contatto con le sua mani, sente una specie di corrente elettrica che lo attraversa. Neppure mezz'ora dopo però le fantasie che lui aveva iniziato a fare su di lei crollano. Lei si alza, spiega che ora deve andare, ed infatti esce dal locale  in meno di un minuto, mentre lui è ancora in piedi, dopo essersi alzato a sua volta per salutarla.

Il suo uomo l’aspetta in auto, a poca distanza dal bar, a luci spente. Assieme vedono che il bottino è stato buono, 2500 euro in contanti e due carte di credito, oltre a documenti personali che però a loro non interessano. Un po’ le spiace, le era simpatico, così triste, e non si accorto di nulla. Prima neppure l’ha vista, e dopo le guardava solo gli occhi e la bocca, senza dire nulla, mentre lei lo ipnotizzava con frasi senza senso. Le ha guardato sicuramente il culo, ne è sicura, è questo che l’ha spinto ad invitarla a bere. "Ti ho sistemato, come vedi" pensa ora sorridendo mentre il suo uomo non capisce quella strana allegria improvvisa.

Lui esce dal locale pochi minuti dopo, si guarda attorno, ma non li vede, non nota quell’auto, che ha pure i vetri leggermente oscurat, tra le tante altre parcheggiate. Si è sicuramente accordo dello scherzetto che lei gli ha fatto. Non ha trovato il denaro per pagare le consumazioni.  Rientra, ma ritorna fuori in pochi minuti. Loro restano fermi, ad osservarlo, non vogliono farsi notare partendo proprio adesso.

Un gruppetto di tre ragazzi che hanno tutti berretti con la visiera calcati in testa compare in quel momento dall’altro lato della strada, lo notano, a quell’ora non passa più nessuno, si avvicinano, lo circondano. Ora sono ad almeno 100 metri dal bar, il barista non li può vedere, discutono animatamente. Un ragazzo sembra avere un coltello in mano, lo avvicina al volto dell’uomo. Lei vede la scena, la sua mano va veloce al braccio del suo uomo, gli manda una preghiera muta, e lui capisce.

Augusto si allena due ore al giorno in palestra, pratica kickboxing da dilettante, ha passato 18 mesi in galera per una piccola zuffa quando ancora non aveva capito come evitare di farsi beccare. Non ha paura dei tre teppisti, anche se potrebbero essere tutti armati. Senza che neppure se ne accorgano sono a terra tutti quanti, colpiti con pochi movimenti da Augusto nei punti dove fa più male. Prima di potersi rialzare impiegheranno diversi minuti, e ricorderanno per un po’ di tempo che certe bravate a volte si pagano. Si rassicura che l’uomo aggredito stia bene, lo consiglia di tornare nel bar e chiamare aiuto. Poi si allontana, torna alla sua auto, e parte, con Angela seduta al suo fianco.

Lui torna nel bar, e più tardi, alla polizia, non sarà in grado di descrivere con precisione l’uomo che lo ha aiutato, né l’auto con la quale si è allontanato. No, non ha fatto in tempo a prendere la targa. Si, quelli che lo hanno aggredito sono quei tre che ora sono stati fermati a un isolato di distanza. La ragazza? Si, era molto bella, capelli corti e neri, occhi quasi neri. Ma non sa dire altro. Gli ha portato via soldi e documenti, si. Peccato per i documenti, ma non sarà un problema, spera. Si, quella ragazza era proprio bella, sembrava un angelo.

                                                                        Silvano C.©


( La riproduzione è riservata. Ma non c'è nessun problema se si cita la fonte.  Grazie)

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